Ad un film che si carica
l’onere di spalancare una finestra su un fatto storico di cui i più
non sapevano dell’esistenza ci si può rivolgere già dall’inizio
con una certa benevolenza, ed anche se, per ipotesi, si tratterà di
un film orrendo (senza esagerare) sarà possibile vedere il lato
positivo nella sua esistenza all’interno dello sconfinato e in
costante espansione universo cinematografico. Come i recenti casi altisonanti di Oppenheimer e di Panh,
anche il lavoro di O Meul, sebbene lontanissimo dai colleghi appena
citati poiché qui siamo nel campo della pura finzione, ha perlomeno
il merito di metterci a conoscenza su un atroce episodio che va
ulteriormente ad infangare una già molto inzaccherata storia
dell’umanità. Siamo nel 1948 e in un’isola della Corea del Sud
la polizia locale, fomentata dalla nazione che nel ‘900 ha fatto a
pezzi il mondo con la sua politica militare (USA, of corse), decide
di sterminare tutti gli abitanti dei villaggi lontani più di cinque
chilometri dalla costa, il sillogismo è: se vivono nell’entroterra
sono dei comunisti, per cui vanno uccisi. Di questo delirio à
la Pol Pot ci viene
proposto l’episodio riguardante un manipolo di contadini che per
sfuggire alle angherie degli aguzzini si rifugiò per un mese in una
grotta. Ne converrete che una testimonianza artistica sull’argomento
non è cosa sgradita.
Poi
sulla realizzazione di Jiseul
(2012) si può discutere. Un budget abbastanza scarno ma comunque ben
gestito (O Meul si è portato a casa il Gran Premio della Giuria al
Sundance ’13) rende l’opera interessante sotto aspetti perlopiù
formali. La confezione estetica e l’avvertibile ricerca visiva
rivelano degli squarci di vera e inaspettata bellezza (così come è
inaspettata un’iniziale vena comica che con il proseguire della
vicenda si esaurisce), in particolare ho trovato ammirevole lo studio
del gruppo di fuggiaschi all’interno della caverna in rapporto alla
videocamera, evitate le grammatiche del campo/controcampo in più di
un’occasione li vediamo schierati orizzontalmente nello spazio
dello schermo come in un’Ultima Cena immersa nella pece, menù:
patate (che sarebbe anche la traduzione del titolo). Il bianco e nero
digitale è funzionale nella resa delle tonalità argentee e Meul O
diciamo che non si risparmia, angolazioni e prospettive fanno tornare
i conti e, in una occasione, brillare gli occhi: la fuga sulla
collina che in sovrimpressione si fa donna.
A
controbattere c’è una traccia narrativa che più schematica non si
può dove alle vittime rispondono dei carnefici molto stereotipati a
cui non sono state date soddisfacenti caratterizzazioni carismatiche.
Ma soprattutto è la tendenza a scadere in una intensificazione
drammatica ad abbassare il giudizio sull’opera, in talune
situazioni si fa un uso di attrezzi superflui come i sempre
insopportabili ralenti conditi da musiche pompose per spingere il pedale
sull’empatia. Azioni del genere spostano l’ago su valori tangenti
l’area mainstream in cui è più importante sbandierare che
sussurrare, ed è strano perché Jiseul
contiene sequenze che invece marciano piuttosto lontane
dall’artificio (una, molto bella, intorno al fuoco con un movimento
forse circolare forse laterale sulle varie persone), a O Meul però
l’idea di accentuare piace assai e col finale ci va giù pesante
avvalendosi di slow motion e ammennicoli vari. Senza la
teatralizzazione degli aspetti emotivi e tragici Jiseul
sarebbe potuto essere un titolo rispettabile, così rimane un oggetto
un filo sopra la media per un cinema da sala, nulla di più.
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