Forse non è
deontologicamente corretto, ma è invitante nonché quasi
inevitabile avvicinarsi a Sieranevada (2016) usando come metro
di paragone Un padre, una figlia (2016), i due film, infatti,
presentati a Cannes ’16 e impastati nella società rumena
contemporanea che fa sempre i conti con quella passata, hanno
entrambi come protagonisti due dottori alle prese con i problemi
della vita, c’è però una grossa differenza tra queste
due figure mediche, uno scarto che è conseguenza immediata del
metodo utilizzato da Cristi Puiu, in generale si può affermare
che il padre di Mungiu risultava, al pari di tutta la vicenda in cui
era coinvolto, una pedina impostata e costruita per asservire una
narrazione predeterminata, il Lary di Puiu è invece
percepibile come un uomo e non tanto come un attore, una persona
qualunque che per puro caso si è trovata una mdp alle calcagna
durante una riunione famigliare, ciò accade semplicemente per
via del fatto che il regista nato a Bucarest lavora sul reale fin dai
tempi di Marfa şi banii (2001) e negli anni si è ormai
guadagnato i gradi di maestro in relazione a tale approccio, la
divergenza tra il cinema di Mungiu e quello di Puiu è quindi
lampante ed è scontato sottolineare dove lo spettatore, in
caso di indecisione, debba posare gli occhi: Sieranevada è
una delle migliori opere partorite dalla nouvelle vague rumena.
La scintilla utilizzata
dall’autore è quella di una particolare commemorazione del
padre defunto in cui l’intera famiglia si riunisce per ricordare il
caro estinto e dove il figlio più giovane deve indossare i
vestiti del genitore scomparso (ma l’abito è troppo grande,
fuori taglia, come se il fantasma paterno fosse una presenza
ingombrante anche dall’aldilà), da qui Puiu imbastisce un
complesso tableau vivant occluso, al pari di moltissimi altri
oggetti filmici sotto il segno del tricolorul, in uno spazio
casalingo che si trasforma in un alveare brulicante di esseri che
entrano ed escono da una scena delimitata dalle barriere
architettoniche della casa, e ammirando l’abilità di Puiu
nella concertazione globale (compresa la fase di montaggio che ci si
immagina parecchio lunga) si può dire che non sia una
passeggiata stare dietro all’impetuoso flusso dialogico emesso dai
numerosi personaggi sul set, ma al contempo, una volta arrivati in
fondo, l’impressione è che il film abbia tenuto un andamento
ottimale per le sue due ore e quarantasei minuti di proiezione.
E comunque, pur
accettando una sfida visiva come Sieranevada che comporta, tra
l’altro, una serie di riferimenti specifici alla nazione di
appartenenza non proprio commestibili per gli spettatori stranieri,
il movimento teorico di Puiu è piuttosto chiaro, il regista
mette in stretta correlazione dei topic di discussione che mirano
all’alterità (c’è il figlio minore che è
attento ai complottismi internettiani sull’undici settembre o sui
recenti fatti di Charlie Hebdo) con situazioni impeciate
nell’intimità, quella parentale, consanguinea, e
l’accostamento, assolutamente vincente, genera una pregevole
implosione domestica che sembra risolversi in un afflato ironico (la
pellicola è foriera di ironia [la ragazza croata ubriaca,
l’irruzione terremotante del vecchio Toni], e non per niente si
chiude con una risata che ha del catartico) in cui è possibile
desumere una forma di monito che tracima nell’universale: è
difficile comprendere quello che ci circonda, soprattutto in epoca
massmediale, se prima non si è capito chi siamo noi stessi e
chi ci sta accanto. Sieranevada è un film sulle persone
e sui fili invisibili che le attraggono e le respingono, ma di sicuro
non in modo banale come può suonare la frase che avete appena
letto.
Curiosità: durante
la preparazione del pranzo possiamo udire distintamente le note di
Dolcenera e Maledetta primavera.
Nessun commento:
Posta un commento