Nell’anno precedente
all’incredibile esplosione produttiva che vedrà il parto di
ben sei film nel giro di 365 giorni (uno di essi sarà destinato alla tv),
meglio ancora del 2005 quando furono quattro, Sion Sono si
“accontenta” di girare soltanto Tokyo Tribe (2014),
un’altra, l’ennesima, follia del regista giapponese che,
correggetemi se sbaglio, affronta uno dei pochi, se non proprio
l’unico, genere che ancora non aveva trattato: il musical. Come è
intuibile però l’approccio non è esattamente
convenzionale per cui tale etichetta viene risucchiata nel vortice
massimalista di Sono che, è scontato dirlo, infila dentro due
ore di proiezione una bomba nipponica contenente una miriade di
riferimenti (non facili da cogliere vista l’ignoranza nei confronti
della cultura odierna in Giappone), di citazioni (mi sbaglierò,
ma il formidabile ragazzino che libera le donzelle prigioniere del
boss Buppa assomiglia fisicamente e nel gesto di grattarsi il naso
con l’indice ad L di Death Note, e anche il suo essere
ghiotto di mele riporta al fortunato manga di Ōba), di cinefilie
(dalle macro: i generi a cui si rifà: pinku eiga e chambara,
yakuza eiga e wuxia, alle micro: la stoccata verso Tarantino e i suoi
fan sul costume di Bruce Lee). Purtroppo si finisce con l’essere
ripetitivi, quello di Sono è ormai un cinema ampiamente
riconoscibile (anche solo dagli stacchi di scena) che punta dritto al
mix, non esistono compartimenti stagni per lui, tutto si può
fondere in una totalità orgiastica senza limiti, a parte
quelli dello spettatore: qui sta a noi decidere se accettare ancora
una volta questa investente molteplicità, forse con Tokyo
Tribe più di un qualcosa non fila in modo esemplare, ma lo
vedremo.
Prima di tutto, mi preme
sottolineare uno sfoggio di tecnica da parte di Sono che
probabilmente non ci aveva ancora offerto nel corso della sua
carriera, il film infatti è per buona parte un continuo
strutturarsi di piano sequenza in piano sequenza dove l’autore
gestisce una considerevole mole di attori sulla scena. È un
dato non da poco visto che la saturazione umana del quadro visivo
avrà costretto Sono alla creazione di uno storyboard molto
complesso, sicché una coordinazione di così tante
persone davanti alla mdp riprese in un flusso senza tagli gioca a suo
favore anche perché nel cinema contemporaneo è davvero
raro assistere a scene di massa. Un altro plauso è indirizzato
all’edificazione del set che è vero che riporta ad un’idea
di Tokyo, e quindi neon, colori sfavillanti, traffico ed esseri
alienati, ma che al contempo sa suggerire un certo tasso di finzione capace di farci accettare di buon grado il contesto fittizio, la
baracconata, l’artificiosità al servizio dell’estetica,
per fare ciò Sono si è servito di Yuji Hayashida, già
collaboratore di Miike e Ishii, e di un collettivo di studenti che lo
hanno aiutato a mettere in piedi una Tokyo gemella dal sapore
pop-apocalittico. È comunque l’aspetto musicale a prendersi
giustamente il palcoscenico e diciamo che Sono non ha fatto altro che
trasportare il suo eruttante modus operandi anche in questo
settore, e così il beat, lanciato da un’arzilla dj, ci
accompagna per l’intera durata dell’opera, piaccia o meno Tokyo
Tribe è questo: un lungo videoclip che puntando il
compasso su una faida a suon di barre e assalti all’arma bianca
traccia un cerchio ampio come è l’universo di Sono.
Però, cercando di
asciugare il film dalla sua peculiare natura rapperiana, originale e
divertente quanto si vuole, il nucleo di Tokyo Tribe è
una storia di lotte interne fra bande rionali che si esplicitano in una
continua battaglia tra i clan. Le scene di lotta, pressoché
onnipresenti, paiono una copia presa ed incollata dalla pellicola
appena precedente Why Don’t You Play in Hell? (2013) dove
nuovamente avevamo gangster fumettistici e torrenti di sangue, tutte
robe che comunque erano già presenti, sebbene in forma più
embrionale, in Love Exposure (2008). Quello che mi sento di
dire è che centoventi minuti di cazzotti e fontane
emoglobiniche deprezzano la veste innovante (almeno nell’ottica
sononiana) che il film presenta. Perché è chiaro che a
questo punto a Sono non interessa più fornire dei messaggi,
dei significati (il primo contro-esempio che mi viene è
Noriko’s Dinner Table, 2005),
quello che inscena non ha niente dietro se non il puro piacere,
appunto, di inscenare, e in
suddetta traiettoria non è affatto un caso che il finale sia
un banalotto annuncio di pacificazione con allegro coro di gruppo
conclusivo, d’altronde da vuote premesse non poteva che finire
così. Direi che la piega presa da Sono con Tokyo Tribe
non rientra nei gusti di chi scrive e presumo nemmeno nei vostri,
vedremo cosa ci riserverà il sestetto del 2015.
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