La carta non scomparirà.
Ma penso anche che non è così fondamentale il mezzo –
che sia carta o qualcos’altro. Mi pare davvero che sia importante
cosa si fa, non su cosa o con cosa. Nessuna delle mie illustrazioni
viene consegnata sul classico supporto di carta. Io lavoro col
digitale, e disegno su portatili e tablet.
(Reinis Petersons, il regista di Ursus [2011], da qui)
Nelle parole
dell’animatore lettone Petersons c’è una piccola verità,
ammesso che le verità possano essere piccole: un artista
visivo del terzo millennio non può più prescindere
dall’uso del digitale, questo vale per il live action (alla
pellicola profetizzo un’aspettativa di vita intorno ai tre lustri,
non di più, dopodiché con ogni probabilità
subirà un normale processo di museificazione, ma di questo i
bolsi spettatori non si accorgeranno nemmeno), e come ben si sa anche
nel campo dell’animazione. Tuttavia un tale
preambolo rischia di portare fuori strada perché Petersons ha
disegnato il suo Ursus completamente a mano con carboncino e
tante sfumature, tutte tendenti al nero. Certo è che se il
corto in questione fosse nato dalla matita di un Aleksandr
Petrov qualunque (mi si perdoni, ma è l’unico illustratore “classico”
che conosco un po’ di più), il risultato penso che avrebbe
avuto un grado inferiore di fascinazione. Ciò è dovuto
al fatto che sebbene il processo creativo di base possa essere lo
stesso del regista russo (neanche per sogno: Petrov usa una tecnica
tutta particolare, voglio dire che ambedue non utilizzano CGI o
diavolerie del genere), il registro estetico di Petersons
vince per il proprio afflato moderno. Non c’è la tipica
esplicazione del disegno né la pomposità scenica, al
contrario troviamo sporcizia, imprecisione, continui sfarfallamenti e
sbrodolii di tratto, il che capisco che non possa bastare per
identificare come “moderno” un prodotto di animazione, ma i
principi di un lavoro che si rivolge perlomeno al presente, dire al
futuro è un’esagerazione, sono rilevabili, forse più
a livello intuitivo che fisiologico.
Poi la storiella è
quella che è e se l’opera non decolla lo si deve alla
materia narrativa che porge il fianco alla derivazione. Più
che altro sono i concetti ad essere già stati visti e uditi
nel genere di riferimento, d’altronde un orso antropomorfo che non
se la passa troppo bene tra il poco appagante lavoro al circo e
l’utopia di una natura che possa riaccoglierlo sono stati
parafrasati negli anni da all’incirca tutte le case di animazione
del pianeta (non mi riferisco al caso specifico, piuttosto alla
tendenza ad umanizzare l’animale, un giorno gradirei assistere ad
un uomo animalizzato… meglio di no, la tv basta già di suo),
e così pure il finale che si accoda al dogma della
conciliazione col pubblico ubbidiente. Oh, però il tatto non
manca e la partitura ha una flebile risonanza nostalgica. E l’orso,
comunque, ispira tenerezza.