Era questo, come era
tutt’altro, in una città al centro dell’Europa affacciata
sul mare, di sabato, pomeriggio, nel vociare della gente che fa
shopping con i cani al guinzaglio (il locale, angusto e verticale, è
soppalcato e al piano di sopra c’è un letto spoglio con un
cuscino, un oblò fa filtrare della luce dall’esterno), ho
vicino un fantasma che mi segue e mi dice cosa fare, poi in una
storia che non c’entra sono nella casa di campagna dove nacque il
mio bisnonno e mentre dormo due ragni dalle lunghe e sottili zampe si
mettono a ballare il tango sulla mia testa e io nel frattempo sogno
di camminare per delle strade così piene di vita, strade
strette, sporche e sante, piene di cristi risorti (nelle mani ho
ancora il tuo odore, non posso dire che sia un profumo, è il
risultato di una pelle esposta per lunghi periodi ai fumi delle
sigarette e, ogni tanto, ai vapori di qualche essenza dozzinale), di
palazzi le cui fondamenta scendono fino al nucleo della Terra che è
un globo lucente e… mi sveglio e i ragni ascendono verso il
soffitto e nella storia che conta il fantasma accarezza la mia spalla
sussurrando: “non ti preoccupare, passerà”, una coppia si
avvicina per salutarmi, hanno due gemelli, so che il marito ha
tentato più volte di suicidarsi, lei dentro è
devastata, tempo fa l’ho vista partire per una vacanza da sola con
i bimbi, quando lui mi stringe la mano il suo cervello proietta
nell’aria l’entrata di una grotta umida, il plic-plic delle
stalattiti è come una goccia di sangue che stilla da un polso,
c’è ancora un’altra storia, accessoria ed inessenziale,
ambientata sull’isola di Kos, in una spiaggia chiamata Therma, io
sono lì, con l’amico che diventerà il mio fantasma, e
ci allontaniamo dall’arenile per entrare in quello che sembra un
hotel abbandonato, per terra ci sono miriadi di palline di merda
capresca, una cassa di coca-cola impolverata, il pavimento di legno
scricchiola al nostro passaggio, saliamo per una scala pericolante e
ci ritroviamo in un corridoio dove tutte le porte che vi si
affacciano sono aperte: tranne una, che apriamo per accedere in uno
spazio lindo, bianco, dove qualcuno ha appoggiato delle candele e dei
santini proprio sotto la finestra, fuori una donna litiga in tedesco
con il compagno (dici di venire da Santo Domingo, deve essere un bel
posto, ma non ti stringo la mano e perciò non riesco vedere le
diapositive della tua testa, immagino che ci sia della sabbia e
dell’erba e una bicicletta rotta e un fratellino con il moccio al
naso), io devo bere, ordino due negroni, uno non lo berrai tu amico
mio perché il tuo esofago è sotto tre metri di terra
vermicolante, ma affianco a me ci sono due vecchi un po’ strani,
guardano le belle ragazze che passano e bofonchiano qualcosa di
comprensibile solo a loro, uno ha una palla di carne dietro al collo,
gli chiedo che cosa sia e lui mi risponde che quando era nella pancia
della mamma aveva un fratellino attaccato dietro la testa e che una
volta nati il dottore li aveva subito divisi ma soltanto lui era
sopravvissuto, poi col passare degli anni dalla cicatrice si era
creata una bugna al cui interno, lo poteva percepire chiaramente, si
era sviluppato un altro fratellino che lì viveva come se fosse
di nuovo nel grembo materno, però, in realtà, non
chiedo niente al signore e questa storia, come tutte le altre, è
un racconto che si accende nella mia fantasia, e quindi
l’amico-ectoplasma sottolinea che è giunto il momento, e
prima di alzarmi dal tavolino cerco di ricordare l’ultima volta che
l’ho visto, era giugno, no no, faceva freddo, era ottobre, ottobre
è il mese perfetto per perdere qualcuno, ho nitida la tua
figura di schiena che si allontana, una giacca di pelle nera, gli
occhiali da sole alzati sui capelli, “combattiamo la banalità”
avevi detto poco prima, “distinguiamoci dal piattume, dalle
ovvietà, dall’orizzontalità che ci incarcera,
pensiamo agli alberi! Pensiamo al loro svettare, al loro nutrirsi di
sole e acqua, al fatto che riescono a toccare il cielo e la terra
contemporaneamente, e che la foglia e la radice sono la stessa cosa
perché la terra, se lo vuoi, può farsi cielo, e se
comprenderai tutto ciò non sarai mai come loro, mai”, eri
bello quando parlavi così, libero (il tuo corpo è sodo,
compatto, e di ciò sono molto meravigliato, la tua pelle è
velluto bruno, e ora che ti sto stringendo le natiche riesco
finalmente a vedere il film che hai dentro: un piercing fatto nel
retrobottega di un’estetista creola, un aereo che ti porta a Oviedo
in una camera condivisa con altre ragazze, un pullman che dopo
svariate notti ti fa arrivare in Italia, uno schiaffo, un calcio, sei
piegata in due nel cesso di un monolocale del cazzo dove sei finita a
vivere e non sai perché, un messaggio di tua mamma: “te echo
de menos. ¿Cuando regresas?”), poi: ULTIMO ACCESSO
20/11/2015, e non ci sei stato più.
È una guerra
sanguinaria, atroce, bestiale, la combattiamo ogni giorno senza quasi
rendercene conto, noi, i soldati della vita: è questo, e
nient’altro, che siamo, un esercito di esseri che vorrebbe solo
prossimità, vicinanza, calore, c’è un’ultima
superflua storia che è successa giusto ieri sera in un locale
sul lungomare, dove più mi guardavo intorno e più
vedevo persone che camminavano con un grosso specchio appiccicato
alla fronte lungo fino ai piedi, interagivano con gli altri,
parlavano e ridevano ma parlavano e ridevano solo con se stessi
compiacendosi della loro grazia esteriore e io mi sentivo morire
perché avrei voluto urlare a tutti che non è così
che si può andare avanti, che sarebbe così semplice
aprirsi davvero agli altri, che… gli alberi quando sono mossi dal
vento danzano composti e timidi il ballo di Dio, ma ovviamente ho
taciuto e mi sono appallottolato come un’Ave Maria, uno di quegli
insetti che per proteggersi diventano delle biglie grigie, e una
volta minuscolo e insignificante sono stato l’addome panciuto dei
ragni tangheri, la goccia tonda nella caverna psichica dell’aspirante
suicida, la sferetta di sterco delle capre greche, il micro-gemello
che vive dietro la nuca del fratello maggiore, ma alla fine il piede
di un tizio mi ha involontariamente spiaccicato sull’impiantito del
locale e come niente, come te, sono sparito. Imbocco il vicolo scuro
e so che tu, fraterno fantasma, non proseguirai perché mi vuoi
ancora bene e sai che per combattere questa maledetta solitudine non
c’è più alcuna patetica morale che possa reggere,
mentre tu, invece, aspetti me, al pari di qualsiasi altro me, sulla
soglia (forse dico qualcosa di stupido andandomene, tipo “come sono
ripide queste scalette”, lascio trenta euro vicino al televisore e
una volta fuori mi dissolvo come un’aspirina in un bicchiere
d’acqua).
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