Che dire quando non si sa che dire nonostante la pellicola offra argomenti e spunti di valido interesse? Beh, innanzitutto si può partire dall’inizio che coincide con un esordio, quello di Leos Carax, al tempo ventiquattrenne (!), che si presentava sfacciatamente a Cannes con Boy Meets Girl (1984); ma c’è un’ulteriore tappa primigenia, ovvero il sodalizio filmico fra il regista e l’attore Denis Lavant che si protrarrà con una sola interruzione (Pola X, 1999) fino all’attuale vertice artistico caraxiano: Merde (2008); tale connubio ha qui le sue fondamenta e lo si comprende nel gioco di specchi imposto da Leos: il Denis di questo film è infatti un aspirante filmmaker, un po’ strampalato e un po’ reietto come Carax stesso sarà sempre nella carriera a venire.
Altra informazione utile è quella che vede il protagonista con il nome di Alex, l’appellativo verrà riproposto anche per i due film successivi, Rosso sangue (1986) e Gli amanti del Pont-Neuf (1991), creando così una trilogia ufficiosa che ha come trait d’union il dinamico (perché sempre di corsa) personaggio interpretato da Lavant.
Che dire quindi se non che da Carax era lecito aspettarsi un esordio così, così dettagliato nel comparto estetico da far strabuzzare gli occhi; d’altronde era già evidente, il francese sa il fatto suo, e il bianco e nero che mai verrà riproposto non depotenzia per niente il suo occhio, anzi, il carico dicotomico delle tonalità rende la storia come astratta, sospesa, un’opera futuristica intatta.
Carax gioca e sparge chicche d’autore sul terreno: gli improvvisi stacchi in nero, tutte le conversazioni telefoniche o quella iniziale al citofono, e poi l’attenzione per le prospettive (notare Alex nella cabina alla fine), gli attori nell’anatomia di una singola scena (il party è composto da tanti piccoli sottoquadri di geometrica bellezza), il finale notevolissimo in cui la mdp puntata verso il cielo stellato compie una rotazione di 360 gradi, sono tutti semi che allietano felicemente il nostro nervo ottico, ma, e qui sta il fardello che pesa sulle spalle del regista, poco o niente germoglia, così nel tragitto verso il cervello questa sequenza di splendide informazioni si ferma da qualche parte senza riuscire a deliziare anche la mente.
Scortecciando la buccia estetica si avverte la mancanza di una polpa adeguatamente parificabile, e ciò si traduce in uno strambo susseguirsi di situazioni che denotano l’anima eccentrica di Carax: a volte prodigioso, altre logorroico, ed altre ancora gongolante onanista.
Boy Meets Girl è dunque manifesto del cinema bislacco di Leos Carax, opera prima per lui seminale, punto di partenza per uno che forse è stato troppo sottovalutato, ma che forse, a pensarci bene bene, il suo non-successo se l’è cercato. E per questo è da stimare.
Altra informazione utile è quella che vede il protagonista con il nome di Alex, l’appellativo verrà riproposto anche per i due film successivi, Rosso sangue (1986) e Gli amanti del Pont-Neuf (1991), creando così una trilogia ufficiosa che ha come trait d’union il dinamico (perché sempre di corsa) personaggio interpretato da Lavant.
Che dire quindi se non che da Carax era lecito aspettarsi un esordio così, così dettagliato nel comparto estetico da far strabuzzare gli occhi; d’altronde era già evidente, il francese sa il fatto suo, e il bianco e nero che mai verrà riproposto non depotenzia per niente il suo occhio, anzi, il carico dicotomico delle tonalità rende la storia come astratta, sospesa, un’opera futuristica intatta.
Carax gioca e sparge chicche d’autore sul terreno: gli improvvisi stacchi in nero, tutte le conversazioni telefoniche o quella iniziale al citofono, e poi l’attenzione per le prospettive (notare Alex nella cabina alla fine), gli attori nell’anatomia di una singola scena (il party è composto da tanti piccoli sottoquadri di geometrica bellezza), il finale notevolissimo in cui la mdp puntata verso il cielo stellato compie una rotazione di 360 gradi, sono tutti semi che allietano felicemente il nostro nervo ottico, ma, e qui sta il fardello che pesa sulle spalle del regista, poco o niente germoglia, così nel tragitto verso il cervello questa sequenza di splendide informazioni si ferma da qualche parte senza riuscire a deliziare anche la mente.
Scortecciando la buccia estetica si avverte la mancanza di una polpa adeguatamente parificabile, e ciò si traduce in uno strambo susseguirsi di situazioni che denotano l’anima eccentrica di Carax: a volte prodigioso, altre logorroico, ed altre ancora gongolante onanista.
Boy Meets Girl è dunque manifesto del cinema bislacco di Leos Carax, opera prima per lui seminale, punto di partenza per uno che forse è stato troppo sottovalutato, ma che forse, a pensarci bene bene, il suo non-successo se l’è cercato. E per questo è da stimare.
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