Oceano Indiano: su una
nave mercantile danese irrompono i pirati somali.
R (2010) ha
rappresentato una discreta codifica del reale attraverso un cinema narrativo, e grazie ad un tale approccio il film ha potuto esaltarsi per mezzo delle sue soffocanti spirali drammatiche, vere e proprie trasposizioni
infernali all’interno di un carcere in Danimarca. Due anni dopo
Tobias Lindholm, uno che solitamente sceneggia per Vinterberg, ci
riprova senza il collega Michael Noer e dà alla luce
Kapringen, opera che si ispira a fatti realmente accaduti e
che cerca di assumere i medesimi connotati del film precedente; anche
qui Lindholm abbonda di camera a mano per buona parte del girato
riprendendo i suoi attori (due di essi reduci proprio da R)
nelle anguste stanzette della nave trasmettendo un senso di
claustrofobia e un puzzo di sudore che se proprio non ti si
appiccicano addosso perlomeno sono capaci di sfiorare anche gli animi
meno sensibili. Ciò che essenzialmente cambia è la
struttura della storia che in A Hijacking trova forma in un
pingpong tra l’imbarcazione dirottata dai pirati e tra gli uffici della
compagnia di navigazione dove il CEO aiutato dai suoi collaboratori
tenta di negoziare via telefono con i banditi.
Se sul cargo c’è
una certa fibrillazione implementata dal metodo di Lindholm, in
Europa, all’interno della sede, la vicenda dell’amministratore
delegato all’affannosa ricerca di denaro per soddisfare le
richieste piratesche non ha la medesima forza di quella che
riguarda il cuoco nel cuore dell’oceano. Le porzioni da
thriller diplomatico mal si coniugano con i segmenti sulla barca,
chiaro che Lindholm si è volutamente adoperato nel far
risaltare il più possibile la divergenza tra i due mondi
(anche cromatica: neon vs. penombra), però visto nell’insieme
il continuo botta & risposta non riesce a celare delle debolezze
che si riconducono a diversi ordini: tipo quello del “sano”
coinvolgimento (l’interesse scema nell’osservare gli ostacoli che
si presentano durante la trattativa fra buoni e cattivi), quello
della tensione (troppa disparità fra i somali armati di fucile
e gli uomini in giacca e cravatta dall’altra parte del globo) e
quello della descrizione (mi riferisco soprattutto alla scrittura del
personaggio principale ammantata di sentimentalismo [la faccenda
della moglie e della figlia] e alla non-scrittura di tutti gli altri
che sono davvero, troppo, esili).
L’accenno al fatto che
i rapitori siano nella stessa condizione dei rapiti è,
appunto, solo un accenno che scaturisce da un breve dialogo tra
Mikkel e Omar e che non viene approfondito più di tanto,
peccato perché uno scavo in questa direzione avrebbe potuto
dare al film un attestato di ricerca oltre al compitino facile
facile. Bruttino anche il finale a mio avviso, l’inserimento
(forzato) di un colpo di scena del genere produce l’effetto
contrario: l’impennata drammatica risulta artificiosa (tutto il
contrario di quanto succedeva in R), e per un film che vorrebbe
masticare il reale è inamissibile concedersi uno scivolone di tal
fatta.
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