Una breve riflessione
personale su Happy End (2017),
nient’affatto approfondita ed anche un po’ anodina.
Conosciamo
bene Michael Haneke, le nere vedute sulla classe agiata occidentale
(notate: dall’Austria alla Francia il risultato non è mai
cambiato), il marcio che si annida sotto l’apparente candore (sì:
anche – e soprattutto – nei bambini/adolescenti) e il metodo
reticente lontano da ogni eccesso (beh: i suoi fuori campo hanno
incendiato a lungo le discussioni tra cinefili), insomma, connotati
del genere hanno fatto sì che oramai “hanekiano” sia un termine
di largo uso all’interno di contesti recensionistici, il regista
austriaco è il fondatore riconosciuto di un canone con i crismi del caso che,
volenti o nolenti, ha segnato il cinema autoriale del vecchio
continente dagli anni zero in poi (Lanthimos, ad esempio, gli deve
qualcosa). In quest’ottica ci si immagina che, una volta superata
la settantina e con già un curriculum bello ricco alle spalle,
trovare un’inedita strada espositiva ed argomentativa non rientri
nelle sue priorità, e allora pare quasi che Happy
End sia una riduzione del
proprio modo di fare, non un aggiornamento ma proprio una sintesi di
decenni di attività. Se ciò sta tra i pregi o i difetti fate
voi, per quanto mi riguarda l’ago del giudizio oscilla incostante
senza toccare né la piena soddisfazione né il rifiuto assoluto. E ora osserviamo super rapidamente il comparto tematico per comprendere di come
in fondo avevamo già visto tutto:
- borghesia
ammuffita: la famiglia Laurent è solo l’ultima di una lunga
dinastia anafettiva e problematica che già all’epoca della
mirabile trilogia della glaciazione aveva detto molto, e
probabilmente meglio
- il
male: argomento pregno che non si affronterà qua, tuttavia val la
pena sottolineare che Haneke ha spesso cucito l’abito della
malvagità addosso a personaggi insospettabili. Eve è la carnefice più recente, o presunta tale, di un club che ha visto l’attore Arno
Frisch primo presidente nel duplice ruolo in Benny’s Video
(1992) e Funny Games
(1997), senza scordare i sospetti de Il nastro bianco
(2009)
- la
tecnologia: in Happy End
i dispositivi multimediali (smartphone e chat) hanno un ruolo
funzionale alla narrazione oltre che un ruolo teorico (vedi anche
Frost [2017] di
Bartas), è una novità nello specifico, non lo è concettualmente,
cfr. ancora Benny’s Video,
filmare la morte, per gioco (il criceto), per rabbia (ma è la madre
quella che durante i titoli di testa è in cucina?), solo per il
gusto di filmarla,
rimane una costante
- post-colonialismo
(chiamiamolo così): essendo la vicenda localizzata a Calais,
risaputo crocevia europeo dei flussi migratori, il richiamo alla
questione si fa inevitabile sebbene risulti davvero debole il suo
innesto dentro la saga famigliare. A tal proposito il discorso era
decisamente più centrato, non essendolo affatto nel concreto, in Niente da
nascondere (2005)
La
riproposizione degli elementi sopramenzionati segna una continuità
che non fa avanzare di un palmo il cinema di Haneke. Sebbene sia
sempre auspicabile un tentativo di rinnovamento, non è di certo
obbligatoria la necessità di percorrere sempre nuove strade, ma, del
resto, lo spettatore che apprezza specifiche manifestazioni
cinematografiche non può accontentarsi del semplice compendio.
Rileggendo ciò che scrissi su Amour (2012) [1] noto una
specie di sudditanza psicologica nei confronti dell’autore, adesso
le cose sono effettivamente un po’ cambiate anche perché a non
essere cambiato è Haneke stesso, l’affermazione potrebbe essere
letta in una accezione positiva senonché così facendo Happy End
risulta meno radicale rispetto agli altri esemplari che l’hanno
anticipato, meno radicale e quindi meno incisivo, meno potente,
hanekiano ok, ma con Haneke desidereremmo non vedere un auto-epigono
e andare oltre il mero aggettivo.
________________
[1]
Chiunque ha notato l’evidente collegamento con Happy End dalle
parole di Trintignant, ma Haneke in questa intervista dice che i due
episodi si riconducono più ad un suo fatto privato che ad un link
interfilmico.