domenica 11 giugno 2017

Sieranevada

Forse non è deontologicamente corretto, ma è invitante nonché quasi inevitabile avvicinarsi a Sieranevada (2016) usando come metro di paragone Un padre, una figlia (2016), i due film, infatti, presentati a Cannes ’16 e impastati nella società rumena contemporanea che fa sempre i conti con quella passata, hanno entrambi come protagonisti due dottori alle prese con i problemi della vita, c’è però una grossa differenza tra queste due figure mediche, uno scarto che è conseguenza immediata del metodo utilizzato da Cristi Puiu, in generale si può affermare che il padre di Mungiu risultava, al pari di tutta la vicenda in cui era coinvolto, una pedina impostata e costruita per asservire una narrazione predeterminata, il Lary di Puiu è invece percepibile come un uomo e non tanto come un attore, una persona qualunque che per puro caso si è trovata una mdp alle calcagna durante una riunione famigliare, ciò accade semplicemente per via del fatto che il regista nato a Bucarest lavora sul reale fin dai tempi di Marfa şi banii (2001) e negli anni si è ormai guadagnato i gradi di maestro in relazione a tale approccio, la divergenza tra il cinema di Mungiu e quello di Puiu è quindi lampante ed è scontato sottolineare dove lo spettatore, in caso di indecisione, debba posare gli occhi: Sieranevada è una delle migliori opere partorite dalla nouvelle vague rumena.

La scintilla utilizzata dall’autore è quella di una particolare commemorazione del padre defunto in cui l’intera famiglia si riunisce per ricordare il caro estinto e dove il figlio più giovane deve indossare i vestiti del genitore scomparso (ma l’abito è troppo grande, fuori taglia, come se il fantasma paterno fosse una presenza ingombrante anche dall’aldilà), da qui Puiu imbastisce un complesso tableau vivant occluso, al pari di moltissimi altri oggetti filmici sotto il segno del tricolorul, in uno spazio casalingo che si trasforma in un alveare brulicante di esseri che entrano ed escono da una scena delimitata dalle barriere architettoniche della casa, e ammirando l’abilità di Puiu nella concertazione globale (compresa la fase di montaggio che ci si immagina parecchio lunga) si può dire che non sia una passeggiata stare dietro all’impetuoso flusso dialogico emesso dai numerosi personaggi sul set, ma al contempo, una volta arrivati in fondo, l’impressione è che il film abbia tenuto un andamento ottimale per le sue due ore e quarantasei minuti di proiezione.

E comunque, pur accettando una sfida visiva come Sieranevada che comporta, tra l’altro, una serie di riferimenti specifici alla nazione di appartenenza non proprio commestibili per gli spettatori stranieri, il movimento teorico di Puiu è piuttosto chiaro, il regista mette in stretta correlazione dei topic di discussione che mirano all’alterità (c’è il figlio minore che è attento ai complottismi internettiani sull’undici settembre o sui recenti fatti di Charlie Hebdo) con situazioni impeciate nell’intimità, quella parentale, consanguinea, e l’accostamento, assolutamente vincente, genera una pregevole implosione domestica che sembra risolversi in un afflato ironico (la pellicola è foriera di ironia [la ragazza croata ubriaca, l’irruzione terremotante del vecchio Toni], e non per niente si chiude con una risata che ha del catartico) in cui è possibile desumere una forma di monito che tracima nell’universale: è difficile comprendere quello che ci circonda, soprattutto in epoca massmediale, se prima non si è capito chi siamo noi stessi e chi ci sta accanto. Sieranevada è un film sulle persone e sui fili invisibili che le attraggono e le respingono, ma di sicuro non in modo banale come può suonare la frase che avete appena letto.

Curiosità: durante la preparazione del pranzo possiamo udire distintamente le note di Dolcenera e Maledetta primavera.

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