lunedì 15 gennaio 2018

Jiseul

Ad un film che si carica l’onere di spalancare una finestra su un fatto storico di cui i più non sapevano dell’esistenza ci si può rivolgere già dall’inizio con una certa benevolenza, ed anche se, per ipotesi, si tratterà di un film orrendo (senza esagerare) sarà possibile vedere il lato positivo nella sua esistenza all’interno dello sconfinato e in costante espansione universo cinematografico. Come i recenti casi altisonanti di Oppenheimer e di Panh, anche il lavoro di O Meul, sebbene lontanissimo dai colleghi appena citati poiché qui siamo nel campo della pura finzione, ha perlomeno il merito di metterci a conoscenza su un atroce episodio che va ulteriormente ad infangare una già molto inzaccherata storia dell’umanità. Siamo nel 1948 e in un’isola della Corea del Sud la polizia locale, fomentata dalla nazione che nel ‘900 ha fatto a pezzi il mondo con la sua politica militare (USA, of corse), decide di sterminare tutti gli abitanti dei villaggi lontani più di cinque chilometri dalla costa, il sillogismo è: se vivono nell’entroterra sono dei comunisti, per cui vanno uccisi. Di questo delirio à la Pol Pot ci viene proposto l’episodio riguardante un manipolo di contadini che per sfuggire alle angherie degli aguzzini si rifugiò per un mese in una grotta. Ne converrete che una testimonianza artistica sull’argomento non è cosa sgradita.

Poi sulla realizzazione di Jiseul (2012) si può discutere. Un budget abbastanza scarno ma comunque ben gestito (O Meul si è portato a casa il Gran Premio della Giuria al Sundance ’13) rende l’opera interessante sotto aspetti perlopiù formali. La confezione estetica e l’avvertibile ricerca visiva rivelano degli squarci di vera e inaspettata bellezza (così come è inaspettata un’iniziale vena comica che con il proseguire della vicenda si esaurisce), in particolare ho trovato ammirevole lo studio del gruppo di fuggiaschi all’interno della caverna in rapporto alla videocamera, evitate le grammatiche del campo/controcampo in più di un’occasione li vediamo schierati orizzontalmente nello spazio dello schermo come in un’Ultima Cena immersa nella pece, menù: patate (che sarebbe anche la traduzione del titolo). Il bianco e nero digitale è funzionale nella resa delle tonalità argentee e Meul O diciamo che non si risparmia, angolazioni e prospettive fanno tornare i conti e, in una occasione, brillare gli occhi: la fuga sulla collina che in sovrimpressione si fa donna.

A controbattere c’è una traccia narrativa che più schematica non si può dove alle vittime rispondono dei carnefici molto stereotipati a cui non sono state date soddisfacenti caratterizzazioni carismatiche. Ma soprattutto è la tendenza a scadere in una intensificazione drammatica ad abbassare il giudizio sull’opera, in talune situazioni si fa un uso di attrezzi superflui come i sempre insopportabili ralenti conditi da musiche pompose per spingere il pedale sull’empatia. Azioni del genere spostano l’ago su valori tangenti l’area mainstream in cui è più importante sbandierare che sussurrare, ed è strano perché Jiseul contiene sequenze che invece marciano piuttosto lontane dall’artificio (una, molto bella, intorno al fuoco con un movimento forse circolare forse laterale sulle varie persone), a O Meul però l’idea di accentuare piace assai e col finale ci va giù pesante avvalendosi di slow motion e ammennicoli vari. Senza la teatralizzazione degli aspetti emotivi e tragici Jiseul sarebbe potuto essere un titolo rispettabile, così rimane un oggetto un filo sopra la media per un cinema da sala, nulla di più.

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