Piccolo riassunto.
Anno 1997: Pen-Ek Ratanaruang esordisce al Festival di Berlino con Fun Bar Karaoke. Il film non è di quelli indimenticabili ma getta le fondamenta ad un discorso autoriale che vede la personalizzazione del genere crime come stella polare. E infatti non passano nemmeno due anni che il regista thai confeziona un bon bon golosissimo: 6ixtynin9 (1999) è un meraviglioso incontro/scontro fra noir e commedia in grado stabilizzarsi su frequenze ottimali. Poi succede che Pen-Ek si allontana dalla delinquenza urbana, dagli omicidi a sangue freddo, dai traffici illeciti; con Last Life in the Universe (2003) la barca dell’autore salpa verso un mare più astratto, misteriosamente sospeso, attento a penetrare nelle persone senza però dimenticarsi mai dei suoi amati vizietti (l’incipit di Invisible Waves, 2006). Ma è nel 2007 che Ratanaruang si afferma definitivamente: Ploy è un gioiello di inquietudine, di ammiccamenti obliqui, lievi, incandescenti. Dopodiché arriva Nymph (2009), la cui sostanza ha ormai poco a che vedere con gli intenti dei primordi, e che arricchisce il cineasta di un ulteriore sguardo all’interno del suo carnet: quello contemplativo; la pellicola si rivela, almeno nell’ambientazione, molto weerasethakuliana ed il risultato, sebbene non impeccabile, merita almeno un tentativo di visione.
Finalmente giunge il 2011: a chi pensava che Ratanaruang si fosse definitivamente sganciato dal thriller ecco la secca smentita: Headshot è un ritorno al passato che fa bene al thailandese e che suggerisce una massima del caso: proiettili e mafiosi, se usati con competenza, fanno sempre il loro sporco lavoro.
Sofisticato dal flashback, lo scheletro della storia è un pingpong tra prima e dopo in cui le coordinate si fanno via via più flebili: inizialmente viene offerto il salvagente delle scritte sovraimpresse, successivamente è compito dello spettatore carpire dai dettagli (il taglio di capelli!) in quale dimensione temporale si trovi la narrazione. La struttura cosiffatta non si può certo definire seminale – ad esempio il cinema americano ha trovato in Memento la definitiva applicazione dell’analessi alla settima arte –, ma l’orchestrazione complessiva è più che buona, e poi alcuni raccordi, come la mano di Tiwa sul pavimento, per impostazione e proposizione sono ben congegnati.
Ratanaruang non si ferma alla buccia e inserisce una polpa che va al di là dei loschi giri in cui è avvinghiato il protagonista. Utilizzando l’escamotage del cappottamento (in breve: Tul si becca un proiettile in testa, al risveglio vede tutto sottosopra), Mr. Pen-Ek si muove su piani diversi capaci di trattare sia la sfera personale del ragazzo che vede la sua vita segnata da continui ribaltoni (da poliziotto ad assassino, da assassino a monaco), sia lo spettro sociale della realtà in cui le cose vanno al contrario di come dovrebbero (un ministro ostinato ad insabbiare verità scomode).
L’accessorio della vista capovolta apre dunque la strada a dei cortocircuiti (sotto)testuali che impreziosiscono un susseguirsi di situazioni ad alto tasso adrenalinico. Pur non esponendosi per estrema innovazione, il piacere nell’assistere alla proiezione è garantito dal primo all’ultimo minuto.
E il merito va a lui, a Ratanaruang, ricercatore di forma come quelli che piacciono tanto ai cinefili (vogliamo parlare della soggettiva iniziale?), autore che a questo punto necessiterebbe di una cassa di risonanza maggiore. Speriamo che il tempo, in questo caso, sia galantuomo.
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