Si può stare qui a
discettare sulla continuità artistica di Bartas protrattasi negli
anni, e, chi di dovere, lo faccia pure, ma parlando a titolo
personale e per dirla in modo sbrigativo, a seguito di un’opportuna
rivalutazione il lituano lo si preferiva ai tempi in cui il suo
cinema era diafano e impalpabile, senza scordare però che anche
oggetti successivi come Freedom (2000) e soprattutto Seven Invisible Men (2005) avevano
meritato il nostro sguardo, poi, come ben illustra il documentario
biografico Sharunas Bartas: An Army of One (2010)
diretto da Guillaume Coudray qualcosa è cambiato, probabilmente il
lustro di silenzio ha permesso a Bartas di riflettere su di sé e di
evadere dal simil-modello in cui si era calato, non ci è dato
saperlo (nel doc sopraccitato egli rifiuta duramente un cambio di
prospettiva), fatto sta che Eastern Drift
(2010) aveva stupito per il distacco dai predecessori, ma non in
maniera esattamente positiva, poi un altro periodo di silenzio
marchiato indelebilmente dalla scomparsa di Katia Golubeva ed il
ritorno nel 2015 con Peace to Us in Our Dreams (2015),
un lavoro in cui forse per la prima volta il regista puntava la mdp
dentro di lui e dentro i suoi fantasmi esistenziali, e ora che a
stretto giro di posta è giunto anche Frost
(2017) dobbiamo nuovamente rideterminare la nostra lente esegetica
perché ’sta volta Sharunas riposiziona il mirino verso l’esterno,
anzi, è plausibile sostenere che mai come questa volta l’attenzione
sia riposta nella realtà circostante, nella contemporaneità, nella
politica. Per cui, come scrivevo poco sopra, se vi sono degli stilemi
bartasiani nonostante il netto cambio di metodo non se ne parlerà in
codesto luogo perché risulta più importante avvicinarsi alla
pellicola nello spazio che intercorre tra le idee sostenenti e la
loro messa in pratica.
Un’interpretazione
che mi stuzzica vedrebbe il protagonista maschile Rokas come
l’impersonificazione di un occidentale medio pressoché avulso da
qualunque guerra (a mio avviso non è nemmeno basilare il fatto che
nello specifico si parli di quella del Donbass - “perché in
Ucraina?”), che cerca informazioni in una Rete che, con un po’ di
slancio fantastico, finisce per sovrapporsi con la concretezza
circostante (il giochino di Bartas nel montare il video a schermo
intero di Youtube con il flusso principale di immagini), ecco dunque
che un elemento estraneo a certi contesti penetra lentamente in un
nuovo mondo, viaggia, percorre chilometri, si perde... naviga?
Il ragazzo è ipoteticamente una proiezione di ciò che possiamo
essere noi spettatori, ci interroghiamo per trovare risposte nel Web
(e la scena all’interno dell’hotel di lusso appare come il
lurkaggio di un forum dove gli utenti si riempiono la bocca di parole
sterili) e bussiamo al nostro cuore quando non batte come vorremmo
(il confronto con Vanessa Paradis), Rokas è smarrito in un sistema
complesso dalla non facile decifrazione, la sua compagna, ammesso che
lo sia, è lontana e vicina come la guerra a cui stanno andando
incontro (ed è notevole la carrellata vertiginosa su dei rami
innevati che segna l’effettiva transizione verso la meta, verso il
sito definitivo).
Notiamo che ad un certo punto il giovane inizia ad utilizzare
l’iPhone per registrare quanto vede, l’uso del supporto
tecnologico media la sua presa di coscienza nei confronti
dell’alterità, non sono banali souvenir bensì esemplari di
inveramento poiché quanto riprendo/memorizzo sul mio cellulare
diviene ineluttabilmente vero
agli occhi di chi lo farò vedere. La verità, però, che esplode –
alla lettera – fuori dagli schermi touch screen e dai monitor
ultrapiatti non conosce compromessi: Rokas assorbito dal vortice
febbrile della conoscenza ne viene massacrato, l’impatto con
l’oggettività del conflitto bellico è annichilente.
Da
un punto di vista concettuale, dunque, c’è della sostanza che dà
da pensare, se invece guardiamo il modo in cui Bartas sviluppa
scenicamente le proprie congetture allora tutto si rimette in
discussione, e da subito: dal dialogo in apertura con l’amico che
propone il viaggio umanitario dove la conversazione diventa un
pretestuoso canale divulgativo verso chi guarda. Lo scambio di
battute, al pari di altri scambi disseminati nel film (ripenso
all’ultimo con il soldato), si ammanta di un artificio e di
una meccanicità a cui si è disabituati se si guarda un certo tipo di settima arte. Il problema è nella
sceneggiatura (scritta, tra l’altro, con una tale di nome Anna
Cohen-Yanay), ma non in questa, in ogni sceneggiatura, nella logica
dei passaggi a volte privi di logica (il tradimento di Inga: ok, ha
dell’altro dietro ma quanto è forzato e brusco vedere cosa accade
nell’albergo con Andrei?), nella pretesa di restituire attraverso
le parole delle idee che invece troverebbero sfogo nelle immagini
visto che il cinema è fondato da esse. Il limite della
rappresentazione è di codificarsi in formule che arrugginiscono la
visione e la sua percezione, norme che si prestano troppo facilmente
ad obiezioni sminuenti, non tutto il cinema ha l’obbligo di
diventare avanguardia, ci mancherebbe, ma in un lavoro come Frost
che potrebbe avere le carte in
regola per scollarsi dalla modestia prevalente è un peccato che si
cada in simili trabocchetti. Bartas, comunque, è ben conscio della
suddetta teoria perché lui, paradossalmente, da novellino viaggiava
in una direzione quasi contraria a quella attuale, ed è per tale
ragione che, come anticipato all’inizio, lo si poteva apprezzare
maggiormente.
Anch'io avevo preferito Seven invisible Men e poi l'avevo quasi dimenticato.
RispondiEliminaHo visto Frost recentemente e non mi ha annoiato: interpretato bene, scritto in maniera precisa a volte, altre superficialmente . Sono d'accordo su di te su formule e vizi che arrugginiscono la visione, Bartas non ne ha bisogno, il film poteva giovarne sicuramente
I problemi stanno proprio nelle due parole che citi: "interpretato" e "scritto", il tasso di finzione che ne deriva non è gestito in modo soddisfacente da Bartas, basta prendere il primo, artefattissimo, incontro con l'amico che racconta al protagonista della missione umanitaria ma che nei fatti lo sta raccontando a noi, ce lo sta infilando letteralmente nelle orecchie, e la letteralità, del resto, non si sposa, o non dovrebbe, con il cinema autoriale.
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