Si finirà con
l’essere monotoni nell’asserire che la cinematografia rumena di
oggi esprime in ogni suo esemplare un disagio sociale che ha radici
ben piantate nella storia del paese. Così, anche da una
manifestazione minore come può essere questo Interior.
Scara de bloc (2007), è possibile carpire quanto e perché
le cose non vanno all’interno della nazione, e di come in fondo ciò
che viene raccontato qui possa essere traslato in molti altri
pianerottoli del mondo. Quello di Ciprian Alexandrescu è un
lavoro di stampo teatrale, una black comedy condominiale che sotto lo
strato di leggerezza non disdegna delle frecciatine adibite a
punzecchiare la coscienza spettatoriale: innanzitutto c’è di
che insospettirsi sul fatto che un giorno qualunque un cadavere possa
comparire sul ballatoio del proprio palazzo (morto, o presunto tale,
fuori campo per tutta la durata del corto), in seconda battuta emerge
il cinismo con cui gli abitanti dello stabile (almeno due o tre di
loro già visti all’opera in altri film rumeni) si rapportano
con la funerea scoperta; in realtà non sono cinici né indifferenti alla
morte, bensì non ne vengono toccati (e lo si intende dalle
parole del piccolo videoamatore che ammette candidamente di non avere
nessuna paura di una salma), è una routine, una “normalità”,
tanto che una volta smentita la supposta identità del corpo
esanime i condomini si ritirano negli appartamenti raccomandandosi di
non usare a sbafo il parcheggio privato.
L’inezia costitutiva
del film non permette chissà quali rimandi allegorici, in
fondo si tratta soltanto di un gruppetto di persone protagoniste di
un breve siparietto che di certo non si ricorderà troppo a
lungo, però Alexandrescu nel suo piccolo è riuscito a
rimanere nella scia del cinema rumeno che proprio in quell’anno
dirompeva definitivamente sugli schermi più prestigiosi con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, e lo ha fatto rivelandosi per quello
che è: decorosa piè di pagina di un movimento che
continua a sfornare prodotti in grado di aggraziarsi le giurie più
prestigiose, Il caso Kerenes (2013) è l’ultimo in
ordine cronologico degli esempi da ricordare.
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