Oramai completamente
sdoganato nel mondo occidentale, Sion Sono ha aumentato a livelli
disumani la propria produzione. Solo che nel 2015, ad esempio, si
contano ben sei film (di cui uno per la tv) ed è per questo
che inevitabilmente non tutti i tasselli del lievitante mosaico
soddisferanno in toto il nostro palato, più che altro a furia
di tenere ritmi di questo tipo il circo di Sono si sta trasformando
in una fabbrica sforna-prodotti, e una fabbrica significa commercio,
e commercio vuol dire soldi, tanti, e tanti soldi equivalgono a poco
vero cinema. Sarà la scoperta dell’acqua calda ma ci sono
prove concrete: dei lavori pre-Why Don’t You Play in Hell?
(2013) Be Sure to Share (2009) e The Land of Hope
(2012) erano due film pessimi dove il puzzo dell’incasso si
diffondeva minuto dopo minuto, e lontani chilometri dall’irruente
torrenzialità del giapponese. Un tempo il sottoscritto si
esaltava come un bambino al cospetto di una pellicola di Sono (vedi
Himizu, 2011) e poco gliene calava se nella sua proliferante
filmografia qualche figlio fosse uscito un po’ così, adesso,
al contrario, data la notorietà che ha raggiunto, storco il
naso di fronte alla catena di montaggio messa su, mi pare
fisiologicamente impossibile stare dietro a così tanti
progetti, il rischio, che si tramuta in effettiva verità, è
di non riuscire a raggiungere uno standard qualitativo comune per
tutti.
Espulsi questi ovvi
pensieri, prosieguo nella banalità: ricorrendo ad un’abusata
litote mi sento di dire che Jigoku de naze warui non è
poi male. Si tratta di una buona brochure dove poter ritrovare tutto
l’orientamento autoriale di Sono, nell’ordine: è comunque
presente anche qua il ritratto di una famiglia atipica stravolta e
travolgente, certo non si mira alla sua disintegrazione come in
passato, ma che ci sia “qualcosa” di strano lo si capisce subito,
d’altronde il massacro ad opera della madre è la miccia che
accende la storia. Poi siamo di nuovo a confrontarci con un oggetto
che categorialmente è difficile catalogare, ritengo infatti che
l’inclassificabilità sia uno dei maggiori pregi di Sono
perché ogni volta dimostra, appunto, quanto le etichette servano a poco e che se si può parlare di libertà
allora, con lui, siamo sempre nel posto adeguato. Da non
sottovalutare, inoltre, il substrato autobiografico che, più o
meno apertamente, si ripresenta anche nei film precedenti (pare che
lo script in questione sia stato scritto molti anni prima, e allora
ci si pone una domanda: quante saranno le sceneggiature che il buon
Sion conserva nel cassetto?), ma che qui è proprio forte: a
chi non è venuta in mente la sovrapposizione tra il regista
Hirata e Sono stesso? Per chi non lo sapesse il Signore del Caos ha
iniziato la carriera girando in Super 8 o qualcosa di simile (cfr. il
big bang Love Song, 1984) proprio come la scapestrata banda
dei Fuck Bombers. Infine rinveniamo dei piccoli tic diventati
marchi di fabbrica: c’è un’altra Mitsuko dopo le omonime
in Strange Circus (2005), Cold Fish (2010) e Guilty of Romance (2011), un nome che a questo punto diventa l’epifania
muliebre per eccellenza, ci sono all’incirca i medesimi attori che
da anni lavorano con Sono creando perciò un recinto
autoreferenziale anche nel materiale umano, non mancano riprese
gemelle (nuovamente persone catturate frontalmente che
corrono/camminano per strada) e amori insensatamente folli, e, in
generale, una tendenza all’eccesso sentimentale che non è mai
eccessivo.
Ma l’elenco della
continuità artistica mi rendo conto che non ha un valore
particolarmente decisivo nell’esegesi di Jigoku de naze warui.
Perché per coloro i quali lo hanno visto, sanno che al suo
interno si dispiega una riflessione sul cinema portata, e
non poteva essere altrimenti, al parossismo. Se continuiamo a
guardare il passato Sono non è esattamente nuovo ad incursioni
nell’area meta, abbiamo avuto delle briciole con Keiko desu kedo
(1997) e con Into a Dream (2005), tuttavia il discorso in Why
Don’t You Play in Hell? ha un altro spessore, decisamente
fondante. Personalmente in taluni frangenti ho trovato un po’
telefonata la smaccata contrapposizione fra pellicola e digitale
didascalizzata dalle battutine dei protagonisti o dai siparietti
stonati con il vecchietto proiezionista, ad ogni modo è
innegabile che l’orgia sanguinolenta del prolungato finale
trasporti oltre l’estremo il ragionamento teoretico. Con il suo
stile Sono aggiunge al già numerosissimo dibattito realtà
vs. finzione una voce che dovrà e potrà essere
ricordata: il cinema, con il suo dio invocato da Hirata, si può
manifestare a noi umili fedeli in tutta la sua imponenza riuscendo a
mostrarci il possibile blitz del suo occhio nel tessuto del
cosiddetto reale, sostando e sguazzando nell’atto falsificante in
guerra con la concretezza della carneficina (a tal proposito bella
l’utopica standing ovation ai partecipanti incerottati del film nel
film), in una specie di loop perpetuo: l’ultimo “taglio” è
urlato dalla vera (?) equipe del film.
Finora, la recensione più intelligente e condivisibile che mi sia capitato di leggere a proposito di questo film, che pure appannò me. Dubito che sia più tempo di questo cinema, ormai...
RispondiEliminaDubito anche io. E tu lo sai meglio di tutti. Non ne sono ancora emancipato del tutto comunque, pochi giorni fa ho visto Tokyo Tribe e... insomma, se voglio vedere il circo vado al circo, non al cinema.
RispondiElimina