lunedì 29 maggio 2017

Argentinian Lesson

È una storia di emigrazioni Argentynska lekcja (2011), film firmato da Wojciech Staron, principalmente direttore di fotografia, che si gioca dall’inizio la carta della sottrazione; nella ripresa di una comunità d’origine polacca stabilitasi in Argentina il regista punta all’essenzialità e allora ecco tanta camera a mano con annesso pedinamento dei ragazzini in scena, dialoghi risicati e probabilmente parecchia improvvisazione. Ciò che viene a galla è una ricerca su un realismo naturale in cui Staron tenta di farsi fantasma, la sua trasparenza nonostante le inquadrature ravvicinatissime lascia i protagonisti apparentemente a loro agio dimostrandosi per lo più “veri” al nostro occhio, parimenti è però difficile non avere qualche perplessità sull’andamento che costituisce Argentinian Lesson, partendo come documentario (quasi) puro con l’introduzione di Marcia si ibrida trasportando il tutto in un limbo abbastanza tiepidino, chi scrive ritiene che in casi del genere il raggiungimento di un equilibrio tra finzione e non è una meta ardua da raggiungere che se mancata rischia di provocare una diffusa disomogeneità, il che, sempre a mio umile modo di vedere, è quanto accade nel film di Staron, ci sono dei deficit tra le componenti che lo istituiscono, a taluni episodi si guarda con indifferenza (di base: in una situazione dove non accade granché [o meglio, è più Staron a non fare di quel “niente” qualcosa di più] quanto appeal ha la vicenda di una famiglia polacca in Sud America?), ad altre con leggero sospetto (l’intensificato snodarsi dell’amicizia tra Janek e Marcia o le vicissitudini di quest’ultima).

È comunque un film strano Argentynska lekcja, pur avendo un’identità incerta e pur non raggiungendo i sessanta minuti di durata, contiene al suo interno l’accenno a svariate tematiche, ma la susseguente trattazione zoppica. L’argomento che fa da miccia, ovvero l’emigrazione dalla Polonia all’Argentina, si riduce a qualche parentesi dove i figli dei migranti tentano di studiare la lingua parlata dai propri genitori. La portata principale dell’opera localizzata nel concetto di amicizia è, smentitemi pure nel caso, alquanto piatta e prevedibile, posso apprezzare lo spirito dei piccoli sullo schermo ma qui ci si ferma. A rimorchio abbiamo poi la questione della scarsa abbienza con delle forzature notevoli (Marcia alle prese con vari lavori) che inquinano la naturalezza della storia. Mi preme dire che non è tanto il fatto in sé ad essere stonato (di undicenni che lavorano nei paesi poveri ce ne saranno fin troppi), quanto come ci viene proposto, forse c’è troppa celerità nel collage che Staron offre e quindi al posto di poter sentire oltre il vedere, vediamo e basta, il che è sempre avvilente per una sana propensione alla Visione. A bilanciare un paio di immagini si trattengono con piacere, l’ultimo sguardo di Janek in camera, con il successivo stacco sui titoli di coda, rimane.

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