martedì 12 aprile 2016

Cemetery of Splendour

Una forte continuità lega gli esemplari che popolano la filmografia di Weerasethakul, vedere Rak ti Khon Kaen (2015) è vedere Tropical Malady (2004) o Syndromes and a Century (2006), il punto è che qui l’atto di vedere si risemantizza, ogni film del regista thai non è più soltanto fruizione poiché un cinema del genere si fa compenetrante, è organismo attivo che pigia arrugginiti interruttori celebrali, è manifestazione di alterità, dialogo con l’impossibile, cartina geografica di un mondo che semplicemente non conosciamo. Nessuna sviolinata: quello che accade in Cemetery of Splendour è… no, non ha senso cercare un rifugio nella comodità dei fatti annotati, Weerasethakul è uno dei pochi registi (e non si dice “è l’unico” perché si è sempre un po’ codardi) in grado di polverizzare i meccanismi appiattenti del cinema e soprattutto sa andare oltre, ma è un oltre vero, senza retorica alcuna: i suoi film ti aprono e nell’incontro con una realtà così altra accompagnata dalla stupenda constatazione che ci possono essere visioni sempre più ulteriori, se ne esce arricchiti. Vedere ha perciò un nuovo senso: è esperienza, l’extracorporeo che si incarna, la morte che appaia la vita, quanta sfuggevole grandezza dentro una baracca nei pressi di una foresta.

Meglio o peggio de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), continuazione o meno di Mekong Hotel (2012), Cemetery of Splendour è nuovamente una tavola rotonda di entità impalpabili, un forum dove Apichatpong persegue la propria idea di reale fuso nel sogno, le dicotomie si fanno unicum (pensiamo alla protagonista che trova vicinanza [ma non amore probabilmente] in una persona così diversa da lei come l’americano Richard), si scambiano (le divinità diventano ragazze qualunque, una ragazza qualunque diventa una dea capace di leggere il pensiero), e negli incessanti nonché vertiginosi cortocircuiti spicca la figura di Itt che mi pare possa incarnare e ovviamente eterizzare (passatemi il termine) il cinema di Weerasethakul, Itt sta al confine (come il soldato che è stato), galleggia tra la dimensione del sonno e quella della veglia, ed ha anche la capacità di reincarnarsi (sebbene non vi sia un decesso), di invadere il corpo della medium (come se fosse il nostro) e di permettere che il suo sguardo possa andare al di là del presente e sfondare il tempo, quindi, nella lunga e bellissima scena che si conclude con la catarsi della latente tensione sessuale tra la donna e il ragazzo, non più la giungla ma quello che c’era prima (non più gli scavi, di nuovo: quello che c’era prima o che ci sarà; chissà cosa…)

Così Weerasethakul tradotto da me e preso da qui:

rispetto ai miei lavori precedenti penso che la dimensione onirica in Cemetery of Splendour sia più personale. Qui, dal momento che penso di star lavorando meno a livello intellettuale e più su quello emotivo, sono molto interessato alle limitazioni del cinema, ai suoi codici e alle possibili sperimentazioni sulla forma. Per questo ho girato l’intero film nella mia città natale, sentivo che la città era cambiata così velocemente. Con l’ascesa del potere militare nel Paese, sento che le persone sono confuse su come sarà il futuro e hanno bisogno di scappare. Un modo per fuggire è quello di sognare, di dormire e trovare una realtà diversa.

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