Kelly Reichardt è
sempre lì a raccontarci di un’altra America, e non è
soltanto una questione di temi o di modi, prima di ogni cosa è
la geografia a segnare uno scarto decisivo con l’idea stereotipata
che il cinema americano ha esportato oltre l’Atlantico, un po’
come i racconti cult di Breece D’J Pancake, la visione della
Reichardt è l’unico (per quanto possa ricordarmi) caso di
cinema narrativo statunitense radicato in un contesto rurale (è
sempre l’Oregon) che ci restituisce una nazione finalmente più
umana; di conseguenza l’intera filmografia è percorsa da
vibrazioni umaniste interrate in un solco molto europeo, minimale,
scarno: Old Joy, opera del 2006 la cui sinossi poteva ridursi
a tre o quattro parole, è tuttora un manifesto di intimità
applicata alla settima arte, quando il non esplicitare praticamente
niente riesce comunque a fecondare l’interiorità.
Una premessa così
ovvia non poteva che servire a paragonare l’attuale rovescio della
medaglia: mi è parso che Night Moves (2013) abbia una
profondità inferiore ai lavori che l’hanno preceduto. Ora,
con “profondità” si dice tutto e niente, ne sono
consapevole, ma ciò a cui tento di rifarmi non è tanto
uno spessore concettuale, perché se così fosse il film
sotto esame è quello che potenzialmente nella carriera di
Kelly Reichardt presenta un’organicità superiore alle altre
pellicole, no, quello che non pare così profondo è
quella traiettoria sensoriale che faceva tintinnare le nostre corde.
Il colpevole principale di questo mancato magnetismo è la
tendenza della regista ad affidarsi mai come prima di Night Moves
al Racconto, ad una successione calcolata di step che sedano ogni
possibile moto astraente. È tutto estremamente pragmatico:
ancor prima della messa in scena: c’è il trattare faccende
come ambientalismo ed ecologia, la concretezza, perciò, di una
politica e al richiamarsi ad essa, quindi materiale odierno,
pressoché cronachistico, niente a che fare con l’errabondare
di Meek’s Cutoff (2010) [1]. Poi la presenza di una
relativa esplorazione (anche umana) si fa dato di fatto: apprendiamo
il divario tra idealismo e l’inefficiente applicazione di esso (il
capo della fattoria dirà che l’aver fatto saltare in aria
soltanto una diga è stata un’azione pressoché
inutile), al pari dei drammatici esiti causati dal dilettantismo dei
tre personaggi, e proprio qui si consuma una tragedia che suona a mio
modo di vedere come un’intensificazione un po’ stonata, mi
riferisco all’omicidio di Dena dal carattere estemporaneo, troppo,
poche le premesse che potessero indurre Josh ad un atto simile, una
stecca figlia diretta dell’impianto espositivo che, vista la sua
natura, necessita per lo sguardo spettatoriale di una coerenza
razionale in tutta la durata del film.
Ma queste conclusioni
rimangono insoddisfacenti, si entrerà anche nei meandri del de
gustibus tuttavia di fronte ad un bivio che mette da una parte un
cinema ordinato e fondato su codici abbastanza abituali con annesso
svolgimento del temino, e dall’altra ipoteticamente un cinema
asciugato dei molti artifici banalizzanti che lavora molto bene
nell’area percettiva, io non posso che imboccare la seconda strada,
quella che di certo non porta a Night Moves.
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[1] Non c’entra nulla
ma lo dico ugualmente: se esiste un film che può essere
accostato a Jauja (2014) quello
è proprio Meek’s Cutoff, certo inferiore
e meno radicalizzato, eppure edificato su presupposti non troppo
dissimili.
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