martedì 30 gennaio 2018

Quand je serai dictateur

Quand je serai dictateur (2014) è un’apparizione che ci rivela con cristallina bellezza la plasmabilità di un cinema che in manifestazioni come queste disarma per la sua alta essenza e che al contempo ne esalta le pressoché infinite vie d’accesso sottolineando, a pieno titolo, di come un film non abbia minimamente bisogno di strutture rappresentative per potersi definire, appunto, Film. Perché quello che trasuda dal progetto della regista belga Yaël André è che il cinema inizia quando ci alziamo dalla sala e stacchiamo gli occhi dallo schermo in quanto, potenzialmente, tutto ciò che ci circonda può diventare cinema, perfino dei filmini amatoriali dimenticati in qualche polverosa soffitta, certo, per far sì che delle anonime testimonianze di vita ordinaria si trasformino in un oggetto artistico c’è bisogno di una mente che abbia il controllo sulla materia, non per niente la André in suddetta ottica compie una grossa operazione manifatturiera sia nel campo del sonoro (magari lo si nota poco ma gli effetti acustici sono oculatamente inseriti nel presente) che in quello narrativo (laddove una narrazione del genere, dislocata dalle immagini eppure in grado di formare un potente flusso saldato ad esse, è una cosa straordinaria), ed il risultato a cui giunge è un gioiello che quasi commuove per le zone profonde in cui riesce a penetrare, e, lo si sappia, non parliamo di un’opera seminale perché Chris Marker è morto ma non morirà mai, tuttavia, pur appartenendo alla cerchia dei film di montaggio, la sensazione è quella di riacquisire una verginità perduta nel tempo per colpa di molte, troppe, superflue visioni.

Come Un’ora sola ti vorrei (2002) o come – in parte – Elena (2012), altre due pellicole girate da donne dove dei filmati archivistici si trasformano in altro, anche Quand je serai dictateur possiede un dispositivo che è in grado di risignificare le innocue riprese in Super 8 d’antan, e, più precisamente, l’altro che si palesa è una storia enorme, sconfinata, che contiene a sua volta altre storie le quali si riconducono a tutte le vite possibili della voce narrante, infinite ed immaginate poiché il film è a tutti gli effetti un magnifico slancio immaginifico che si serve del mezzo cinematografico per sfuggire alla noia di un paesino vicino a Bruxelles, raccontare come vivere, e vivere come immaginare: è l’attraversare il multiverso nel tempo di novanta minuti assistendo alle eventualità dell’esistenza, a proiezioni di sé improbabili, fantascientifiche, utopistiche: “quando sarò felice”, e nell’autoritratto che moltiplica l’Io con tempere e sfumature autunnali, calde e melanconiche, c’è anche la costante ricerca di una controparte maschile, Georges, che, proteiforme, torna e ritorna in ognuno dei mondi paralleli, ma che mai rimane e che sempre sfugge, forse inghiottito dalla follia, forse ologramma di un sentimento perduto: è l’amore, un altro fattore che implementa ciò che la André riesce ad esprimere con dirompente delicatezza, che, essendo amore, è forza dei ricordi i quali, e qui sta il vero splendore, non si riferiscono per forza a ciò che è stato, guardando Quand je serai dictateur non ho mai avuto così nostalgia del futuro.

sabato 27 gennaio 2018

Roadtrip

Come fronteggiare l’insonnia in una calda estate berlinese.

Lieve fino a sfiorare la futilità, Roadtrip (2014) è il prodotto di Xaver Xylophon, eclettico artista nato a Monaco nell’85 con studi suddivisi tra Augusta e Londra, in Germania graphic design mentre in Inghilterra comunicazione. Definitosi sul suo sito personale un “freelance animator” (link), Xylophon si dedica anche al comparto musicale (sue sono le musiche sia per Roadtrip che per Kurzschluss [2009]) oltre che alla realizzazione grafica dei propri lavori. Soffermiamoci un attimo qui: gradevole l’aspetto cromatico del corto sotto esame, questo tratto acquerelloso regola uno strano effetto ottico dove a fondali volutamente sciatti, tirati via e imprecisi si uniscono piccole finezze da cogliere (il cerotto usato dal protagonista) che, al contrario, sono molto più definite e spiccano per contrasto. Come succede per buona parte degli oggetti animati contemporanei che non fanno parte del giro mainstream, e che di conseguenza non ricorrono in modo esagerato alla grafica computerizzata, è sempre piacevole constatare un ventaglio di tecniche artistiche pressoché inesauribile, ed anche se l’occhio che le osserva non ha le conoscenze adeguate per apprezzarle in pieno, il gancio della sensibilità umana potrà comunque afferrare qualcosa.

Poi sul resto c’è poco da analizzare, cioè: è una storiella, Xylophon punteggia la vicenda con delle carinerie e una percepibile delicatezza ma alla base è chiara la fragilità concettuale che costituisce il tutto. Quello che Roadtrip vuole dire è che se il protagonista fino a quel momento non riusciva a dormire la notte è perché era sempre solo e che quindi una volta trovata una persona disposta a infilarsi sotto le coperte con lui ha potuto sconfiggere l’insonnia, e allora ci si può addormentare anche in mezzo alla strada sotto un temporale. Ecco, a Xylophon preme tale concetto (che odora con molte probabilità di autobiografia) e da esso null’altro si dipana, mi verrete a dire che non ci dovrebbero essere grandi aspettative al cospetto di titoli del genere, sicché potrò controbattere che da qualunque esemplare di cinema che affrontiamo abbiamo l’obbligo di farci accendere il cervello, Roadtrip non rientra nella categoria di quei film che vincolano a spegnerlo totalmente perché non è una roba di stupida evasione (si tenta un approfondimento quando il barista chiede all’insonne che cosa vuole e lì emerge della sostanza), tuttavia averne già scritto così tanto è fin abbastanza.

giovedì 25 gennaio 2018

Familystrip

Lluís Miñarro è un produttore catalano classe ’49 che dall’inizio degli anni zero in poi ha finanziato moltissimi film trattati e apprezzati anche su codeste pagine, li cito per comprendere meglio l’intuito di quest’uomo: Honour of the Knights (2006), In the City of Sylvia (2007), Birdsong (2008), El somni (2008), Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), Finisterrae (2010), La mosquitera (2010), Aita (2010), tutto ciò (e molto altro), fino al 2009, data in cui, all’età di sessant’anni tondi, decide con Familystrip di affiancare all’attività principale anche quella di regista. La partenza è… come dire, parecchio “soft”, infatti l’opera in questione tocca una amatorialità quasi inevitabile visto che parliamo di un titolo domestico, una specie di filmino famigliare che non sfigurerebbe sullo scaffale di un’abitazione insieme, se esistessero ancora, ad altre impolverate VHS. Forse si esagera un po’ perché Miñarro si avvale comunque di una fonica e intuiamo inoltre almeno due videocamere che riprendono la scena, però nel complesso Familystrip è un oggetto esile esile, per il regista l’idea fondante è quella di immortalare i propri genitori a loro volta immortalati su un quadro dal pittore Francesc Herrero (a cui il film è dedicato poiché suicidatosi a ventisette anni), quindi abbiamo una stasi “casalinga” in cui l’anziana coppia, costituita da un’arcigna nonnina di origini andaluse e da un ex aviatore ora appassionato di modellismo, discute della vita, dei figli, del passato, della guerra, della Spagna.

Ritengo ci siano due tipi di interesse per forza di cose superiori a quello che potrebbe essere il nostro di spettatori non-iberici. Il primo è quello strettamente personale di Miñarro visto che Familystrip è più di ogni altra cosa un lavoro intimo, una fotografia in movimento che la stessa madre benedice: “potrai guardarci qui quando non ci saremo più”. Di conseguenza non è così facile penetrare in una sfera talmente personale, certo i due vecchietti fanno tenerezza e suscitano simpatia (a prescindere dalla nazionalità i loro discorsi sono gli stessi che potremmo udire in qualche altro Paese occidentale per bocca di loro coetanei), ma non basta, l’assenza di vero cinema ci fa sentire degli impiccioni, non facciamo parte di un ritratto famigliare del genere e non siamo nemmeno invogliati ad esserlo. Il secondo riguarda le tematiche “spagnole” affrontate dai due coniugi perché avendo passato insieme più di sessant’anni la loro storia si è intrecciata alla Storia, quella spagnola, tra guerre, monarchie e repubbliche, la testimonianza toccherà maggiormente chi calpesta o ha calpestato i luoghi di tali accadimenti e decisamente meno chi è al di qua dei Pirenei. Dopo i due step sopraccitati quanto rimane di Familystrip è facile immaginarlo: una punta di affetto, un’altra di nostalgia, e la voglia subitanea di mettersi alla ricerca di un altro film da vedere.

martedì 23 gennaio 2018

Frost

Si può stare qui a discettare sulla continuità artistica di Bartas protrattasi negli anni, e, chi di dovere, lo faccia pure, ma parlando a titolo personale e per dirla in modo sbrigativo, a seguito di un’opportuna rivalutazione il lituano lo si preferiva ai tempi in cui il suo cinema era diafano e impalpabile, senza scordare però che anche oggetti successivi come Freedom (2000) e soprattutto Seven Invisible Men (2005) avevano meritato il nostro sguardo, poi, come ben illustra il documentario biografico Sharunas Bartas: An Army of One (2010) diretto da Guillaume Coudray qualcosa è cambiato, probabilmente il lustro di silenzio ha permesso a Bartas di riflettere su di sé e di evadere dal simil-modello in cui si era calato, non ci è dato saperlo (nel doc sopraccitato egli rifiuta duramente un cambio di prospettiva), fatto sta che Eastern Drift (2010) aveva stupito per il distacco dai predecessori, ma non in maniera esattamente positiva, poi un altro periodo di silenzio marchiato indelebilmente dalla scomparsa di Katia Golubeva ed il ritorno nel 2015 con Peace to Us in Our Dreams (2015), un lavoro in cui forse per la prima volta il regista puntava la mdp dentro di lui e dentro i suoi fantasmi esistenziali, e ora che a stretto giro di posta è giunto anche Frost (2017) dobbiamo nuovamente rideterminare la nostra lente esegetica perché ’sta volta Sharunas riposiziona il mirino verso l’esterno, anzi, è plausibile sostenere che mai come questa volta l’attenzione sia riposta nella realtà circostante, nella contemporaneità, nella politica. Per cui, come scrivevo poco sopra, se vi sono degli stilemi bartasiani nonostante il netto cambio di metodo non se ne parlerà in codesto luogo perché risulta più importante avvicinarsi alla pellicola nello spazio che intercorre tra le idee sostenenti e la loro messa in pratica.

Un’interpretazione che mi stuzzica vedrebbe il protagonista maschile Rokas come l’impersonificazione di un occidentale medio pressoché avulso da qualunque guerra (a mio avviso non è nemmeno basilare il fatto che nello specifico si parli di quella del Donbass - “perché in Ucraina?”), che cerca informazioni in una Rete che, con un po’ di slancio fantastico, finisce per sovrapporsi con la concretezza circostante (il giochino di Bartas nel montare il video a schermo intero di Youtube con il flusso principale di immagini), ecco dunque che un elemento estraneo a certi contesti penetra lentamente in un nuovo mondo, viaggia, percorre chilometri, si perde... naviga? Il ragazzo è ipoteticamente una proiezione di ciò che possiamo essere noi spettatori, ci interroghiamo per trovare risposte nel Web (e la scena all’interno dell’hotel di lusso appare come il lurkaggio di un forum dove gli utenti si riempiono la bocca di parole sterili) e bussiamo al nostro cuore quando non batte come vorremmo (il confronto con Vanessa Paradis), Rokas è smarrito in un sistema complesso dalla non facile decifrazione, la sua compagna, ammesso che lo sia, è lontana e vicina come la guerra a cui stanno andando incontro (ed è notevole la carrellata vertiginosa su dei rami innevati che segna l’effettiva transizione verso la meta, verso il sito definitivo). Notiamo che ad un certo punto il giovane inizia ad utilizzare l’iPhone per registrare quanto vede, l’uso del supporto tecnologico media la sua presa di coscienza nei confronti dell’alterità, non sono banali souvenir bensì esemplari di inveramento poiché quanto riprendo/memorizzo sul mio cellulare diviene ineluttabilmente vero agli occhi di chi lo farò vedere. La verità, però, che esplode – alla lettera – fuori dagli schermi touch screen e dai monitor ultrapiatti non conosce compromessi: Rokas assorbito dal vortice febbrile della conoscenza ne viene massacrato, l’impatto con l’oggettività del conflitto bellico è annichilente.

Da un punto di vista concettuale, dunque, c’è della sostanza che dà da pensare, se invece guardiamo il modo in cui Bartas sviluppa scenicamente le proprie congetture allora tutto si rimette in discussione, e da subito: dal dialogo in apertura con l’amico che propone il viaggio umanitario dove la conversazione diventa un pretestuoso canale divulgativo verso chi guarda. Lo scambio di battute, al pari di altri scambi disseminati nel film (ripenso all’ultimo con il soldato), si ammanta di un artificio e di una meccanicità a cui si è disabituati se si guarda un certo tipo di settima arte. Il problema è nella sceneggiatura (scritta, tra l’altro, con una tale di nome Anna Cohen-Yanay), ma non in questa, in ogni sceneggiatura, nella logica dei passaggi a volte privi di logica (il tradimento di Inga: ok, ha dell’altro dietro ma quanto è forzato e brusco vedere cosa accade nell’albergo con Andrei?), nella pretesa di restituire attraverso le parole delle idee che invece troverebbero sfogo nelle immagini visto che il cinema è fondato da esse. Il limite della rappresentazione è di codificarsi in formule che arrugginiscono la visione e la sua percezione, norme che si prestano troppo facilmente ad obiezioni sminuenti, non tutto il cinema ha l’obbligo di diventare avanguardia, ci mancherebbe, ma in un lavoro come Frost che potrebbe avere le carte in regola per scollarsi dalla modestia prevalente è un peccato che si cada in simili trabocchetti. Bartas, comunque, è ben conscio della suddetta teoria perché lui, paradossalmente, da novellino viaggiava in una direzione quasi contraria a quella attuale, ed è per tale ragione che, come anticipato all’inizio, lo si poteva apprezzare maggiormente.

mercoledì 17 gennaio 2018

The Capsule

Con estremo ritardo dico la mia a proposito di The Capsule (2012), per farlo parto da un’affermazione comparativa facile facile: è un oggetto piuttosto differente rispetto a ciò che Athina Rachel Tsangari ci aveva fatto vedere fino a quel momento, sicché vi è una distanza anche dal famigerato movimento ellenico di cui la regista è stata la principale fautrice insieme a Lanthimos. Al contempo, giusto per rifugiarci in una constatazione banale, anche il corto presentato a Locarno ’12 è un conglomerato di simboli, anzi lo strato simbolico è così spesso che si potrebbe tagliare col machete. Pregio o difetto? Boh. Intanto va sottolineato di come The Capsule sia un progetto crossmediale che ha unito diverse espressioni artistiche (arte contemporanea, cinema e fashion) sotto l’egida di tal Dakis Ioannou, un mecenate greco-cipriota che tramite la fondazione DESTE da lui diretta ha sostentato il lavoro della Tsangari, la quale a sua volta si è ispirata alla pittrice polacca Aleksandra Waliszewska (qui co-sceneggiatrice) per imprimere su schermo il fiorire incubico che andiamo a tentar di decrittare. Insomma, il fermento culturale dietro al film non manca e tutte queste connessioni extrafilmiche, tradotte in una regia che spazia tanto nelle atmosfere quanto negli accorgimenti tecnici, partoriscono un’opera diversa, molto estetizzata (a tratti sembra proprio di “sfogliare” una rivista di moda), ma anche inconsueta, ed in fondo ritengo che ciò sia una qualità non trascurabile, nel polverone filmico che lievita festival dopo festival chi riesce a svettare un minimo merita attenzione.

Snocciolate sommariamente le informazioni produttive, tocca andare nel nucleo della Capsula, o almeno tentare un avvicinamento, ché non è mica facilissimo fronteggiare una mezz’ora e più di sfrenato surrealismo. Comunque, è abbastanza chiaro che il punto nodale si situi nella rappresentazione di un concetto muliebre originario, di un qualcosa che sta prima della Vita, e viene in mente, ad esempio, il notevole Evolution (2015) di Lucile Hadžihalilović come possibile sviluppo teorico di un tipico – si fa per dire – luogononluogo, così in un collegio che diventa, per dirla in modo brutto, un centro di educazione sull’essere donna, la in primis produttrice Tsangari si adopera nel calare le sue ragazze in un clima dove ogni gesto e ogni dettaglio potrebbero celare rimandi al macro-tema femmineo. Oddio, forse in alcuni casi l’impressione è che si prenda una piega priva di un interpretabile o di significati reconditi in quanto il senso è semplicemente quello di essere , in video, nel film, ma altre sequenze possiedono una carica che arriva a destinazione, si veda la scena del ballo vivificante (è accostabile, in misura ridotta, all’entrata di Tous les garcons et les filles in Attenberg, 2010), o l’insistenza sulle piccole uova, segno di fecondazione, somministrate al gruppetto, e non solo via bocca a quanto si vede. E a proposito di Attenberg, è vero, sono due film in cui è arduo rintracciare un filo conduttore, se non che, in fondo, ambedue ci parlano di un percorso femminile, e, se allarghiamo il nostro orizzonte, non facciamo troppa fatica ad intendere la pellicola del 2010 come una costola di The Capsule poiché esso è, potenzialmente, un contenitore di storie infinite, sia passate che future, infatti, senza volere gonfiare troppo l’esegesi, la parola “capsula” dà subito l'idea di un recipiente, di un involucro che contiene.

lunedì 15 gennaio 2018

Jiseul

Ad un film che si carica l’onere di spalancare una finestra su un fatto storico di cui i più non sapevano dell’esistenza ci si può rivolgere già dall’inizio con una certa benevolenza, ed anche se, per ipotesi, si tratterà di un film orrendo (senza esagerare) sarà possibile vedere il lato positivo nella sua esistenza all’interno dello sconfinato e in costante espansione universo cinematografico. Come i recenti casi altisonanti di Oppenheimer e di Panh, anche il lavoro di O Meul, sebbene lontanissimo dai colleghi appena citati poiché qui siamo nel campo della pura finzione, ha perlomeno il merito di metterci a conoscenza su un atroce episodio che va ulteriormente ad infangare una già molto inzaccherata storia dell’umanità. Siamo nel 1948 e in un’isola della Corea del Sud la polizia locale, fomentata dalla nazione che nel ‘900 ha fatto a pezzi il mondo con la sua politica militare (USA, of corse), decide di sterminare tutti gli abitanti dei villaggi lontani più di cinque chilometri dalla costa, il sillogismo è: se vivono nell’entroterra sono dei comunisti, per cui vanno uccisi. Di questo delirio à la Pol Pot ci viene proposto l’episodio riguardante un manipolo di contadini che per sfuggire alle angherie degli aguzzini si rifugiò per un mese in una grotta. Ne converrete che una testimonianza artistica sull’argomento non è cosa sgradita.

Poi sulla realizzazione di Jiseul (2012) si può discutere. Un budget abbastanza scarno ma comunque ben gestito (O Meul si è portato a casa il Gran Premio della Giuria al Sundance ’13) rende l’opera interessante sotto aspetti perlopiù formali. La confezione estetica e l’avvertibile ricerca visiva rivelano degli squarci di vera e inaspettata bellezza (così come è inaspettata un’iniziale vena comica che con il proseguire della vicenda si esaurisce), in particolare ho trovato ammirevole lo studio del gruppo di fuggiaschi all’interno della caverna in rapporto alla videocamera, evitate le grammatiche del campo/controcampo in più di un’occasione li vediamo schierati orizzontalmente nello spazio dello schermo come in un’Ultima Cena immersa nella pece, menù: patate (che sarebbe anche la traduzione del titolo). Il bianco e nero digitale è funzionale nella resa delle tonalità argentee e Meul O diciamo che non si risparmia, angolazioni e prospettive fanno tornare i conti e, in una occasione, brillare gli occhi: la fuga sulla collina che in sovrimpressione si fa donna.

A controbattere c’è una traccia narrativa che più schematica non si può dove alle vittime rispondono dei carnefici molto stereotipati a cui non sono state date soddisfacenti caratterizzazioni carismatiche. Ma soprattutto è la tendenza a scadere in una intensificazione drammatica ad abbassare il giudizio sull’opera, in talune situazioni si fa un uso di attrezzi superflui come i sempre insopportabili ralenti conditi da musiche pompose per spingere il pedale sull’empatia. Azioni del genere spostano l’ago su valori tangenti l’area mainstream in cui è più importante sbandierare che sussurrare, ed è strano perché Jiseul contiene sequenze che invece marciano piuttosto lontane dall’artificio (una, molto bella, intorno al fuoco con un movimento forse circolare forse laterale sulle varie persone), a O Meul però l’idea di accentuare piace assai e col finale ci va giù pesante avvalendosi di slow motion e ammennicoli vari. Senza la teatralizzazione degli aspetti emotivi e tragici Jiseul sarebbe potuto essere un titolo rispettabile, così rimane un oggetto un filo sopra la media per un cinema da sala, nulla di più.

venerdì 12 gennaio 2018

The Virgin Psychics

Che nel cinema di Sion Sono la sessualità sia un aspetto che fa capolino un numero cospicuo di volte è un dato agilmente stimabile, non tutti lo sanno ma in passato il regista aveva perfino proposto una propria declinazione del softcore con Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri (2000), film(etto) superfluo che però dettava già una linea ripresa poi tra mille altre deviazioni anche in futuro. Se parliamo di “sesso” dobbiamo comunque precisare che il punto di vista sononiano non è mai stato, come dire, adulto, le donne che popolano i suoi lavori sono molto spesso l’impersonificazione di un desiderio adolescenziale, sono femmine avvenenti bramate da uomini sbavanti, e sono, inoltre, la rappresentazione di un immaginario erotico prettamente nipponico dove l’età acerba (certificata dai succinti abitini scolareschi) stimola evidentemente il testosterone dei connazionali di Sono. Se in passato stralci di libido affioravano qua e là (ricordo di sicuro Love Exposure [2008] e Guilty of Romance [2010]), con Eiga: minna! Esupâ da yo! (2015) il focus su tale tema è forte come non mai, tuttavia va precisato subito che lo spazio per una lettura pseudo-sociale sul corpo muliebre e sulla sua condizione nella realtà giapponese è a mio modo di vedere assente, e se c’è (con susseguente non piena ricezione per noi occidentali) è una roba che comunque deve fronteggiare un circuito parossistico fatto di upskirt e reggiseni ad un passo dall’esplosione che non possono fornire chissà quale profondità concettuale. Per cui al pari del coetaneo Tag (2015), pur impegnandoci a rintracciare dei significati sotto la superficie, il tasso di disimpegno è a livelli elevatissimi tanto che la visione non può che ricondursi allo schietto intrattenimento.

Il progetto The Virgin Psychics, che rientra nell’annata più pazza dell’intera carriera di Sono, è tratto da un manga [1] che l’autore aveva già adattato al piccolo schermo con la serie Minna! Esupâ dayo! (2013) e con il film tv sempre del 2015 Minna! Esper Dayo!: Bangai hen Esper Miyako e iku, qui la dimensione “fumettosa” che si respira è effettivamente riscontrabile nelle quasi due ore di girato dove a contrapposizioni elementari buoni vs. cattivi si subordinano personaggi altrettanto elementari figli di una farsa che definire grottesca è un po’ troppo, il registro che infatti emerge alla resa dei conti è più frivolo e infantile che altro, gli accenti comici tra erezioni istantanee e maschere da Bagaglino non vanno tanto per il sottile, Sono cazzeggia, come sta ormai facendo dai tempi di Himizu (2011), e poco sembra importargli di tracciare un percorso registico che punti ad un miglioramento personale, l’impressione è che nell’irrefrenabile susseguirsi di lungometraggi alcuni standard, sia estetici che narrativi, stiano crollando davanti ai nostri occhi, e questa piega giocosa che diverte con la medesima facilità che ci si mette a dimenticare quanto visto, non valorizza nemmeno quelle piccole intuizioni ravvisabili anche in Eiga: minna! Esupâ da yo! come i dialoghi tra feti nei grembi materni ricreati poi in forma teatrale e la corrente sentimentale che viaggia parallela a quella lussuriosa (si fa per dire, tante chiacchiere e zero fatti) così ingenua ed esacerbata da risultare, grazie al paradosso, realmente credibile. Lo svago e l’immediatezza non sono i sentimenti che chi scrive vuole percepire con il cinema, il sorriso spettatoriale che si genera assistendo all’opera sotto esame è un feedback di cui Sono non dovrebbe andare granché fiero, a luci spente non si deposita nulla dell’inscenamento caricaturale delle pulsioni sessuali umane: ah ah i poteri sexy-ESP, ah ah le bambole gonfiabili, ah ah. Avanti il prossimo, grazie.
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[1] È ormai una prassi consolidata quella di affidarsi a testi di altri per il buon Sion, tra le produzioni recenti abbiamo anche Tokyo Tribe (2014) e Shinjuku Swan (2015).

mercoledì 10 gennaio 2018

Beast

Nella campagna ungherese lo schiavismo va ancora di moda.

Nessuno conosce questo Attila Till, il regista di Csicska (2011), cortometraggio approdato anche a Cannes ’11, ma solo che al vedere le locandine e qualche immagine degli altri suoi due film si può dedurre una potenziale verità perché a volte l’abito fa il monaco: Till è un regista commerciale. Punto. Da siffatta constatazione è difficile che possa germogliare un cinema interessante poiché certe tendenze non si piegano, nemmeno quando si tenta una via più “autoriale”. Perché Beast non è ovviamente una favola della buonanotte, eppure, nonostante si muova in una zona di crudele disumanità, finisce per assecondare le necessità di uno spettatore superficiale visto che punta tutto quello che ha da dire sullo shock immediato. L’impatto della violenza gratuita è l’obiettivo a cui Till tende e che indefessamente raggiunge, è vero che nel contenitore del corto non si può pretendere chissà cosa da un approccio narrativo, come è anche vero che dopo centinaia e centinaia di visioni si fa un po’ il callo ad una brutalità che non è capace di travalicare lo schermo e che si registra passivamente come i delitti cronachistici del tg. Mi si taccia pure di insensibilità davanti ad un tizio ucciso per niente, io per risposta rivolgerò sempre e comunque lo sguardo altrove, in luoghi filmici a più elevata intensità.

Beast condivide con un altro film ungherese la trattazione della schiavitù al giorno d’oggi, mi riferisco all’inguardabile Mirage (2014) di Hajdu dove di nuovo uno spietato fattore sottometteva dei poveri cristi. Due indizi non saranno una prova ma è plausibile che in certe zone del territorio magiaro il mondo civilizzato non sia ancora arrivato (ma con il “nostro” caporalato siamo sicuri di poterci sentire così socialmente progrediti?), e qui si sostanzia l’unico valore di un lavoro del genere, ovvero il farci conoscere una possibile realtà del mondo contemporaneo, ed è un pregio che poco ha a che fare con la materia cinema, che gli uomini (intesi proprio come sesso di appartenenza) possano essere così meschini da annullare le vite di altre persone, anche famigliari, è purtroppo un dato strarisaputo che quotidianamente aggiunge una nuova pagina al proprio libro nero, che almeno la settima arte abbia la forza di dircelo in un modo più congruo al nostro bisogno di percepire un buon film.

lunedì 8 gennaio 2018

Twilight Portrait

Per il mio sentire e per il mio modo di intendere il cinema adesso, Portret v sumerkakh (2011) è un film che oscilla tra l’indecenza e l’irritazione, sentimenti che fioriscono spontanei al cospetto di un debutto che lascia attoniti per l’assenza totale di uno scheletro portante e motivante, come se la regista Angelina Nikonova, coadiuvata nella scrittura dall’attrice protagonista dell’opera, avesse avuto nella testa una sagoma confusa mescolante il degrado della Russia odierna e l’assenza delle istituzioni, la violenza maschile, l’insoddisfazione occidentale degli over quaranta e l’incontro tra due anime opposte inconciliabili, e ad ognuno di questi concetti si possono muovere delle critiche che disintegrano ogni buon proposito di visione, e lo farò perché Twilight Portrait se lo merita, ma prima di tutto, la questione fondamentale che precede qualunque opinione negativa, riguarda il fatto che nel tentare una strada dove la narrazione è logica e lineare si legittima la necessità di mantenere sempre alti gli standard della veridicità, in tali frangenti quello che si vede deve per forza essere traslabile anche fuori dalla sala, in caso contrario il dazio da pagare si chiama ridicolo involontario al quale soggiacciono tag come “forzatura” e “artificio”, elementi che remano esattamente contro il mood realistico al quale il film aspirerebbe.

Sul fatto che nell’ex Unione Sovietica ogni luogo sia la periferia più periferia di qualsiasi città europea è un fatto noto e il cinema russo ce lo ricorda ogni volta, la Nikonova qui fa un lavoro sufficiente ma molti prima e dopo di lei sono stati più convincenti (un My Joy [2010] a caso ce lo ricorda), la sensazione è che ci sia ancora parecchio da girare e da vedere per lei. In merito alla tesi delle istituzioni inquinate dal contesto deumanizzato si scade nel vignettistico con i (soliti) poliziotti-cattivi o con sottolineature marcatissime (la denuncia del furto) che ci imboccano fino a strafogarci; a proposito della prepotenza sulle donne, peraltro abbozzata e messa lì giusto per dare un minimo di spessore al lavoro di Marina, si assiste nel finale ad un pasticcio colossale che ho trovato inspiegabile (cosa voleva dirci la regista? Che non tutti i padri sono dei bruti e che a volte le figlie sono delle deficienti? Mah! È tutto così costruito e innaturale…), meglio soprassedere perché il tonfo giunge inevitabile con l’avvicinarsi tra lei e lui che è… come dire? Improponibile? Ad onor del vero tutto è lecito, ma, ripeto, in un contesto come quello della Nikonova c’è la necessità di presupposti narrativi credibili altrimenti accade l’irreparabile: non si crede a niente di quanto si assiste e allora il distacco unito ad un certo fastidio si fa sempre più largo. Evito di entrare negli episodi, semplicemente la sindrome di Stoccolma in salsa erotica che si viene a creare non regge, è soltanto una strumentalizzazione nella costruzione generale, serviva un cambio di prospettive esistenziali per Marina e si è tentato di arrangiare alla buona una connessione con l’aguzzino di turno.

E a proposito di Marina: data la centralità assoluta della sua figura devo dire che non poteva essere tratteggiata in modo peggiore. Se sulla carta c’era probabilmente l’intenzione di trasmettere le difficoltà che le donne nella Russia d’oggi devono fronteggiare, quello che ne esce è un profilo instabile che nasconderà pure un dissesto psicologico non da poco ma al quale non ci è dato l’accesso per la comprensione. Quanto è insopportabile dunque un manichino mosso da esigenze scritturiali che non tengono conto dei processi umani che dovrebbero sottenderle? La risposta sta in un metodo che non funziona, sprecare altre parole è trop

venerdì 5 gennaio 2018

Thelma

Se avessi letto la sceneggiatura di Thelma (2017) prima dell’effettiva visione avrei bollato l’operazione troppo ardita nel mero comparto tramico: religione, amore saffico, sensi di colpa, superpoteri che sembrano provenire da un Cronenberg 80’s, no, il frullato sulla carta non avrebbe potuto funzionare, a meno che la trasposizione in scena della pagine scritte dal sodale Eskil Vogt (il suo Blind [2014] possiede la tendenza non dissimile di affacciarsi sull’irrazionale) non fosse stata esposta con grazia estetica e finezza autoriale tali da rivalutare una sinossi parecchio audace. Se Joachim Trier sia riuscito in pieno nell’intento di rendere “serio” un film che rischiava di impantanarsi nel basso genere è una cosa di cui non sono riuscito a farmi un’idea definita, al contempo però trovo che il lavoro svolto per nobilitare la storia valga ben più di qualche complimento, ma del resto Trier è regista che ha già dimostrato un discreto valore anche quando si è misurato con un prodotto più esportabile e a mio avviso fin troppo sottostimato (Segreti di famiglia, 2015). Sicuramente i due norvegesi si sono impegnati oltremodo per complicarsi la vita, la scelta di approdare nei territori del thriller soprannaturale li ha spinti a dare una coerenza narrativa a quanto raccontato, le spiegazioni ci sono, il che è un dato importante poiché il cinema non necessita di chiare decifrazioni, ed essendoci schematizzano forse più del dovuto ciò che si vede, rielaborando la proiezione sembra, almeno al sottoscritto, che tutto si possa governare con agilità: abbiamo l’eziologia del disturbo (la nonna, inserita con un pelo di forzatura), i connotati del disturbo stesso, i perché e i percome (ah, l’incipit) ed una tessitura sentimentale il cui meccanismo, va detto, è comunque intrigante.

Sintetizzando, Thelma è foriero di una lettura maggiormente semplice rispetto al primo possibile impatto, chi può considerarlo un punto a sfavore di Trier lo tenga ben presente prima di affrontare la pellicola. Evidenziato suddetto aspetto, non nego che comunque nelle pressoché due ore di girato l’attenzione di chi guarda è sempre saldamente nelle mani dell’opera che ha un ritmo suo, a metà strada tra un blockbuster di qualità e un oggetto sommerso, oltre ad una capacità di vivere su strappi visivi molto energici che ci fanno alzare di un poco l’asticella dell’ammirazione verso Trier, mi riferisco alle sequenze di natura incerta che si svolgono in quel limbo mentale tracimante nel reale dove spicca un gran bel gusto formale e dove delle Immagini si salvano automaticamente nella nostra memoria: il serpente tentatore che striscia nella bocca di Thelma e la ripresa subacquea in cui la ragazza pare nuotare in un oceano oscuro sono solo i primi due esempi che sovvengono in un film punteggiato da uno stile che banalmente si può stabilire così: piacevole. Per una sensibilità personale ho trovato un’affinità superiore con gli esordi dello scandinavo, Reprise (2006) e Oslo, August 31st (2011), dove il tono seppur minore trasudava una drammaticità sentita, tuttavia bisogna riconoscere che nel prosieguo professionale, pur sconfinando in altri territori, il buon Joachim ha mantenuto una discreta continuità tematica (cfr. ancora il film “americano” del 2015), infatti Trier è notevolmente attratto dalla polveriera che si può nascondere in una famiglia, qui se accettiamo la boutade del paranormale la tragedia nel focolare è bella spessa e nel picco parossistico ha anche un’istantanea luttuosa che non si era mai vista al cinema (la silhouette del neonato sotto il ghiaccio fa male), e, di nuovo sul versante parentale, è azzeccato il contrappasso incendiario che subisce il padre sulla barca.

Nel complesso, a prescindere dallo slancio azzardato nel fantastico e ad un apparente arzigogolamento del plot, si palesa una competenza talmente di livello da interrogarmi se in Italia sia possibile produrre manufatti con una cifra internazionale egualmente vendibile all’estero, non so se sono vittima della sindrome “il compito del mio vicino di banco è sempre migliore del mio” o se l’esterofilia che volenti o nolenti ci suggestiona abbia un peso decisivo in termini di fascinazione, ma fatico ad immaginare che su un Thelma qualsiasi possa campeggiare il tricolore italico...

martedì 2 gennaio 2018

Muerte blanca

È la rappresentazione (artistica, e lo si evidenzia subito) di una tragedia sconosciuta ai più avvenuta nel 2005 quando un folto gruppo di giovani soldati (si parla di quasi cinquanta persone) morirono di freddo sulle Ande cilene, più precisamente nella zona di Antuco. Muerte blanca (2014) non ci né si interroga su come sia accaduta una tale disgrazia, e onestamente è la prima cosa che salta alla mente: è possibile che della gente presumibilmente preparata muoia al gelo durante un’esercitazione? La risposta non risiede qua, forse si trova in un altro film che tratta il medesimo argomento (Blanca oscuridad, 2016), mentre Roberto Collío, pressoché un’esordiente, preferisce di gran lunga puntare sull’atmosfera, e fa bene: il suo lavoro, offerto in un formato che ricorda l’usura della pellicola, compie un gesto di ammirabile intelligenza: faccio un film su dei militari assiderati? Ok, ma i militari non li mostro, Collío, infatti, preferisce muoversi etereo nelle zone, ipotizzo, di Antuco ma non in inverno, si sofferma su e dentro abitazioni disabitate, ne sonda i corridoi oscuri, contempla un fuoco che arde, osserva un orizzonte montano gravido di nuvole cineree, c’è, in buona sostanza, un sentimento di malessere, mortuario, ci sono dei fantasmi, è avvertibile e comprensibile, Collío apre una valvola da dove sfogano spiriti fuligginosi, tanto che, a causa delle recenti visioni lynchiane, non ci sarebbe stato da stupirsi se da dietro un albero fosse sbucato un demoniaco taglialegna chiedendo reiterate volte da accendere.

Il taglio decadente nonché inquietante che il regista è riuscito ad imprimere si deve anche ad un sound design da serie A che coniuga in un’apprezzabile miscela un sonoro in presa diretta, fibrillanti ronzii dronici di elettricità e comunicazioni via radio (magari originali, il che renderebbe la cosa ancora più “forte”), è un composto audio che dà uno spessore davvero ragguardevole al materiale video e che rammenta, se mai ce ne fosse bisogno, la malleabilità dell’oggetto cinema e degli interstizi (esistenziali e, credo, anche politici in questo caso) in cui riesce a penetrare. Ho aspettato finora di citare la peculiarità del cortometraggio in quanto è esattamente in suddetto versante che l’opera mi ha per paradosso convinto meno, devo ammettere che nel paragrafo precedente ho mentito: non è del tutto vero che il contingente militare viene celato allo spettatore, Collío decide di affidare la centralità del tema a dei bozzetti animati molto asciutti che riproducono il biancore della neve e l’annesso smarrimento dei soggetti coinvolti, la tecnica utilizzata, il rotoscoping, anche se sorpassata, ed anzi grazie a ciò, sortisce effetti positivi sul versante estetico, tuttavia è su quello concettuale che chi scrive ha dei dubbi, sintetizzando ritengo che non ci fosse così bisogno di mostrare la sofferenza dei militi (una conseguenza di ciò è appunto un biasimevole picco drammatico con allucinazione genitoriale), se Muerte blanca avesse continuato a galleggiare esclusivamente in quel limbo ectoplasmico fatto di vocii e oscurità avrebbe incontrato maggiormente le mie necessità cinefile che sono lontane dall’esibizione. Bravo Collío comunque, il talento ed il tatto ci sono, quel monolite nero che giganteggia sulla locandina lo si ricorderà a lungo.