Opera di montaggio (si
tratta, qui, esclusivamente di materiale d’archivio) e di memorie
(perché tale materiale riguarda direttamente gli avi della
regista Alina Marazzi), Un’ora sola ti vorrei (2002), che ha
solo la colpa di aver anticipato quell’odiosa moda recente di
intitolare i film come alcune canzoni della musica leggera italiana,
è un modello di cinema che guarda a Chris Marker mitigando la
portata sperimentale in favore di una fortissima intimità che
genera una specie di caldo guscio contenente ciò che ci fa
spesso tenere sulla corda della narrazione: una storia, no? Una
storia in cui la Marazzi, già assistente di Paolo Rosa ne Il mnemonista (2000), riesce a trasmettere una portata di sentimenti
che è quasi una bordata, e, pur non essendo un titolo
altisonante, possiede comunque una filigrana preziosa che lo fa
imporre, ma sempre con delicatezza, alla nostra attenzione. Noi,
spettatori che niente sanno della famiglia Hoepli e dei suoi
discendenti, subiamo la dolce invasione di questo cinema epistolare
dove la strenua forza del ricordo, pur non appartenendoci
minimamente, ci riempie, tale è la potenza della settima arte
quando incontra la Grande Reminiscenza e quando il tutto è
predisposto come la regista ha fatto, si tratta, in una parola, di
colmatura.
Ma Un’ora sola ti
vorrei non può e non deve sfuggire ad un’analisi
attraverso l’ottica del legame madre-figlia perché nel suo
nucleo c’è quel laccio che pulsa; un battito di lucore, un
diffondersi dorato, è un documento davvero triste ma di una
tristezza che sa di vita, e non di una sola, bensì di due e di
come la figlia Alina, attraverso un processo di evocazione, diventi
anche la propria madre Liseli che parla a lei, e quindi a se stessa,
in un viaggio sentimental-coscienziale che è tanto elegia
quanto elaborazione di una perdita fino al relativo, possibile,
superamento, perché la protagonista del film non è
Liseli Hoepli Marazzi, ma Alina, cui un dio ha donato lo stesso
sguardo malinconico della mamma. Immagini-piume che dondolano
nell’aria, fasci di particelle souvenir, la soggettività
di una donna/figlia/regista che si apre all’altro
uomo/figlio/spettatore, c’è, e lo si sente, un cordone
ombelicale che in fondo lega ognuno di noi agli altri, se lo
vogliamo, se lo vogliamo sentire. Meraviglia su un dettaglio:
“aspettiamo un bambino…”
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