A parte l’ipnotico
incipit sulla spiaggia (che ricorda un po’ la finestra
lisergico-balneare di Post Tenebras Lux,
2012), El resto del mundo
(2014) non possiede una cifra di rispettabile ricerca che invece
caratterizzerà le opere successive di Pablo Chavarría Gutiérrez, è
altrettanto vero però che qui il regista messicano si dimostra già
un sabotatore della narrazione, ne consegue che un’esplorazione di
territori altri non viene nuovamente meno con annesso godimento dello
spettatore. L’idea che sorreggerebbe il film è quella di
raccontarci il flash famigliare tra un padre (è il “solito”
Alejandro Alva) e la propria figlia (presumibilmente tale anche fuori
dal set), ciò che PCG estrapola da questa stringata sinossi è un
filo pieno di strappi e riannodamenti affiancato dallo sbocciare
esistenziale che si consuma nel territorio circostante, non è,
evviva, una visione propriamente agevole (e ce lo aspettavamo visto
il curriculum dell’autore) e non è nemmeno, forse, un lavoro che
tocca i picchi a cui eravamo abituati, rimane ad ogni modo l’evidente
presenza di un talento artistico che muovendosi oltre i fragili
confini del documentario si diletta nel rimodellare il girato
giungendo ad una sostanza che, come avevo già sottolineato per il
meraviglioso Las letras
(2015), è un qualcosa di indefinibile e, probabilmente, di
incomprensibile, ma, e si ritorna al punto più nodale di tutti, di
sentibile,
tanto da dare al cinema di Chavarría Gutiérrez un profondo e
ammirabile segno distintivo.
La tierra aún se mueve (2017) è un miraggio apocalittico ancora lontano per il
Pablo del 2014, tuttavia in El resto del mundo si aprono delle
brecce spaesanti che in qualche modo ci trasmettono un carnet di
sensazioni accostabili al magnum opus del ragazzo di
Monterrey, ciò accade grazie ad una serie di escamotage tecnici su
cui svetta l’utilizzo dell’impianto sonoro che stordisce per
davvero e che altera, modifica e intensifica le immagini sullo
schermo. E le immagini: come di consueto il digitale di Chavarría
Gutiérrez è di una potenza rara e sa restituirci con la stessa
energia sia il dettaglio di una lucertola verdognola che l’imponente
campo totale di una montagna baciata dalle nuvole con in sottofondo
le parole della bambina protagonista, inoltre il dialogo che si crea
tra Kiara e una voce off che dovrebbe appartenere a Chavarría stesso
(il quale compare fugacemente nella diegesi rivelandosi l’amante di
una donna inserita nella storia) si dimostra l’aspetto più
unificante, nonché il più florido per tentare un’interpretazione
logica, dell’intero film poiché dall’innocenza infantile che si
apre come un fiorellino alle nostre orecchie si evince tutta la
parabola umana non descritta (poiché non descrivibile: è PCG stesso
ad autoammutolirsi quando la sua fidanzata gli chiede di cosa tratta
il film che sta facendo) che emerge sotto docili spinte fatte di
sussurri e ricordi, ingredienti che ci auguriamo di trovare sempre in
quegli emblemi di cinema che sanno disarmarci, un’élite
comprendente tutte le pellicole di Pablo Chavarría Gutiérrez
perché, è ora che lo si dica a gran voce, stiamo parlando di un tizio che
ad appena trent’anni è già uno dei migliori al mondo.
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