martedì 30 gennaio 2018

Quand je serai dictateur

Quand je serai dictateur (2014) è un’apparizione che ci rivela con cristallina bellezza la plasmabilità di un cinema che in manifestazioni come queste disarma per la sua alta essenza e che al contempo ne esalta le pressoché infinite vie d’accesso sottolineando, a pieno titolo, di come un film non abbia minimamente bisogno di strutture rappresentative per potersi definire, appunto, Film. Perché quello che trasuda dal progetto della regista belga Yaël André è che il cinema inizia quando ci alziamo dalla sala e stacchiamo gli occhi dallo schermo in quanto, potenzialmente, tutto ciò che ci circonda può diventare cinema, perfino dei filmini amatoriali dimenticati in qualche polverosa soffitta, certo, per far sì che delle anonime testimonianze di vita ordinaria si trasformino in un oggetto artistico c’è bisogno di una mente che abbia il controllo sulla materia, non per niente la André in suddetta ottica compie una grossa operazione manifatturiera sia nel campo del sonoro (magari lo si nota poco ma gli effetti acustici sono oculatamente inseriti nel presente) che in quello narrativo (laddove una narrazione del genere, dislocata dalle immagini eppure in grado di formare un potente flusso saldato ad esse, è una cosa straordinaria), ed il risultato a cui giunge è un gioiello che quasi commuove per le zone profonde in cui riesce a penetrare, e, lo si sappia, non parliamo di un’opera seminale perché Chris Marker è morto ma non morirà mai, tuttavia, pur appartenendo alla cerchia dei film di montaggio, la sensazione è quella di riacquisire una verginità perduta nel tempo per colpa di molte, troppe, superflue visioni.

Come Un’ora sola ti vorrei (2002) o come – in parte – Elena (2012), altre due pellicole girate da donne dove dei filmati archivistici si trasformano in altro, anche Quand je serai dictateur possiede un dispositivo che è in grado di risignificare le innocue riprese in Super 8 d’antan, e, più precisamente, l’altro che si palesa è una storia enorme, sconfinata, che contiene a sua volta altre storie le quali si riconducono a tutte le vite possibili della voce narrante, infinite ed immaginate poiché il film è a tutti gli effetti un magnifico slancio immaginifico che si serve del mezzo cinematografico per sfuggire alla noia di un paesino vicino a Bruxelles, raccontare come vivere, e vivere come immaginare: è l’attraversare il multiverso nel tempo di novanta minuti assistendo alle eventualità dell’esistenza, a proiezioni di sé improbabili, fantascientifiche, utopistiche: “quando sarò felice”, e nell’autoritratto che moltiplica l’Io con tempere e sfumature autunnali, calde e melanconiche, c’è anche la costante ricerca di una controparte maschile, Georges, che, proteiforme, torna e ritorna in ognuno dei mondi paralleli, ma che mai rimane e che sempre sfugge, forse inghiottito dalla follia, forse ologramma di un sentimento perduto: è l’amore, un altro fattore che implementa ciò che la André riesce ad esprimere con dirompente delicatezza, che, essendo amore, è forza dei ricordi i quali, e qui sta il vero splendore, non si riferiscono per forza a ciò che è stato, guardando Quand je serai dictateur non ho mai avuto così nostalgia del futuro.

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