giovedì 1 giugno 2017

ULTIMO ACCESSO 20/11/2015

Era questo, come era tutt’altro, in una città al centro dell’Europa affacciata sul mare, di sabato, pomeriggio, nel vociare della gente che fa shopping con i cani al guinzaglio (il locale, angusto e verticale, è soppalcato e al piano di sopra c’è un letto spoglio con un cuscino, un oblò fa filtrare della luce dall’esterno), ho vicino un fantasma che mi segue e mi dice cosa fare, poi in una storia che non c’entra sono nella casa di campagna dove nacque il mio bisnonno e mentre dormo due ragni dalle lunghe e sottili zampe si mettono a ballare il tango sulla mia testa e io nel frattempo sogno di camminare per delle strade così piene di vita, strade strette, sporche e sante, piene di cristi risorti (nelle mani ho ancora il tuo odore, non posso dire che sia un profumo, è il risultato di una pelle esposta per lunghi periodi ai fumi delle sigarette e, ogni tanto, ai vapori di qualche essenza dozzinale), di palazzi le cui fondamenta scendono fino al nucleo della Terra che è un globo lucente e… mi sveglio e i ragni ascendono verso il soffitto e nella storia che conta il fantasma accarezza la mia spalla sussurrando: “non ti preoccupare, passerà”, una coppia si avvicina per salutarmi, hanno due gemelli, so che il marito ha tentato più volte di suicidarsi, lei dentro è devastata, tempo fa l’ho vista partire per una vacanza da sola con i bimbi, quando lui mi stringe la mano il suo cervello proietta nell’aria l’entrata di una grotta umida, il plic-plic delle stalattiti è come una goccia di sangue che stilla da un polso, c’è ancora un’altra storia, accessoria ed inessenziale, ambientata sull’isola di Kos, in una spiaggia chiamata Therma, io sono lì, con l’amico che diventerà il mio fantasma, e ci allontaniamo dall’arenile per entrare in quello che sembra un hotel abbandonato, per terra ci sono miriadi di palline di merda capresca, una cassa di coca-cola impolverata, il pavimento di legno scricchiola al nostro passaggio, saliamo per una scala pericolante e ci ritroviamo in un corridoio dove tutte le porte che vi si affacciano sono aperte: tranne una, che apriamo per accedere in uno spazio lindo, bianco, dove qualcuno ha appoggiato delle candele e dei santini proprio sotto la finestra, fuori una donna litiga in tedesco con il compagno (dici di venire da Santo Domingo, deve essere un bel posto, ma non ti stringo la mano e perciò non riesco vedere le diapositive della tua testa, immagino che ci sia della sabbia e dell’erba e una bicicletta rotta e un fratellino con il moccio al naso), io devo bere, ordino due negroni, uno non lo berrai tu amico mio perché il tuo esofago è sotto tre metri di terra vermicolante, ma affianco a me ci sono due vecchi un po’ strani, guardano le belle ragazze che passano e bofonchiano qualcosa di comprensibile solo a loro, uno ha una palla di carne dietro al collo, gli chiedo che cosa sia e lui mi risponde che quando era nella pancia della mamma aveva un fratellino attaccato dietro la testa e che una volta nati il dottore li aveva subito divisi ma soltanto lui era sopravvissuto, poi col passare degli anni dalla cicatrice si era creata una bugna al cui interno, lo poteva percepire chiaramente, si era sviluppato un altro fratellino che lì viveva come se fosse di nuovo nel grembo materno, però, in realtà, non chiedo niente al signore e questa storia, come tutte le altre, è un racconto che si accende nella mia fantasia, e quindi l’amico-ectoplasma sottolinea che è giunto il momento, e prima di alzarmi dal tavolino cerco di ricordare l’ultima volta che l’ho visto, era giugno, no no, faceva freddo, era ottobre, ottobre è il mese perfetto per perdere qualcuno, ho nitida la tua figura di schiena che si allontana, una giacca di pelle nera, gli occhiali da sole alzati sui capelli, “combattiamo la banalità” avevi detto poco prima, “distinguiamoci dal piattume, dalle ovvietà, dall’orizzontalità che ci incarcera, pensiamo agli alberi! Pensiamo al loro svettare, al loro nutrirsi di sole e acqua, al fatto che riescono a toccare il cielo e la terra contemporaneamente, e che la foglia e la radice sono la stessa cosa perché la terra, se lo vuoi, può farsi cielo, e se comprenderai tutto ciò non sarai mai come loro, mai”, eri bello quando parlavi così, libero (il tuo corpo è sodo, compatto, e di ciò sono molto meravigliato, la tua pelle è velluto bruno, e ora che ti sto stringendo le natiche riesco finalmente a vedere il film che hai dentro: un piercing fatto nel retrobottega di un’estetista creola, un aereo che ti porta a Oviedo in una camera condivisa con altre ragazze, un pullman che dopo svariate notti ti fa arrivare in Italia, uno schiaffo, un calcio, sei piegata in due nel cesso di un monolocale del cazzo dove sei finita a vivere e non sai perché, un messaggio di tua mamma: “te echo de menos. ¿Cuando regresas?”), poi: ULTIMO ACCESSO 20/11/2015, e non ci sei stato più.

È una guerra sanguinaria, atroce, bestiale, la combattiamo ogni giorno senza quasi rendercene conto, noi, i soldati della vita: è questo, e nient’altro, che siamo, un esercito di esseri che vorrebbe solo prossimità, vicinanza, calore, c’è un’ultima superflua storia che è successa giusto ieri sera in un locale sul lungomare, dove più mi guardavo intorno e più vedevo persone che camminavano con un grosso specchio appiccicato alla fronte lungo fino ai piedi, interagivano con gli altri, parlavano e ridevano ma parlavano e ridevano solo con se stessi compiacendosi della loro grazia esteriore e io mi sentivo morire perché avrei voluto urlare a tutti che non è così che si può andare avanti, che sarebbe così semplice aprirsi davvero agli altri, che… gli alberi quando sono mossi dal vento danzano composti e timidi il ballo di Dio, ma ovviamente ho taciuto e mi sono appallottolato come un’Ave Maria, uno di quegli insetti che per proteggersi diventano delle biglie grigie, e una volta minuscolo e insignificante sono stato l’addome panciuto dei ragni tangheri, la goccia tonda nella caverna psichica dell’aspirante suicida, la sferetta di sterco delle capre greche, il micro-gemello che vive dietro la nuca del fratello maggiore, ma alla fine il piede di un tizio mi ha involontariamente spiaccicato sull’impiantito del locale e come niente, come te, sono sparito. Imbocco il vicolo scuro e so che tu, fraterno fantasma, non proseguirai perché mi vuoi ancora bene e sai che per combattere questa maledetta solitudine non c’è più alcuna patetica morale che possa reggere, mentre tu, invece, aspetti me, al pari di qualsiasi altro me, sulla soglia (forse dico qualcosa di stupido andandomene, tipo “come sono ripide queste scalette”, lascio trenta euro vicino al televisore e una volta fuori mi dissolvo come un’aspirina in un bicchiere d’acqua).

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