Il settimo continente (1989), Benny’s Video (1992) e 71 Fragments of a Chronology of Chance (1994) compongono la cosiddetta trilogia della glaciazione di Michael Haneke.
È incredibile di come Haneke al suo esordio assoluto (aveva girato soltanto alcuni film per la TV) possegga una tale dimestichezza con il linguaggio cinematografico, e una tale cifra stilistica del tutto personale, che Der siebente Kontinent potrebbe essere tranquillamente il suo film che presenterà a Cannes 2009 (Il nastro bianco).
Anche per questa pellicola non poso fare a meno di tirare in ballo quelle due magiche paroline che sono presenti nel 90% delle recensioni riguardanti il cineasta austriaco: regia distaccata. Ovvero lo stile più vicino a quello documentaristico, uno stile freddo, sordo, insensibile, in totale antitesi con ciò che accade sullo schermo: una lenta cronistoria di situazioni disperatamente drammatiche senza alcuna via di uscita. Eppure, e qui sta secondo me la vera forza del cinema di Haneke, in questa atmosfera glaciale quanto un obitorio, lo spettatore si sente totalmente coinvolto, ed è spinto ad un naturale sforzo ermeneutico degli eventi, perché Haneke non dà nessuna risposta, ma “soltanto” domande.
Un marchio di fabbrica inconfondibile è l’immobilità della macchina da presa che dà vita a sequenze che sembrano eterne ed inutili, ma nelle quali si nascondono i lati più profondi, più nascosti.
Perché una famiglia composta da padre, madre e figlioletta, che apparentemente ha tutto: denaro, lavoro, una bella casa e un auto, decide di barricarsi in casa e uccidersi lentamente?
Forse la risposta risiede in queste parole di Haneke: “La nostra percezione è frammentaria. È impossibile rappresentare tutta la realtà in cento minuti di film, allora voglio mostrarne brevi frammenti.” Non si può, dunque, secondo lui descrivere in un lasso di tempo così ristretto la portata emotiva che ha lo sgretolamento di una famiglia. E allora il regista inserisce dei frammenti: la madre che scoppia a piangere nell’autolavaggio è l’emblema di tanti altri piccoli pezzetti disseminati nella pellicola. Non sappiamo le origini di questo pianto, le motivazioni si possono soltanto supporre, problemi al lavoro?, problemi col marito? Non si sa, di certo sotto quel sepolcro imbiancato fatto di beni materiale c’è del marcio. L’identificazione con gli oggetti della casa, con l’auto, e con il denaro, aliena a tal punto la famiglia dalla realtà, e da se stessi, che sceglie drasticamente di suicidarsi.
Il film nei primi minuti indugia intelligentemente sugli oggetti di uso quotidiano: una sveglia, un paio di pantofole, uno spazzolino, del dentifricio, il tavolo imbandito per la colazione. Tutto questo verrà distrutto da una rabbia cieca. Padre madre e figlia, armati di forbici e martelli, taglieranno vestiti e tende, distruggeranno mensole e tavolini, riducendo la loro casa ad un cimitero di frammenti che ormai non hanno più valore, perché rappresentavano l’essenza del nucleo famigliare. Haneke capisce già nell’89 che nella nostra epoca l’uomo vale per quel che HA e non per quel che È, la sua professione determina la sua posizione sociale. Una volta divenuti consapevoli di questo vuoto interiore, alla famiglia non resta rinnegare ciò che per loro è sempre stato importante (sono strasicuro che vi farà più male vedere i soldi gettati nel cesso che l’acquario distrutto a martellate), ma senza queste cose per loro la vita non ha senso e non resta che una lenta e inesorabile morte. Ricorderò per molto molto tempo i rantoli fuori campo della madre agonizzante per i farmaci ingeriti, il preludio di alcune devastanti sequenze successive (Funny Games, 1997, su tutte).
Se non avete mai visto nulla di Haneke (uscite immediatamente da questo blog), Il settimo continente è il film giusto per iniziare. Lo reputo uno dei suoi migliori lavori, nonché uno dei film più duri che i miei occhi abbiano visto. Senza una goccia di sangue, senza una parolaccia, senza un pugno o una pallottola.
Stimola il Pensiero.
È incredibile di come Haneke al suo esordio assoluto (aveva girato soltanto alcuni film per la TV) possegga una tale dimestichezza con il linguaggio cinematografico, e una tale cifra stilistica del tutto personale, che Der siebente Kontinent potrebbe essere tranquillamente il suo film che presenterà a Cannes 2009 (Il nastro bianco).
Anche per questa pellicola non poso fare a meno di tirare in ballo quelle due magiche paroline che sono presenti nel 90% delle recensioni riguardanti il cineasta austriaco: regia distaccata. Ovvero lo stile più vicino a quello documentaristico, uno stile freddo, sordo, insensibile, in totale antitesi con ciò che accade sullo schermo: una lenta cronistoria di situazioni disperatamente drammatiche senza alcuna via di uscita. Eppure, e qui sta secondo me la vera forza del cinema di Haneke, in questa atmosfera glaciale quanto un obitorio, lo spettatore si sente totalmente coinvolto, ed è spinto ad un naturale sforzo ermeneutico degli eventi, perché Haneke non dà nessuna risposta, ma “soltanto” domande.
Un marchio di fabbrica inconfondibile è l’immobilità della macchina da presa che dà vita a sequenze che sembrano eterne ed inutili, ma nelle quali si nascondono i lati più profondi, più nascosti.
Perché una famiglia composta da padre, madre e figlioletta, che apparentemente ha tutto: denaro, lavoro, una bella casa e un auto, decide di barricarsi in casa e uccidersi lentamente?
Forse la risposta risiede in queste parole di Haneke: “La nostra percezione è frammentaria. È impossibile rappresentare tutta la realtà in cento minuti di film, allora voglio mostrarne brevi frammenti.” Non si può, dunque, secondo lui descrivere in un lasso di tempo così ristretto la portata emotiva che ha lo sgretolamento di una famiglia. E allora il regista inserisce dei frammenti: la madre che scoppia a piangere nell’autolavaggio è l’emblema di tanti altri piccoli pezzetti disseminati nella pellicola. Non sappiamo le origini di questo pianto, le motivazioni si possono soltanto supporre, problemi al lavoro?, problemi col marito? Non si sa, di certo sotto quel sepolcro imbiancato fatto di beni materiale c’è del marcio. L’identificazione con gli oggetti della casa, con l’auto, e con il denaro, aliena a tal punto la famiglia dalla realtà, e da se stessi, che sceglie drasticamente di suicidarsi.
Il film nei primi minuti indugia intelligentemente sugli oggetti di uso quotidiano: una sveglia, un paio di pantofole, uno spazzolino, del dentifricio, il tavolo imbandito per la colazione. Tutto questo verrà distrutto da una rabbia cieca. Padre madre e figlia, armati di forbici e martelli, taglieranno vestiti e tende, distruggeranno mensole e tavolini, riducendo la loro casa ad un cimitero di frammenti che ormai non hanno più valore, perché rappresentavano l’essenza del nucleo famigliare. Haneke capisce già nell’89 che nella nostra epoca l’uomo vale per quel che HA e non per quel che È, la sua professione determina la sua posizione sociale. Una volta divenuti consapevoli di questo vuoto interiore, alla famiglia non resta rinnegare ciò che per loro è sempre stato importante (sono strasicuro che vi farà più male vedere i soldi gettati nel cesso che l’acquario distrutto a martellate), ma senza queste cose per loro la vita non ha senso e non resta che una lenta e inesorabile morte. Ricorderò per molto molto tempo i rantoli fuori campo della madre agonizzante per i farmaci ingeriti, il preludio di alcune devastanti sequenze successive (Funny Games, 1997, su tutte).
Se non avete mai visto nulla di Haneke (uscite immediatamente da questo blog), Il settimo continente è il film giusto per iniziare. Lo reputo uno dei suoi migliori lavori, nonché uno dei film più duri che i miei occhi abbiano visto. Senza una goccia di sangue, senza una parolaccia, senza un pugno o una pallottola.
Stimola il Pensiero.