mercoledì 29 aprile 2009

The Seventh Continent

Il settimo continente (1989), Benny’s Video (1992) e 71 Fragments of a Chronology of Chance (1994) compongono la cosiddetta trilogia della glaciazione di Michael Haneke.

È incredibile di come Haneke al suo esordio assoluto (aveva girato soltanto alcuni film per la TV) possegga una tale dimestichezza con il linguaggio cinematografico, e una tale cifra stilistica del tutto personale, che Der siebente Kontinent potrebbe essere tranquillamente il suo film che presenterà a Cannes 2009 (Il nastro bianco).
Anche per questa pellicola non poso fare a meno di tirare in ballo quelle due magiche paroline che sono presenti nel 90% delle recensioni riguardanti il cineasta austriaco: regia distaccata. Ovvero lo stile più vicino a quello documentaristico, uno stile freddo, sordo, insensibile, in totale antitesi con ciò che accade sullo schermo: una lenta cronistoria di situazioni disperatamente drammatiche senza alcuna via di uscita. Eppure, e qui sta secondo me la vera forza del cinema di Haneke, in questa atmosfera glaciale quanto un obitorio, lo spettatore si sente totalmente coinvolto, ed è spinto ad un naturale sforzo ermeneutico degli eventi, perché Haneke non dà nessuna risposta, ma “soltanto” domande.

Un marchio di fabbrica inconfondibile è l’immobilità della macchina da presa che dà vita a sequenze che sembrano eterne ed inutili, ma nelle quali si nascondono i lati più profondi, più nascosti.
Perché una famiglia composta da padre, madre e figlioletta, che apparentemente ha tutto: denaro, lavoro, una bella casa e un auto, decide di barricarsi in casa e uccidersi lentamente?
Forse la risposta risiede in queste parole di Haneke: “La nostra percezione è frammentaria. È impossibile rappresentare tutta la realtà in cento minuti di film, allora voglio mostrarne brevi frammenti.” Non si può, dunque, secondo lui descrivere in un lasso di tempo così ristretto la portata emotiva che ha lo sgretolamento di una famiglia. E allora il regista inserisce dei frammenti: la madre che scoppia a piangere nell’autolavaggio è l’emblema di tanti altri piccoli pezzetti disseminati nella pellicola. Non sappiamo le origini di questo pianto, le motivazioni si possono soltanto supporre, problemi al lavoro?, problemi col marito? Non si sa, di certo sotto quel sepolcro imbiancato fatto di beni materiale c’è del marcio. L’identificazione con gli oggetti della casa, con l’auto, e con il denaro, aliena a tal punto la famiglia dalla realtà, e da se stessi, che sceglie drasticamente di suicidarsi.

Il film nei primi minuti indugia intelligentemente sugli oggetti di uso quotidiano: una sveglia, un paio di pantofole, uno spazzolino, del dentifricio, il tavolo imbandito per la colazione. Tutto questo verrà distrutto da una rabbia cieca. Padre madre e figlia, armati di forbici e martelli, taglieranno vestiti e tende, distruggeranno mensole e tavolini, riducendo la loro casa ad un cimitero di frammenti che ormai non hanno più valore, perché rappresentavano l’essenza del nucleo famigliare. Haneke capisce già nell’89 che nella nostra epoca l’uomo vale per quel che HA e non per quel che È, la sua professione determina la sua posizione sociale. Una volta divenuti consapevoli di questo vuoto interiore, alla famiglia non resta rinnegare ciò che per loro è sempre stato importante (sono strasicuro che vi farà più male vedere i soldi gettati nel cesso che l’acquario distrutto a martellate), ma senza queste cose per loro la vita non ha senso e non resta che una lenta e inesorabile morte. Ricorderò per molto molto tempo i rantoli fuori campo della madre agonizzante per i farmaci ingeriti, il preludio di alcune devastanti sequenze successive (Funny Games, 1997, su tutte).

Se non avete mai visto nulla di Haneke (uscite immediatamente da questo blog), Il settimo continente è il film giusto per iniziare. Lo reputo uno dei suoi migliori lavori, nonché uno dei film più duri che i miei occhi abbiano visto. Senza una goccia di sangue, senza una parolaccia, senza un pugno o una pallottola.
Stimola il Pensiero.

lunedì 27 aprile 2009

Crocodile

Pare che Kim Ki-duk prima di Crocodile (1986) non avesse mai preso in mano una macchina da presa.
Non ci credo, ma ci spero.
Perché mi piace pensare che la genialità trasudi dalle idee semplici e autentiche, audaci, anche, ma con un tocco di sincera ingenuità. Non vorrei stare qui a scrivere che in Crocodile c’è molto (o forse tutto) del Kim che verrà, perché l’hanno già detto in molti, però è così, e non si può fare altro che prenderne atto. In un brodo primordiale si mescolano, anche senza un preciso criterio, le ossessioni del regista che caratterizzeranno i suoi lavori successivi.

C’è l’acqua, silenziosa testimone di questa torbida vicenda di cui anch’essa fa parte: accoglie nel suo ventre i suicidi, e come un oltretomba dantesco l'acqua del fiume è limacciosa, sporca, putrida. Ma solo in superficie. Sotto, il Coccodrillo nudo trova una pace quasi estatica, in netto contrasto alla vita che lo attende ogni volta che riemerge. Coccodrillo è un violento, è manesco e iracondo. Ma al contempo è un “looser”: perde a poker, perde la dignità, perde denti e sangue, e rischia anche di perdere il pene.

C’è il tempo, non ellittico ma nemmeno in progressione, piccoli frammenti, schegge di ordinaria violenza. Ma se è vero che in ogni frammento vi è parte dell’intero, ecco che i tre personaggi che vivono sulle rive in cemento del fiume sono i tre volti, i tre pezzi, di una sola persona. Il tenero bambino è il futuro, il nonno è il passato. Coccodrillo il presente. Tre facce di un’unica medaglia, un uomo che abbraccia tutto un arco temporale relegato ai margini della comunità senza alcuna possibilità di tornare a galla. È esclusa ogni tipo di mobilità sociale, se non discendente (ma mi chiedo se può andare peggio di così), e la società stessa è praticamente insensibile a questi reietti, non compreranno nemmeno le gomme da masticare al povero bimbo. L’uomo “trino” cade in uno stato di anomia durkheimiana per cui la mancanza di leggi, soprattutto morali, lo porta al suicidio. Quando il bambino spara al vecchio è come se uccidesse se stesso, quando il vecchio muore è come se morisse anche Coccodrillo. Non c’è futuro per lui, nemmeno per il bambino.

C’è l’amore, sempre sofferto, tragico, violento, non corrisposto, che si fonde inevitabilmente con la morte. Nel finale, debitore, (o omaggiatore?) a L’Atalante (1934), il tempo si immobilizza sotto la superficie del fiume, l’amore finalmente trionfa, ma è un trionfo amaro, stretto nella morsa di una manetta. E poi l’acqua, ancora lei. Cornice di un quadro famigliare che in superficie non potrebbe mai esistere, luogo atemporale, tomba eterna per sogni e desideri.

Grezzo, spesso confuso nel susseguirsi degli eventi, ma sincero. Filtrano i primi bagliori che nelle successive opere kimmiane diverranno luce abbagliante.

venerdì 24 aprile 2009

Cobra Verde

Un film di ombre.

Ultima opera della premiata ditta Herzog-Kinski datata 1987. La collaborazione tra il regista bavarese e l’istrionico attore ha partorito 5 film (Aguirre, Nosferatu, Fitzcarraldo, Woyzeck, Cobra Verde), i cui titoli si rifanno in tutti e 5 i casi al protagonista principale: Klaus Kinski. Una centralità messa in risalto fin da subito che contribuisce a scolpire 5 personalità di 5 differenti personaggi che hanno però in comune lo stesso bagliore di follia negli occhi. A volte egocentrica come quella di Aguirre, altre volte malinconica come il vampiro Nosferatu, ma anche lucida e utopica in Fitzcarraldo, per finire con quella nevrotica di Woyzeck. Tutti personaggi solidi, veri, indimenticabili per chi li ha visti.
Forse il bandito Francisco Manoel Garcia Da Silva, detto Cobra Verde, esce sconfitto nel paragone con i suoi “fratelli” kinskiani. Non che l’attore si risparmi, o che sia sottotono, niente di tutto ciò. Ma questa volta lo sguardo impertinente di Herzog non riesce a destrutturare la fisionomia di Kinski/Cobra verde, che di tutti i personaggi citati prima è il più oscuro, contorto, amorale (anche più di Aguirre), “solitario tra i solitari” come annuncia un’improbabile violinista. E finisce per essere il meno emp(simp)atico.
È la ballata di un personaggio difficile che si muove in un film altrettanto difficile dove il tempo e lo spazio perdono di valore. Si apre in una miniera a cielo aperto, prosegue in una piantagione brasiliana e si conclude sulle rive di una spiaggia africana. Forse è il contrario, forse no. Non importa, l’occhio di Herzog rivela eserciti di schiavi neri che danzano all’unisono in un ballo violento, ipnotico, addestrati da Cobra Verde per una battaglia già persa. L’oceano di schiavi che calca la scena non serve però al negriero per avvertire un po’ di calore, il suo cuore è di ghiaccio in una terra infuocata. Non basteranno neanche 61 figli avuti con le sue servitrici a colmare la solitudine che lo attanaglia, e non basterà nemmeno l’illusorio potere datogli dal nipote del re per ritrovare l’uomo che è, che era, o che non è mai stato. Emblematica la scena iniziale in cui Cobra Verde discende una miniera a cielo aperto ricoperto di putrido fango che maschera i suoi lineamenti trasformandolo in un essere amorfo e oscuro, un’ombra. Un presagio di morte che sfiora soltanto con la decapitazione in cui il re gli dipinge di nero il volto, e che invece lo abbraccia per sempre nel finale.

Un finale grandioso.
Sulla battigia l’ex bandito si appresta a spingere una barca in mare per fuggire, forse, in quel regno di neve che uno storpio (triste profeta) gli aveva raccontato, mentre sullo sfondo un nero deforme si avvicina. Cobra Verde si dimena nel tentativo di spostare il barcone, ma la chiatta resta ancorata all’arenile. Nello sforzo disumano si lascia cadere nel ventre del mare che lo cinge con le sue onde fino a farlo sparire, intanto la creatura mefistofelica lo osserva svanire nell’acqua. Un essere tenebroso, amorfo, solitario. Un’ombra. È l’anima del negriero che si vede morire, un’anima senza cuore.
La ballata (l’ennesima di Herzog) finisce nella parole di alcune schiave, non sappiamo cosa dicono ma sembrano felici. Le parole che le precedono sono rivelatrici: "Un giorno gli schiavi venderanno i loro padroni e voleranno via, liberi".
Cobra Verde era schiavo di un male invisibile e la morte lo ha liberato, gli schiavi erano i servitori di Cobra Verde, e ora sono liberi.

Non lo consiglierei spassionatamente, ma potrebbe essere un’esperienza per chi vuole conoscere il cinema “che sta sotto”.

mercoledì 22 aprile 2009

Baise-moi - Scopami

Nadine è una prostituta che cerca di (soprav)vivere nella periferia francese. Uccide la coinquilina dopo un diverbio e si rifugia dal suo amico protettore, nonché tossicomane. Ma qui assiste al suo omicidio e decide di scappare.
Manu ha girato alcuni film porno per racimolare qualche soldo. Un giorno viene stuprata insieme ad un’amica da un gruppo di uomini. Ritornando a casa il fratello nota i lividi e prende subito la pistola per andare a vendicarla. Lei si incazza perché non le ha chiesto come sta, ma solo chi è stato, così gli spara.
Nadine e Manu si incontrano per caso nel sottopassaggio di una metropolitana e iniziano un’avventura on the road stile Thelma & Louise (1991), lasciandosi dietro fiumi di sangue e di sperma.

Sembrerebbe tutto normale a leggere la trama. Una rivisitazione de L’odio (1995) sul degrado sociale in Francia. Sembrerebbe, appunto.
Si dice che quando Baise-moi fu presentato al Festival di Locarno nell’Agosto del 2000, le due registe: Virginie Despentes (autrice anche del romanzo ispiratore) e Coralin Trinh Thi (ex porno-star), alla fine della proiezione si erano volatilizzate, mentre nella sala i fischi si sprecavano.
Io ho due speranze: che gli spettatori NON abbiano fischiato per le scene pornografiche e che le due autrici NON siano “scappate” a causa di tali inserti. Se c’è un motivo per cui il film va bocciato è semplicemente perché è brutto. La pornografia non deve essere una discriminante sul giudizio globale. Se non ci fossero state fellatio inquadrate nei minimi particolari, o penetrazioni in primo piano, Baise-moi non ci avrebbe guadagnato niente. L’impressione è che si sia cercato di far risaltare un film terribilmente anonimo infarcendolo di sequenze porno, ma se la pellicola non ha una solida base ecco che l’operazione fallisce miseramente.
È un po’ come tamarrare una 500. Puoi fare l’assetto, appiccicare spoiler, mettere minigonne e potenziare il motore, ma in fin dei conti resta una 500. Con o senza ‘sta roba.
C’è da tenere conto anche del fatto che intorno all’opera si creò un hype non da poco visto che dopo tre giorni fu radiato dalle sale cinematografiche a causa delle vibranti proteste, e come spesso accade la fortuna di questo genere di film non la fanno i botteghini ma il tambureggiante passaparola che si gonfia di bocca in bocca, anche se poi, a visione ultimata, dopo che dialoghi veramente ignoranti hanno violentato i nostri timpani (sentire la metafora di Manu sullo stupro per credere ..."nella mia fica non ci lascio niente"...), una fotografia povera senza luci artificiali neanche le due autrici fossero Lars von Tier, e musiche vomitevoli (ma questa è una mia idiosincrasia verso il rap francese), non resta che una sentenza: “ma vaffanculo va’”.

Allora, se interessa l’argomento porno+”mainstream” consiglio 9 Songs (2004) di Winterbottom. Superiore sotto tutti i punti di vista.

lunedì 20 aprile 2009

Dove sognano le formiche verdi

Ripercorrere la filmografia di Werner Herzog è come tracciare con un dito strade invisibili sulla cartina del mondo.
Parte dalla Grecia dove gira Segni di vita (1968), il suo primo film, attraversa l’Africa per poi dirigersi in Perù dove filma quello che probabilmente è uno dei suoi film più famosi: Aguirre (1972). Nel 1976, durante il montaggio di Cuore di vetro, si precipita nell’isola di Guadalupa dove un vulcano sta per eruttare, da questo viaggio nascerà il documentario La Soufrière. Verso la fine degli anni ’70 ritorna in Sud America per dare vita al suo lungometraggio più epico: Fitzcarraldo (1982).
Gli anni ’80 rappresentano un periodo opaco per il regista bavarese, girerà soltanto due film: Cobra Verde (1987) e, appunto, Dove sognano le formiche verdi (1984).
Il dito, questa volta, si ferma in Australia.

In un luogo imprecisato dell’ Australia settentrionale una società mineraria vuole trivellare il sottosuolo in cerca di uranio. Un gruppo di aborigeni nativi del posto si oppongono fortemente (ma in maniera pacifica) in quanto rivendicano la sacralità del posto (uno di loro dirà al geologo Hackett che è come se per un cristiano buttassero giù una chiesa) e l’appartenenza profonda alla propria terra, che fa da culla a misteriosi formiche il cui sonno sarebbe sacro e d’importanza globale.
La multinazionale tenta di raggiungere un compromesso con i capi tribù che inizialmente accettano un aeroplano come incentivo per la trattativa. Ma la diatriba non si sblocca e finisce in tribunale dove la corte dà ragione alla società mineraria. I lavori riprendono mentre l’aereo con a bordo alcuni aborigeni va a schiantarsi sulle montagne. L’ala spezzata verrà vista come quella di una formica gigante, e Hackett smetterà i panni di geologo per inseguire il sogno delle formiche nel deserto.

Non il miglior Herzog, decisamente.
Che la natura sia da sempre nell’interesse del regista è un fatto assodato. Nei suoi film precedenti essa ha più un ruolo di contorno, un delizioso contorno, certo, ma l’attenzione è focalizzata su qualcos’altro e i richiami al paesaggio, alla giungla, agli alberi, sono un valore aggiunto che in certe opere riesce addirittura ad assumere lo status di protagonista pur rimanendo ai margini.
Qui, invece, l’ecosistema di un luogo è posto al centro dell’attenzione, ma pur avendo una certa “carica”, la natura risulta quasi anonima perché inghiottita dalle tiritere ambientaliste. Giustissime, per carità, ma Herzog non riesce a dare forza alle sue teorie perché il messaggio ecologico ha il sapore dell'ovvietà. Forse nel 1984 no, ma oggi sì.
La contrapposizione tra l’inevitabile progresso e la forte tradizione viene messa in scena con i cattivi da una parte (gli occidentali) e i buoni dall’altra (gli aborigeni), in un gioco delle parti troppo, ma troppo semplice, in cui la morale si fa lampante praticamente fin da subito riducendo Dove sognano le formiche verdi, a ciò che Tullio Kezich definisce un film di Walt Disney.
Ma c’è anche del buono.
Sono belli i campi lunghissimi con i termitai bianchi che si ergono dal terreno come torri nel deserto, ed è commovente la pazienza che gli aborigeni mettono di fronte alla mdp uscendone con grande dignità.
Non imprescindibile comunque.

Il dvd distribuito dalla Ripley's Home Video contiene anche il documentario Rintocchi dal profondo (1993).

domenica 19 aprile 2009

Bad Guy

Con la professionalità che mi contraddistingue di Bad Guy non dico niente, ma porto alla vostra attenzione una recensione che quasi quasi mi è piaciuta più del film stesso (questo mi fa capire che della pellicola non avevo compreso nulla), in cui ci sono cose che non riuscirei a scrivere neanche in cent'anni di vita.
Eccola.

venerdì 17 aprile 2009

Da un pulpito traballante

Parole sante.

Non che non lo sapessi.
Ma ci voleva qualcuno che con le parole ci campa per farmi capire qualcosa che già sapevo ma che era come coperto da un velo di sabbia. Tito Faraci ha dato una netta spazzolata con poche righe, rivelandomi (ricordandomi) il pulpito da cui predico.
E ora mi sembra tutto così sbagliato, così inutile. Ma lo sapevo.
La consapevolezza non mi è mai mancata, certe volte l’ho accantonata illudendomi di essere il nuovo Mereghetti, ma è bastato un lieve soffio per riportarla alla luce.

giovedì 16 aprile 2009

Dead Set

I miei fedeli (?) lettori avranno notato che non ho mai commentato serie tv/telefilm/cartoni animati/qualunque cosa che sia seriale, semplicemente perché non ne vedo (ma dai?). Però, leggendo l’ultimo Almanacco della paura, annuale di Dylan Dog in cui vengono citati i migliori libri, film, videogames e chi più ne ha più ne metta, in chiave horror dell’anno, qualcosa ha attirato la mia attenzione. E proprio nella rubrica dei telefilm mi ha colpito molto il box dedicato a questa mini serie di 5 puntate della durata di 25 minuti ciascuna (esclusa la puntata pilota di 45 minuti), trasmessa dalle emittenti inglesi Channel 4 ed E4 nelle 5 serate precedenti la notte di Halloween del 2008. Prodotta dalla Zepperton, una società di proprietà della Endemol, la serie è stata creata da Charlie Brooker che ha ottenuto la totale libertà da parte della casa madre.

Ma cosa accade in Dead Set?
È presto detto: mentre va in scena una puntata n del Big Brother inglese, una misteriosa epidemia, che per tradizione zombesca ha origini sconosciute, trasforma i morti…in morti viventi. Gli inquilini della casa, più il cinico produttore e una ragazza della troupe, dovranno fronteggiare orde di zombie affamati che non vedono l’ora di ciucciare le loro budella.
L’originalità latita. D’altronde un film con gli zombi ha sempre una spada di Damocle con l’effige del buon Gorge Andrew che gli penzola sulla capoccia. L’assedio dei redivivi agli studi televisivi è un dolce amarcord dei fasti 80’s: se a quel tempo gli zombi “bussavano” alla porta di un supermercato come se il loro istinto fosse contaminato dalla società consumistica anche dopo essere passati a miglior vita, in Dead Set le bestiacce si assiepano ai cancelli degli studi grondanti di saliva. Sì, vogliono papparsi i bocconcini sopravvissuti, ma gli autori sembrano suggerire che questa volta l’istinto li spinge lì dentro perché la TV rappresenta un El Dorado mica da ridere, se non ci sono arrivati da vivi, ci provano almeno da morti. E infatti uno dei concorrenti dirà: “questo posto per loro era come un tempio.”
Se inevitabilmente viene citato Romero, Dead Set attinge molto anche da un alto regista: Danny Boyle. Gli zombi di Dead set sono come quelli di 28 giorni dopo (e pure di Incubo sulla città contaminata e del buon remake de L’alba dei morti viventi di Zack Snyder), corrono più di Carl Lewis. Qui si apre una diatriba: meglio i morti ciondolanti di Romero o quelli iper scattanti di Boyle? Io su questo argomento sono peggio di un talebano integralista che vive in una grotta: zombi di Romero tutta la vita! Non foss’altro perché la scelta di utilizzare gli zombi corridori porta ad un’accelerazione delle riprese, e spesso la camera a spalla sembra affetta dal morbo di Parkinson a causa delle inquadrature frenetiche e sbilenche.

L’originalità è poca, ma la perizia tecnica è molta, tanto che accorpando tutte e 5 le puntate ne potrebbe uscire un film di quasi tre ore. I vari personaggi sono stereotipi viventi, ma anche gli inquilini del GF lo sono, e dunque non manca un travestito, un’obesa di colore, un’ oca bionda di nome Pippa (un nome una garanzia), l’odiato del gruppo soprannominato Gollum, e altri due o tre non degni di nota. Ma la figura che ne esce meglio è il cinico produttore che è tanto antipatico da risultare il più umano. Tra l’altro c’è anche un cameo della storica presentatrice del Big Brother, Davina McCall. Come se una zombizzata Marcuzzi si sbrodolasse di bava vedendo i suoi “ragazzi”.
Non poteva mancare il botto finale dell’ultima puntata con l’invasione dei morti viventi all’interno della casa. Gli amanti dello splatter gioiranno perché è un’orgia di carne maciullata e sangue come se diluviasse, con la scena cult del produttore che viene letteralmente smembrato dai simpatici esserini. Resta comunque roba che può impressionare i novellini, ma chi è avvezzo a codeste scene non farà altro che scaccolarsi davanti allo schermo.
Mi preme sottolineare di come alla fine il manipolo di zombi dentro alla casa non sia molto diverso dal manipolo di essere umani che popolano le decine di case sparse per il globo del Grande Fratello: il tasso di imbecillità è lo stesso.

Niente di nuovo sotto il sole, in definitiva. Per gli afecionados del gore può essere un buon diversivo in attesa del nuovo Romero (…of the Dead), per tutti gli altri la location originale potrebbe stuzzicare la loro curiosità, ma in sostanza sempre di sbudellamenti si tratta.

martedì 14 aprile 2009

Fine di una storia

Il titolo di un film possiede sempre una forza ostensiva: ossia palesa, indica e circoscrive un argomento la cui trattazione viene sviluppata durante la proiezione. Spesso può fungere da incentivo ammiccando al fruitore dell’opera, altre volte esplica in maniera sintetica ciò che ci si appresta a vedere. È in questi casi che il regista ( e la troupe in toto) deve riuscire a stupire lo spettatore che seduto sulla comoda poltroncina del cinema, o della sua casa, è a conoscenza del fatto che,ad esempio in questo caso, in qualche modo, una storia d’amore finirà.
Gli indizi di una deriva sentimentale fra due persone ci sono tutti sin dalle prime parole battute a macchina dallo scrittore Maurice Bendrix (Ralph Fiennes): “questo è il diario di un odio.” In maniera rapida, ma NON frettolosa, si delineano i personaggi di questa liaison: Sarah Miles (Julianne Moore) moglie insoddisfatta, ed Henry Miles marito assente (Stephen Rea). Quello che accade è banale: lo scrittore e la moglie iniziano una relazione clandestina in cui si amano perdutamente. Ma pur mancando di originalità, la storia regge splendidamente grazie all’interpretazione attoriale, la Moore giganteggia: fragile e disperata. Fiennes segue a ruota arrancando un pochino, ma soprattutto regge per la scelta di effettuare un montaggio colmo di frammenti da ricomporre che ha nel diario di Maurice il proprio filo conduttore. Salti all’indietro controbilanciati da spinte in avanti, in un gioco coinvolgente, intrigante, merito anche di una messa in scena curata fino al dettaglio e della delicata fotografia che esalta la luce creando auree magiche intorno agli interpreti.
Ma questo, come citato poc’anzi, è il diario di un odio. Dopo la scena madre del bombardamento, la vicenda arriva ad un punto di svolta. Sarah abbandona senza un motivo Maurice incredibilmente sopravvissuto alla deflagrazione dell’ordigno. Viene facile, quasi naturale, credere che l’odio dello scrittore sia diretto alla donna che ama ma che lo ha piantato in asso.
Qui avviene il ribaltamento narrativo.
Entra in scena un altro diario, quello di Sarah. Cambia repentinamente l’angolo di visuale, e alcuni punti oscuri vengono illuminati. Ecco che in un “semplice” triangolo amoroso, un lato della figura viene occupato dalla fede. La donna è disposta a barattare la sua relazione con la vita di Maurice. Prega Dio, e Dio esaudisce il suo desiderio. Svuotata e smarrita in un deserto, trova così la pace nella religione. Venuto a conoscenza di questo patto con Dio, Maurice ritorna da Sarah per passare gli ultimi momenti con lei prima della sua morte. E solo alla fine si comprende di come quest’odio non sia rivolto ad una persona: “ho scritto all’inizio che questo era il diario di un odio, ti ho odiato come se esistessi veramente, ora sono stanco di odiare, ma tu sei ancora lì. Certo la tua astuzia è senza fine, hai suscitato il mio odio per costringermi ad ammettere la tua esistenza. Mi resta solo una preghiera adesso: mio Dio, non pensare più a me, abbi cura di lei e di Henry, e lasciami in pace per sempre.”
Ottimo, sotto tutti i punti di vista. Di ciò che ho visto di Jordan, questo è il suo lavoro migliore.

Fine di una storia, tra l’altro, anche tra me e il regista irlandese. Volevo ricomporre la sua filmografia completa, ma Kim Ki-duk ed Herzog recriminano il loro spazio che è molto, anche in termini di impegno che nel mio piccolo tento di non far mai mancare. Lo sostituirò con alcune opere più “leggere.”
O forse no.

venerdì 10 aprile 2009

Time

Guarda caso Roberto Recchioni, autore di fumetti come Dylan Dog e John Doe, ha scritto poco tempo fa un pezzo molto interessante sul suo blog (LINK).
L' intervento riguarda il mondo dei videogiochi, ma in qualche modo tocca anche il cinema. Riporto uno stralcio:

La sospensione dell’incredulità è un meccanismo semiotico che consiste nella volontà da parte di chi fruisce una storia, di sospendere le sue facoltà critiche allo scopo di godere di una vicenda di fantasia, ignorando le incongruenze secondarie che questa potrebbe avere rispetto al mondo reale.

E poi ancora:

Chiariamo un punto però: la sospensione dell’incredulità non è una bacchetta magica che rende accettabile qualsiasi stupidaggine salti in menta ma, piuttosto, si tratta di un patto che si instaura tra chi la storia la racconta e chi la fruisce. Una volta che il narratore avrà illustrato le regole del suo universo narrativo al suo pubblico, spetterà al pubblico decidere se sono accettabili o meno.

In Time (2006) questo patto non si crea.
Eppure la storia è più verosimile di Ferro 3 (2004): Lui e LEI sono fidanzati da due anni. LEI, gelosa e follemente innamorata del suo lui, decide di sottoporsi ad un intervento di chirurgia per cambiare il viso che secondo la ragazza non era più abbastanza interessante per il fidanzato. Così LEI sparisce all’improvviso per poi ritornare mesi dopo con un altro volto-un’altra lei, dunque-che però, dentro, è sempre LEI. Seduce lui che per mesi l’ha aspettata, ma non gli dice niente, quando decide finalmente di rivelarsi con un biglietto, lui vuole tornare da LEI (che è sempre lei, ma non è più LEI). Ma il suo viso non si può staccare come una maschera, e allora anche lui decide di cambiare faccia.
Questa volta le regole di Kim Ki-duk non si possono accettare.
La monotonia che scaturisce dopo una lunga relazione è materiale fertile per un’attenta disamina. E lo spunto iniziale, ovvero il cambiamento di forma per essere accettati, è anche interessante perché mette in luce la superficialità della nostra società.
Ma quel patto di cui si diceva prima non può sussistere. Privo di ogni lirismo per cui anche in un singolo fotogramma si addensavano significati geniali, la debolezza di Time sta in una narrazione ambiziosa ma velleitaria che a lungo andare si ripete in situazioni identiche, popolando la scena di macchiette che restano appiccicate allo sfondo. Il punto più basso è quando la ragazza parla dritta in camera dicendo che le cose non sono andate come si aspettava. C’era bisogno che lo dicesse? Assolutamente no. Una confessione fuori luogo che testimonia l’involuzione del regista (iniziata, forse, con La samaritana, 2004) il quale nelle sue opere passate è stato un maestro proprio nello spiegare… senza mostrare. Invece qui ci viene sbattuta in faccia la spiegazione. Pessima pessima idea.
Ma la cosa che mi ha fatto davvero incazzare è il fatto che bisogna credere ad un uomo che non riconosce la donna con cui è stato per ben due anni solo perché ha cambiato faccia. Posso capire i tratti somatici, e forse anche il timbro vocale, ma cristo santo gli occhi, lo sguardo, la pelle, l’odore! Quelli restano per sempre. Provate a chiedere ad una persona se non riconosce anche soltanto da un centimetro quadrato di pelle l’uomo o la donna, con cui ha condiviso una parte della sua vita, piccola o grande che sia.
Anche il finale circolare puzza di stantio, soprattutto perché immotivato in un film in cui il tempo è considerato in continua progressione.

Secondo me il miglior Kim Ki-duk resta quello che usa poco le parole.

mercoledì 8 aprile 2009

L'ultimo bellissimo sogno

Quando l’aveva comprato si era sentita una stupida.
Non c’era solo un profumo dentro a quella piccola busta di cartone, ma un pezzo della sua vita, due anni e tre mesi per la precisione.
Arrivata in fondo a via Sallustio si fermò davanti ad un bidone della spazzatura. La tentazione di buttare il suo acquisto era forte, sapeva che non sarebbe servito a niente, se non a soffrire di più. Ma gli innamorati si sa, sono dei masochisti, soprattutto se il loro amore non è più corrisposto. Così proseguì dritta fino ad arrivare in Corso Federico II con il piccolo tesoro che le penzolava dalle dita. Pensò che forse sarebbe stato meglio che avesse preso l’autobus perché tutto rimandava a lui, la città era l’alfabeto della sua malinconia. Su quella panchina si erano dati il primo bacio, in quel bar avevano bevuto mille caffè accompagnati da altrettanti progetti, sotto quel portone l’aveva visto con quella biondina.
Giunse a casa che ormai era sera, trascinandosi dietro il macigno dei ricordi.
Ingurgitò il minimo necessario per continuare a vivere, poi si chiuse in camera e fissò la bottiglietta di profumo senza aprirla. L’avrebbe fatto solo prima di andare a dormire, piangere al buio fa un po’ meno male.
Accese il computer, controllò le mail che nessuno le scriveva se non per improbabili offerte al casinò, e infine decise di accedere su msn. Poco dopo un malefico dlin annunciò la connessione di lui. La freccetta del mouse cominciò a tremare, doppio click e si aprì una finestra di conversazione, poi la chiuse, poi la riaprì. Infine rimase immobile, rannicchiata sulla sedia, a fissare lo schermo. L’orologio in basso a destra segnava le 23.30 di Domenica 5 Aprile, sua madre entrò in quell’istante.
“Tesoro hai sentito?”
“Uh?”
“Hai sentito?”
“Cosa ma?”
“La terra…ha tremato.”
“No.” Rispose. “Credevo fosse il mio cuore.” Pensò.
A mezzanotte in punto lui divenne grigio, e dopo cinque minuti anche lei si disconnesse. Spense il computer e si affacciò alla finestra, sospirò a lungo nel vedere L’Aquila illuminata dalle piccole finestre di ogni casa come piccoli loculi di un cimitero. Tra quei palazzi c’era anche quello di lui, e sperò con tutte le sue forze che anche il suo amore fosse in quel momento affacciato al balcone.
Chiuse le persiane e facendosi luce con il cellulare prese finalmente in mano il profumo. Lo scartò delicatamente dalla confezione, poi svitò il tappo. Percepiva già quell’odore inconfondibile che si trasformò in un viaggio remoto nei sentieri dei ricordi quando portò la bottiglietta al naso.
Due anni e tre mesi in un secondo.
Ritornò alla realtà solo quando allontanò l'essenza. Prese il tappetto e lo scagliò con rabbia in fondo alla stanza, seduta sul letto iniziò a piangere. Avrebbe gettato via anche il profumo, ma non ne aveva il coraggio, era tutto ciò che le rimaneva di lui, così lo posò proprio sul bordo della mensola sopra il letto e cercò di dormire.
Passarono delle ore in cui si attorcigliò nelle coperte, poi in qualche modo prese sonno.

All’inizio fu un incubo. Sentiva urla dappertutto, grida disumane provenire da fuori e da dentro casa. Un boato tremendo e l’odore di polvere che si alza pian piano, immobilizzando il tempo. Poi divenne un sogno bellissimo, quel profumo meraviglioso iniziò come a scorrere su di lei, le entrò sotto la pelle fino a mischiarsi col sangue, non avrebbe voluto svegliarsi mai più.

martedì 7 aprile 2009

lunedì 6 aprile 2009

Woyzeck

Herzog riesce a condensare l’intero film nei primi quattro minuti ed undici secondi.
Una panoramica della piccola città attraversata dal placido fiume, stacco.
Il soldato Woyzeck arriva di corsa sollecitato da un superiore: piegamenti, flessioni, smorfie di dolore mentre uno stivale schiaccia a terra la sua testa, nel frattempo un crescendo di violini accompagna le immagini (stessi violini che ritorneranno nella scena madre). Ancora uno stacco.
Primo piano di Woyzeck dal basso verso l’alto, ha lo sguardo fisso oltre la mdp, il petto si gonfia e si sgonfia per il fiatone. Fine.

Girato appena quattro giorni dopo Nosferatu (1978), Woyzeck è un fedele (a quanto si legge in giro) adattamento cinematografico della piéce teatrale omonima scritta da Georg Buchner tra il 1836 e 1837, rimasta incompiuta a causa della morte dell’autore.
La natura teatrale dell’opera si sente anche nella traslazione su celluloide. Inquadrature fisse, cambi di scena netti e dialoghi corposi costituiscono la spina dorsale dell’intera pellicola.
In anticipo di qualche anno sui filosofi del sospetto, Buchner mette in chiaro la coscienza falsa dell’uomo borghese (il vile capitano ed il dottore), ma anche la coscienza dell’uomo tout court (Woyzeck).
Lo stivale che all’inizio china il capo di Woyzeck ha il sapore del potere, del padrone. Per racimolare soldi, il soldato è costretto a fare il barbiere e la cavia per un dottore che lo fa nutrire solo di piselli. Come un operaio nella catena di montaggio, Woyzeck si aliena prima di tutto dalla società e poi dal genere umano, finendo per sentire il vento e la terra suggerirgli di ammazzare sua moglie Marie.
Durante il primo dialogo tra Woyzeck ed il capitano, quest’ultimo dice: “Woyzeck tu sei un brav’uomo ma non hai un briciolo di morale. La morale è quando uno è morale. È una parola buona capisci?”. Verso metà proiezione, in un monologo, lo stesso capitano dirà: “Un brav’uomo deve stare attento e amare la vita, un brav’uomo non deve essere coraggioso, solo le canaglie sono coraggiose, io mi sono arruolato nell’esercito solo per rafforzare il mio istinto di conservazione.”
Certo, la morale è una parola buona. Ma quando è falsa e ipocrita come quella del capitano? La denuncia di Nietzsche si rivolgeva contro il cinismo degli individui massificati, contro la sterilità di un sistema culturale ipocrita. Per il filosofo la cultura è incentrata sul guadagno e ha come proprio fondamento il criterio dell’utile. Il capitano, e soprattutto il dottore, incarnano questi pensieri. Al medico non interessa la salute mentale o fisica di Woyzeck, ma soltanto un tornaconto scientifico.
E poi Woyzeck.
Pazzesca l’interpretazione di Kinski. Oltre alle smorfie del suo viso suggerisco di osservare le sue mani: si torturano in continuazione, sono inquiete, nervose, frenetiche. Inutili, se non per uccidere.
La sofferenza di quest’uomo attraversa il suo corpo come una scossa, non riesce mai a stare fermo. È nevrotico. Woyzeck vive un disagio esistenziale originato dalla società borghese che lo schiaccia perché è povero, perché è debole, perché è pazzo. Un processo inibitorio agisce sulla sua sessualità, privando la libido della sua pulsione vitale e abbandonando il povero soldato a quella pulsione di morte che lo porterà ad uccidere Marie (Eva Mattes a cui toccano sempre ruoli da meretrice, vedi La ballata di Stroszek, 1977), e ad uccidere se stesso sparendo nelle acque di uno stagno mentre intorno a lui la musica dei violini finisce e resta soltanto il gracidare delle rane.

sabato 4 aprile 2009

Il risparmiatore

"Ho visto la luce!"
"Sì ma ora spegnila."

venerdì 3 aprile 2009

Wild Animals

Il secondo film di Kim Ki-duk datato 1997.
Trattasi di un dramma (semi)corale, ambientato in una Parigi anonima, che vede protagonisti un ex-soldato nordcoreano, un pittore sudcoreano senza arte né parte che vuol fare il delinquentello, una statua vivente malmenata dal suo uomo con un pesce surgelato (!), ed una spogliarellista di peep-show.

Pur avendo una sfumatura autobiografica (Kim Ki-duk è un pittore e nel 1990 si recò nella capitale francese proprio per coltivare la sua passione), il film è quanto di più impersonale ci possa essere. Pochissima l’ atmosfera che rende inutile la scelta di ambientare la storia a Parigi se non per mostrare le difficoltà di un immigrato, ma quello poteva essere fatto in qualunque altra città; scenografie povere (vedere l’antro dei criminali da fumetto che sarà stato un garage o un magazzino); scazzottate degne di un film con Bud Spencer (per inciso, massimo rispetto di Pedersoli & co., ma udire continuamente quei “TUMP”, “SBONG” e “SDENG” non fa altro che alimentare situazioni inverosimili); uso scellerato delle musiche a volte invadenti altre volte fuori luogo (ad un certo punto parte una musichetta spagnoleggiante…) che mi hanno ricordato un po’ quelle dei b-movie italiani anni ’70, le quali però qualitativamente superiori; primo piano di una mano di gomma trafitta da un coltello degna del (peggior) Ricky-Oh (1991), ma lì ci stava, qua no. Manca quella filigrana sottile, ma preziosissima, di un dialogo fra le immagini ed i simboli che crea sempre dei sottotesti illuminanti nei film di Kim Ki-duk. Restano solo delle persone che si prendono a botte per quasi due ore, e il risultato finale, come viene sottolineato su Gli Spietati è esteriormente frigido (poi vabbè, lì si dice anche intimamente stimolante, ma non sono d’accordo).
Frigido capite? È l’aggettivo migliore, rende l’idea di una mancanza di calore.
Salvo il messaggio di fratellanza, difficile da carpire e un po’ ridondante in un contesto non dissimile da un picchiaduro a scorrimento, fra le due Coree che firmeranno un trattato di pace solo 10 anni dopo, con l’amicizia fra l’ex-soldato ed il pittore scavezzacollo.
Un’opera minore, troppo acerba per piacere ai fan del regista, ma interessante, se presa in esame, nell’ottica di una successiva evoluzione stilistica e tecnica e dell'autore.

Ah, in commercio il film è praticamente irreperibile. Esiste soltanto una versione sottotitolata in cinese (!!). Quindi, o vi attaccate al tram, o vi attaccate al muletto.

mercoledì 1 aprile 2009

Fitzcarraldo

Guardate quest’uomo: Lo seguireste in una spedizione nella foresta amazzonica a bordo di un vecchio battello con un capitano mezzo orbo ( per sua stessa ammissione), un cuoco ubriacone e una ciurma di indigeni?
Probabilmente indugerete. Quegli occhi, quello sguardo, sembrano velati di follia. Se poi verrete a sapere che lo scopo di questa missione è di prendere del caucciù per costruire un teatro d’opera nel piccolo villaggio di Iquitos, allora farete come i diplomatici della città, tratterete Fitzcarraldo soltanto come un povero pazzo, un fabbricatore di ghiaccio all’equatore, un uomo che vuole costruire una ferrovia che taglia il cuore della giungla.

Ora guardate quest’uomo: Di mestiere fa il regista. Ha scalato l’Himalaya, sorvolato in Iraq pozzi petroliferi in fiamme, ipnotizzato i suoi attori (Cuore di vetro, 1976), è andato a piedi da Monaco a Parigi per trovare una sua amica malata.
Per girare Fitzcarraldo ci sono voluti più di tre anni in cui si sono susseguiti divieti burocratici, assalti alla troupe, morti vere o presunte tali, cambio di attori, una barca arenata per mesi e un’altra che (a fatica) risale un monte, finanziamenti, anche personali, ridotti all’osso.
Ma alla fine il film uscì, e al Festival di Cannes del 1982 vinse il premio per la miglior regia.

Scontato sottolinearlo, ma l’ostinazione del regista si rispecchia nel personaggio di Brian Sweeny Fitzgerald, detto Fitzcarraldo perché i nativi del posto non riescono a pronunciare il suo nome, che si spella le mani a furia di remare pur di arrivare in tempo a Manaus per sentire il tenore Enrico Caruso. Vestito di bianco in un villaggio di fango e sudore, ha come migliore amico un maiale di fiume e per fidanzata una splendida Claudia Cardinale. Eccentrico, audace, magnetico grazie all’interpretazione di Kinski, coltiva la passione della lirica.
Difficile non utilizzare il termine “sogno” perché il lungometraggio è un crocevia di sogni, speranze, utopie.
Caludia Cardinale dirà che “chi sogna può smuovere le montagne”, si potrebbe aggiungere che chi sogna può dare la vita, al pari degli indios che identificano la vita con l’illusione, ed il sogno con la realtà.

La realtà, un buon punto di partenza.
Herzog non ha mai tradito la sua anima documentaristica, nemmeno nei suoi film a soggetto. Guardando Aguirre (1972) si aveva la sensazione di essere sulla zattera insieme al conquistadores, in Nosferatu (1979) il brulicare dei topi usciva dallo schermo, ma con Fitzcarraldo il regista supera se stesso. L’avventura diviene vera, non ci sono effetti speciali o altre diavolerie, la barca trainata su per il monte è stata realmente trascinata da un sistema di carrucole progettato da un team di ingegneri peruviani. Ed è altrettanto vero il primo tentativo fallito con la rottura di alcuni tiranti, e la furia delle rapide che sballonzolavano il battello da una parte all’altra del fiume fino ad incagliarsi per alcuni mesi negli scogli.
Fitzcarraldo come Davide, di fronte al gigante Golia che è la natura selvaggia, impervia. La missione di quest’uomo assume fin da subito i toni dell’impresa, disperata.
Eppure Dio non viene mai nominato. A differenza di Aguirre che sentiva dentro di sé una potenza divina, Fitzcarraldo è lo specchio sì di una follia, però lucida, razionale, anche spregiudicata, ma intraprendente. E che ha una fede incrollabile nella musica.

La musica, quindi.
Fitzcarraldo sogna di diffonderla come un virus benevolo.
È memorabile la scena in cui gli indigeni ascoltano lungo il fiume il grammofono ( o un aggeggio simile) diffondere la voce melodiosa di Caruso. Ostinatamente, al pari di Herzog nel voler portare a termine questo film ad ogni costo. Io, in qualche modo, ci ho visto un messaggio di pace, l’arte come “collante” fra popoli diversi. Non per niente nel finale,mentre il buon Fitzgerald passa a bordo del suo battello con lo sguardo fiero di chi ha compiuto un’impresa, gli abitanti del villaggio impazziscono di gioia nel sentire, e vedere, accalcati sulle rive, I puritani di Bellini sul vecchio barcone. È un finale diametralmente opposto alle sue opere precedenti dove c’era, ad esempio, una non-fine in Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), o una fine senza speranza ne La ballata di Stroszek (1977). Qui, invece, la volontà di un uomo riesce a portare una barca sopra una montagna. È il trionfo dell’ambizione, dell’aspirazione, del sogno.

Bello? Brutto? Credo che a volte bisognerebbe sfuggire da queste etichette che sviliscono il valore di un’opera ingabbiandola in un sintetico giudizio. Fitzcarraldo è un’avventura estenuante, a tratti noiosa (la traversata del fiume dura quasi un’ora) a tratti coinvolgente ed entusiasmante. È un film epico.

Note a margine: esiste un documentario di Les Blank, intitolato Burden of Dreams (1982), che racconta la faticosa lavorazione del film. Inoltre Mondadori ha pubblicato per l’Italia il diario che Herzog tenne in quegli anni passati nella giungla. Il titolo del libro è La conquista dell’inutile (Mondadori, 2004).