Indubbio che la rivelazione conclusiva getti una luce differente sulla pellicola, c’è subito da dire che il supposto cambio di prospettive è ben lontano da essere un escamotage innovativo (penso che la lista di registi che si sono giocati una carta simile sia davvero lunga), tuttavia la scossa che somministra alla narrazione è tale da rimettere in discussione ciò che si è visto fino alla scena della fuga tra i boschi con il figlioletto. È plausibile che ad una riflessione ex post si possano rintracciare degli indizi che enucleino i confini dimensionali del veduto (laddove le due dimensioni non sono altro che Realtà & Finzione), ad esempio è riscontrabile di come Vi si lamenti di impersonare ruoli di poco spessore nelle soap-opere televisive ed ecco che invece con il plongée finale si suggella per lei il passaggio in un cinema maggiormente impegnato. Il confine tra fiction e non-fiction è pertanto precario e vivacizza la faccenda al punto di permettersi qualunque sterzata, anche ragguardevole, si veda la chiusura nella roulotte che è sostanzialmente la celebrazione dell’Attrice, la questione della plastica facciale appartiene alla sceneggiatura, per rientrare in sé basta tirare una riga di rossetto sullo specchio. Ciò può alimentare dubbi sulla figura del santone che sembra essere trasmigrato dal film al suo esterno (indossa anche gli stessi abiti), ma rientra nel gioco di Ratanaruang, dati da interpretare liberamente, per chi ne avrà voglia.
martedì 30 marzo 2021
Samui Song
sabato 27 marzo 2021
Daimi
Governata la superficie Grahtø Sørensen ci informa sul fulcro della vicenda, ovvero la questione materna capace di annoverare un’entrata filmica (se così può essere definita) che si guadagna un certo rispetto, in quelle dita rigide ed insanguinate che penzolano dalla vasca da bagno si situa un po’ tutto il senso dell’opera, la morte, e quindi il distacco definitivo, è respinta dalla vitalità di una teenager, di una figlia che, consapevole o meno della grande illusione creata, conduce un’esistenza a parte, ma il corpo della madre, lasciato sempre fuori campo ad esclusione di alcuni dettagli, è un pianeta che reclama il proprio satellite e nel momento clou dove l’acqua assume il simbolo di catino amniotico, accade un nuovo inizio, si sfonda il muro della realtà (già sotto attacco per tutta la durata del corto) e si dà il via ad una successiva continuità. Una nuova mamma e una nuova figlia escono dal guscio.
Nota a margine: è facile stupirsi, a volte esagerando, sulle qualità recitative dei bambini nel cinema quando forse per loro privi di filtri e inibizioni adulte è addirittura più facile che per i professionisti, ma accidenti, questa Bebiane Ivalo Kreutzmann da quel che si vede in Daimi sembra nata per stare davanti ad una videocamera.
mercoledì 24 marzo 2021
A Decent Woman
Poi gli ultimi venti minuti mutano la connotazione del film. Emerge un altro significato: qui non si parla tanto di una vicenda personale, non è soltanto la storia di Belen, è una storia collettiva che traspone per immagini le disuguaglianze sociali fuori dallo schermo attraverso un’esacerbazione dal carattere lanthimosiano. Ora, ci sarebbe da capire se sia stato più abile il regista a mimetizzare i piccoli segnali d’allarme che rimandavano ad una mappa globale più grande (il soffermarsi sulle reti), oppure più tonto il sottoscritto a cui sono sfuggiti, almeno fino alla mattanza conclusiva, i potenziali sviluppi della situazione inscenata, fatto è che comunque l’insurrezione dei naturisti che vogliono vendicare il compagno ucciso è sì e no dilettevole e imprime una svolta non così in linea con ciò che si è visto fino a quel momento, perlomeno narrativamente parlando perché di contro l’intelaiatura metaforica dall’immediato riscontro ci segue passo passo. Però vedibile dài, sufficiente per tre quarti di proiezione con scatto rispettabile sul finale.
giovedì 18 marzo 2021
Demoni i tuoi occhi
C’è allora un ulteriore interrogativo: è possibile una lettura più profonda del tutto? Cioè si può andare oltre la patina voyeuristica? Non è un mistero che vi siano degli elementi adibiti ad una autoriflessione: Oliver di mestiere fa il regista, è uno che guarda, anche se stesso sgranando gli occhi davanti allo specchio, e in qualche modo è l’alter ego di Aguilera (le domande che gli vengono poste durante il picnic sembrano rivolte a lui), inoltre è lampante l’attenzione riposta nell’azione che sostanzia il cinema, nel vedere, vedere dell’altro, altro, oltre, qui l’allegoria diegetica è costituita da uno spy video ovale posizionato nella camera di Aurora. Ma vedere cosa? Se ripensiamo a Naufragio quello che si vedeva era proprio ciò che non si poteva vedere e che infatti non vedevamo, almeno non con le pupille, in Demonios tus ojos il campo dove ci tocca dibattere è banalmente illustrativo pertanto il cinema che si genera, pur pensandosi, non supera la barriera del disegnino. Se lo si vuole la conclusione invita ad una susseguente considerazione, Aguilera infatti vira con decisione nella coscienza interna della vicenda piazzando Aurora davanti a Cannibal Holocaust (1980), il feticcio per antonomasia dell’exploitation, le interpretazioni sono aperte: la ragazza ha definitivamente perso ogni residuo di innocenza? Demoni i tuoi occhi è consapevole della sua forma e della sua sostanza guardando a Deodato come un’origine, un focolaio luciferino?
Bah e ancora bah. Ragionare su prodotti del genere è lecito sebbene vi siano ciclopiche magagne riconducibili al materiale finzionale da far accapponare la pelle, snodi, soluzioni, momenti che non sfigurerebbero nelle scene di raccordo di un filmetto hard (maddài: Oliver che si infratta con Aurora ed il fidanzatino che li becca amoreggiare, per non dire del biasimevole fratellone colto sul fatto con la migliore amica della sorellina). È noia, è pena, se si vuole operare nella fiction è indispensabile usare un taglio verosimigliante, se non può essere vero che ce ne venga data almeno l’apparenza, e se così non è si scade in una comicità involontaria che trascina via anche la manovra di ispessimento concettuale.
lunedì 15 marzo 2021
The Last Fakir
La storia è liberamente ispirata da un racconto di Luis Sepúlveda ed illustra come può le vicende di un impresario che si arrangia alla bell’e meglio organizzando spettacoletti con protagonista Ali Kazam, l’ultimo fachiro. L’ironia che aleggia nella vicenda (l’unico aspetto appena accettabile) è accompagnata da una confezione scolastica di dozzinale fattura, la non pertinenza cronologica degli eventi è un brodino che si manda giù perché il menù non offre altro, il nodo della questione poi, ovvero la possibilità che il fachiro abbia davvero dei poteri e che quindi a differenza del suo manager non sia un impostore, è una sciocchezzuola che, da classica tradizione narrativa, sfocia nel finale a sorpresa, conclusione che tra l’altro dovrebbe divergere dal testo dello scrittore cileno. Detto ciò: kalinýchta.
giovedì 11 marzo 2021
Violencia
Cose a mio avviso da ritenere apprezzabili: vero che non ci sono collegamenti manifesti, altrettanto vero che la terna di storie ha una struttura temporale à la Joyce, iniziano al mattino e si concludono alla sera; le immersioni fluviali del detenuto, oltre a suggerire un moto di libertà fungono, cioè l’ultima funge, da stacco verso il frammento seguente; l’assassinio a bruciapelo del ragazzo e dell’amico; l’autorità emanata dal leader del gruppo paramilitare (quindi, complimenti al suo interprete). Questo è quanto, poi nell’approccio che il sottoscritto ha nei riguardi di una visione a parte rari casi egli (ovvero: io) vorrebbe ricevere sempre qualcosa di più dall’esemplare visionato, richiesta che mi sentirei di avanzare anche per la pellicola di Forero. Forse è che la necessaria aderenza al tema principale abbassa un po’ le aspettative perché una volta inteso il procedimento si finisce in un imbuto del quale si sa all’incirca dove andrà a parare, l’effetto sortito non sarà depotenziato ma nemmeno intensificato come era auspicabile, se si fosse lavorato in direzione di una trascendenza, di una metafisica dell’immagine, la misura avrebbe acquistato verticalità e la stazza del film ne avrebbe giovato, invece si resta in un orizzonte piuttosto concreto che non permette ac(/s)censioni memorabili.
¡Muchas gracias Dries!