Se questo fosse un blog
che tratta assiduamente cinema da botteghino allora su Queen of
the Desert (2015) si spenderebbero anche parole benevole,
soprattutto se si vede il film nell’ottica della prova più
commerciale di un regista che è sempre stato un po’ al
limite tra l’autorialità e non. In fondo, si potrebbe
pensare, quest’opera di Herzog fila via senza particolari intoppi
ed inoltre, nonostante il palese taglio per il grande pubblico,
permangono dei segnali di appartenenza al curriculum del bavarese. Ma
ad oltre il fondo, che del vecchio Werner ha parlato molto nei tempi
andati, l’arte di Queen of the Desert non interessa perché
non c’è arte, solo dollaroni profumati che tradotti sullo
schermo significano schematizzazione e preparazione algoritmica della
biografia di Gertrude Bell che in realtà potrebbe
tranquillamente essere la biografia di qualunque altro personaggio
storico, e penso ciò perché è patetico assistere
ad un’insistenza sulle tematiche sentimentali cucendo due
impalpabili liasion addosso la lattea pelle della Kidman [1], ma quello
che è patetico è il pane delle masse, per cui taccio
lasciando a loro l’illusione di fruire qualcosa che trasmetta
emozioni (sono solo situazioni prefabbricate, stolti!).
Primi quaranta minuti
indecenti, probabilmente il peggior Herzog mai visto, a confronto i
suoi due precedenti lungometraggi di finzione in terra yankee sono
delle pietre miliari (Il cattivo tenente [2009] e My Son, My Son, What Have Ye Done [2009]), dopo si rileva il cuore della
pellicola diviso a metà: da una parte è leggibile una
sovrapposizione tra il creatore e la creatura, Gertrude è un
avatar di Herzog l’esploratore/viaggiatore/archeologo di storie e
scopritore di umanità, dall’altra si intuisce un possibile
sottotesto che rimanda all’attualità dove le comunità
arabe dell’epoca dimostrandosi accoglienti e rispettose verso la
donna inglese proiettano un possibile messaggio di fratellanza.
Tenendo bene a mente che quanto appena detto si genera da un impianto
che più classico non si può, va ora ricordato che
Herzog non è mai stato granché famoso per i lavori di
fiction, a parte il fortunato periodo al fianco di Kinski tra gli
anni ’70 e ’80, non sono stati di certo oggetti come Grido di pietra (1991) o L’alba della libertà (2006) ad
averne accresciuto la fama e la rispettabilità, però
con Queen of the Desert ha toccato davvero il punto più
basso, qui c’è tutta una professionalità che non
vorremmo vedere e c’è una barriera che limita la fruizione
dato che il limite è proprio la rappresentazione poiché
è essa stessa limitante di per sé: come si può
credere ad un deserto che sembra una zona pedonale coperta di sabbia
dove tutti, anche i beduini più dispersi tra le dune, parlano
un buon inglese? La costruzione fittizia, il non volersi “fidare”
della realtà, luogo dal potenziale filmico infinito, preferire
la recitazione alla spontaneità della vita, sono queste le
difficoltà che affliggono il film, ed Herzog paradossalmente
saprebbe anche come comportarsi, eccome se lo saprebbe!, lui era già
stato in un luogo così impervio, ma i tempi di Apocalisse nel deserto (1992) sembrano così lontani…
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[1] Ne vogliamo parlare
di una cinquantenne spacciata per un’irrequieta giovinetta? Questo
è il dazio da pagare quando conta più la vendibilità
del prodotto che la sua concreta qualità.
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