Documentario d’inchiesta
– se così può essere definito – orchestrato da un
uomo a cui deve puzzare la vita: il suo nome è Mads Brügger,
viene dalla Danimarca, campa facendo il giornalista senza farsi
mancare incursioni nel mondo della tv e del cinema (sia The Red
Chapel [2009] che The Ambassador [2011] hanno racimolato
premi e nomination qui e là), e per motivi che ci restano
oscuri un bel giorno ha deciso di mettere in piedi un reportage sulla
compravendita di diamanti in un Paese come la Repubblica
Centrafricana che dalla fine di Bokassa in poi è solo uno
staterello nel bel mezzo del continente africano. Così,
ventuno anni dopo Echi da un regno oscuro (1990), l’occhio
di un altro europeo penetra in questa terra ricca di risorse
(diamanti e petrolio), spolpata dalle potenze occidentali e non (Cina
e Francia) e ammorbata dalla tipica povertà che ci si immagina
in un posto del genere, ma Brügger non ha le intenzioni di Herzog, e il film che imbastisce ha un forte retaggio televisivo dove
spadroneggiano telecamere nascoste, telefonate registrate e una
narrazione esterna, il che, per fare un accostamento non proprio dei
migliori, rende The Ambassador un’opera vicina ad un
servizio delle Iene o a qualche trasmissione simile. Ovviamente
Brügger lustra la confezione rendendola appetibile e
commestibile: (de)scrive una storia di intrighi e ingorghi
diplomatici piena (anche in abbondanza) di sotterfugi, mazzette,
loschi politici, faccendieri, omicidi, e monta il tutto istituendo
una sequenzialità da spy-story con tanto di suspense
conclusiva.
L’idea che sottende il
film non è malvagia e a dare un contributo importante ci pensa
lo stesso Brügger che sembra nato per fare l’impostore
(tecnicamente la copertura che adotta per entrare nel giro illegale
dei diamanti è l’apertura di una fabbrica di fiammiferi), e
l’atteggiamento, il modo di porsi, l’abbigliamento, lo rendono
piuttosto credibile, cioè: si crede senza fatica al
personaggio che ha cucito su di sé. In fatto di credibilità
sorgono invece dei dubbi riguardanti l’attendibilità dei
meccanismi concreti che portano Brügger a testimoniare i vari
step del percorso verso la meta a cui tende; l’ombra dell’artificio
si allunga sulle scene dove Monsieur Gilbert si fa tranquillamente
riprendere mentre mercanteggia con l’attore-regista-diplomatico,
vero che potrebbe trattarsi di una hidden cam ma la pulizia
dell’immagine e del sonoro fa pensare il contrario, inoltre c’è
da sottolineare come i ganci portoghesi di Brügger che hanno
fornito i supporti logistici ed economici per il “viaggio d’affari”
avrebbero potuto tranquillamente fare una ricerca su Internet del
proprio assistito e scoprire chi davvero era e che cosa davvero
faceva. Non so, nel progetto complessivo ci sono delle bugne su cui
non è semplicissimo soprassedere, anche se comunque ogni
possibile obiezione si riduce all’urgente interrogativo di fondo:
quanto può interessare un film che racconta il degrado
dell’establishment centrafricano e dell’attività
predatoria nella suddetta nazione attuata da sciacalli che badano
solo al tornaconto monetario? Dite voi, a mio avviso non c’è
un’impellente asportazione di materiale tricotico in merito.
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