venerdì 12 gennaio 2018

The Virgin Psychics

Che nel cinema di Sion Sono la sessualità sia un aspetto che fa capolino un numero cospicuo di volte è un dato agilmente stimabile, non tutti lo sanno ma in passato il regista aveva perfino proposto una propria declinazione del softcore con Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri (2000), film(etto) superfluo che però dettava già una linea ripresa poi tra mille altre deviazioni anche in futuro. Se parliamo di “sesso” dobbiamo comunque precisare che il punto di vista sononiano non è mai stato, come dire, adulto, le donne che popolano i suoi lavori sono molto spesso l’impersonificazione di un desiderio adolescenziale, sono femmine avvenenti bramate da uomini sbavanti, e sono, inoltre, la rappresentazione di un immaginario erotico prettamente nipponico dove l’età acerba (certificata dai succinti abitini scolareschi) stimola evidentemente il testosterone dei connazionali di Sono. Se in passato stralci di libido affioravano qua e là (ricordo di sicuro Love Exposure [2008] e Guilty of Romance [2010]), con Eiga: minna! Esupâ da yo! (2015) il focus su tale tema è forte come non mai, tuttavia va precisato subito che lo spazio per una lettura pseudo-sociale sul corpo muliebre e sulla sua condizione nella realtà giapponese è a mio modo di vedere assente, e se c’è (con susseguente non piena ricezione per noi occidentali) è una roba che comunque deve fronteggiare un circuito parossistico fatto di upskirt e reggiseni ad un passo dall’esplosione che non possono fornire chissà quale profondità concettuale. Per cui al pari del coetaneo Tag (2015), pur impegnandoci a rintracciare dei significati sotto la superficie, il tasso di disimpegno è a livelli elevatissimi tanto che la visione non può che ricondursi allo schietto intrattenimento.

Il progetto The Virgin Psychics, che rientra nell’annata più pazza dell’intera carriera di Sono, è tratto da un manga [1] che l’autore aveva già adattato al piccolo schermo con la serie Minna! Esupâ dayo! (2013) e con il film tv sempre del 2015 Minna! Esper Dayo!: Bangai hen Esper Miyako e iku, qui la dimensione “fumettosa” che si respira è effettivamente riscontrabile nelle quasi due ore di girato dove a contrapposizioni elementari buoni vs. cattivi si subordinano personaggi altrettanto elementari figli di una farsa che definire grottesca è un po’ troppo, il registro che infatti emerge alla resa dei conti è più frivolo e infantile che altro, gli accenti comici tra erezioni istantanee e maschere da Bagaglino non vanno tanto per il sottile, Sono cazzeggia, come sta ormai facendo dai tempi di Himizu (2011), e poco sembra importargli di tracciare un percorso registico che punti ad un miglioramento personale, l’impressione è che nell’irrefrenabile susseguirsi di lungometraggi alcuni standard, sia estetici che narrativi, stiano crollando davanti ai nostri occhi, e questa piega giocosa che diverte con la medesima facilità che ci si mette a dimenticare quanto visto, non valorizza nemmeno quelle piccole intuizioni ravvisabili anche in Eiga: minna! Esupâ da yo! come i dialoghi tra feti nei grembi materni ricreati poi in forma teatrale e la corrente sentimentale che viaggia parallela a quella lussuriosa (si fa per dire, tante chiacchiere e zero fatti) così ingenua ed esacerbata da risultare, grazie al paradosso, realmente credibile. Lo svago e l’immediatezza non sono i sentimenti che chi scrive vuole percepire con il cinema, il sorriso spettatoriale che si genera assistendo all’opera sotto esame è un feedback di cui Sono non dovrebbe andare granché fiero, a luci spente non si deposita nulla dell’inscenamento caricaturale delle pulsioni sessuali umane: ah ah i poteri sexy-ESP, ah ah le bambole gonfiabili, ah ah. Avanti il prossimo, grazie.
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[1] È ormai una prassi consolidata quella di affidarsi a testi di altri per il buon Sion, tra le produzioni recenti abbiamo anche Tokyo Tribe (2014) e Shinjuku Swan (2015).

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