martedì 23 gennaio 2018

Frost

Si può stare qui a discettare sulla continuità artistica di Bartas protrattasi negli anni, e, chi di dovere, lo faccia pure, ma parlando a titolo personale e per dirla in modo sbrigativo, a seguito di un’opportuna rivalutazione il lituano lo si preferiva ai tempi in cui il suo cinema era diafano e impalpabile, senza scordare però che anche oggetti successivi come Freedom (2000) e soprattutto Seven Invisible Men (2005) avevano meritato il nostro sguardo, poi, come ben illustra il documentario biografico Sharunas Bartas: An Army of One (2010) diretto da Guillaume Coudray qualcosa è cambiato, probabilmente il lustro di silenzio ha permesso a Bartas di riflettere su di sé e di evadere dal simil-modello in cui si era calato, non ci è dato saperlo (nel doc sopraccitato egli rifiuta duramente un cambio di prospettiva), fatto sta che Eastern Drift (2010) aveva stupito per il distacco dai predecessori, ma non in maniera esattamente positiva, poi un altro periodo di silenzio marchiato indelebilmente dalla scomparsa di Katia Golubeva ed il ritorno nel 2015 con Peace to Us in Our Dreams (2015), un lavoro in cui forse per la prima volta il regista puntava la mdp dentro di lui e dentro i suoi fantasmi esistenziali, e ora che a stretto giro di posta è giunto anche Frost (2017) dobbiamo nuovamente rideterminare la nostra lente esegetica perché ’sta volta Sharunas riposiziona il mirino verso l’esterno, anzi, è plausibile sostenere che mai come questa volta l’attenzione sia riposta nella realtà circostante, nella contemporaneità, nella politica. Per cui, come scrivevo poco sopra, se vi sono degli stilemi bartasiani nonostante il netto cambio di metodo non se ne parlerà in codesto luogo perché risulta più importante avvicinarsi alla pellicola nello spazio che intercorre tra le idee sostenenti e la loro messa in pratica.

Un’interpretazione che mi stuzzica vedrebbe il protagonista maschile Rokas come l’impersonificazione di un occidentale medio pressoché avulso da qualunque guerra (a mio avviso non è nemmeno basilare il fatto che nello specifico si parli di quella del Donbass - “perché in Ucraina?”), che cerca informazioni in una Rete che, con un po’ di slancio fantastico, finisce per sovrapporsi con la concretezza circostante (il giochino di Bartas nel montare il video a schermo intero di Youtube con il flusso principale di immagini), ecco dunque che un elemento estraneo a certi contesti penetra lentamente in un nuovo mondo, viaggia, percorre chilometri, si perde... naviga? Il ragazzo è ipoteticamente una proiezione di ciò che possiamo essere noi spettatori, ci interroghiamo per trovare risposte nel Web (e la scena all’interno dell’hotel di lusso appare come il lurkaggio di un forum dove gli utenti si riempiono la bocca di parole sterili) e bussiamo al nostro cuore quando non batte come vorremmo (il confronto con Vanessa Paradis), Rokas è smarrito in un sistema complesso dalla non facile decifrazione, la sua compagna, ammesso che lo sia, è lontana e vicina come la guerra a cui stanno andando incontro (ed è notevole la carrellata vertiginosa su dei rami innevati che segna l’effettiva transizione verso la meta, verso il sito definitivo). Notiamo che ad un certo punto il giovane inizia ad utilizzare l’iPhone per registrare quanto vede, l’uso del supporto tecnologico media la sua presa di coscienza nei confronti dell’alterità, non sono banali souvenir bensì esemplari di inveramento poiché quanto riprendo/memorizzo sul mio cellulare diviene ineluttabilmente vero agli occhi di chi lo farò vedere. La verità, però, che esplode – alla lettera – fuori dagli schermi touch screen e dai monitor ultrapiatti non conosce compromessi: Rokas assorbito dal vortice febbrile della conoscenza ne viene massacrato, l’impatto con l’oggettività del conflitto bellico è annichilente.

Da un punto di vista concettuale, dunque, c’è della sostanza che dà da pensare, se invece guardiamo il modo in cui Bartas sviluppa scenicamente le proprie congetture allora tutto si rimette in discussione, e da subito: dal dialogo in apertura con l’amico che propone il viaggio umanitario dove la conversazione diventa un pretestuoso canale divulgativo verso chi guarda. Lo scambio di battute, al pari di altri scambi disseminati nel film (ripenso all’ultimo con il soldato), si ammanta di un artificio e di una meccanicità a cui si è disabituati se si guarda un certo tipo di settima arte. Il problema è nella sceneggiatura (scritta, tra l’altro, con una tale di nome Anna Cohen-Yanay), ma non in questa, in ogni sceneggiatura, nella logica dei passaggi a volte privi di logica (il tradimento di Inga: ok, ha dell’altro dietro ma quanto è forzato e brusco vedere cosa accade nell’albergo con Andrei?), nella pretesa di restituire attraverso le parole delle idee che invece troverebbero sfogo nelle immagini visto che il cinema è fondato da esse. Il limite della rappresentazione è di codificarsi in formule che arrugginiscono la visione e la sua percezione, norme che si prestano troppo facilmente ad obiezioni sminuenti, non tutto il cinema ha l’obbligo di diventare avanguardia, ci mancherebbe, ma in un lavoro come Frost che potrebbe avere le carte in regola per scollarsi dalla modestia prevalente è un peccato che si cada in simili trabocchetti. Bartas, comunque, è ben conscio della suddetta teoria perché lui, paradossalmente, da novellino viaggiava in una direzione quasi contraria a quella attuale, ed è per tale ragione che, come anticipato all’inizio, lo si poteva apprezzare maggiormente.

2 commenti:

  1. Anch'io avevo preferito Seven invisible Men e poi l'avevo quasi dimenticato.
    Ho visto Frost recentemente e non mi ha annoiato: interpretato bene, scritto in maniera precisa a volte, altre superficialmente . Sono d'accordo su di te su formule e vizi che arrugginiscono la visione, Bartas non ne ha bisogno, il film poteva giovarne sicuramente

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  2. I problemi stanno proprio nelle due parole che citi: "interpretato" e "scritto", il tasso di finzione che ne deriva non è gestito in modo soddisfacente da Bartas, basta prendere il primo, artefattissimo, incontro con l'amico che racconta al protagonista della missione umanitaria ma che nei fatti lo sta raccontando a noi, ce lo sta infilando letteralmente nelle orecchie, e la letteralità, del resto, non si sposa, o non dovrebbe, con il cinema autoriale.

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