A coloro i quali non
hanno visto nient’altro di Ruben Östlund che non sia Forza
maggiore (2014), e ciò è plausibile dato che questo
è l’unico suo film giunto nel Belpaese, dico subito che il
regista svedese ha fatto di meglio, quel meglio è Play
(2011). Perché il cinema di Östlund, forte del retaggio
stilistico del connazionale Andersson, è improntato
all’implosione della cosiddetta classe media attraverso un taglio
sardonico e tra virgolette spietato. Un po’ come Seidl, anche lui
ha sempre utilizzato i canoni dell’ironia contaminata per
parametrare le miserie dell’uomo odierno posto nell’abbiente
società, compassione non ce n’è mai stata, vetriolo,
al contrario, in abbondanza. Però Turist (titolo
originale) è due o tre passi indietro al suo più
recente predecessore, senza andare a riprendere i lavori ancora
precedenti perché piuttosto acerbi (ad esclusione
dell’interessante corto Incident by a Bank, 2009), è
Play a svettare per solidità tramica ed annessa
coniugazione espositiva (uno stile nell’impasse, statico,
frontale) con bersagliamento riuscito dei moderni drammi
adolescenziali. Al confronto Forza maggiore perde molto di
quel rigore estetico per instradarsi di più nella consuetudine
visiva (è mica per questo che si è guadagnato la
distribuzione italica?), ed anche sul piano tematico va incontro ad
una debolezza non da poco; mi è parso, in fondo, che il
progressivo inaridimento della coppia non abbia una morsa così
potente, anzi parlare di morsa è troppo, si assoda perlopiù
la disamina della distruzione sentimentale ma senza accenti
memorabili. Tuttavia nel discorso di
Östlund potrebbe esserci spazio per un ulteriore
approfondimento. Potrebbe eh, perché il rischio di
sovrainterpretare è concreto.
Allora, una volta
archiviate le questioni maggiormente evidenti, ovvero eccoci in un
luogo abbacinante per il suo candore immacolato eppure sotto
l’imbiancatura emerge un sito sepolcrale, ovvero la valanga è
un evento inaspettato che fortunatamente non fa riportare danni
fisici eppure le conseguenze risultano comunque gravissime, e una
volta annotate le inquietudini coniugali che affiorano nell’isteria
vacanziera, forse non rimane esclusivamente il disgregamento
relazionale. Ripeto: forse, analizzando gli step del racconto, si
ravvisa un ampliamento della figurazione che va oltre la crisi di
Ebba e Tomas per andare a saettare l’Uomo Benestante di oggi:
diciamo borghese? Borghese, presumibilmente con un buon lavoro,
prestante, culturalmente preparato, un identikit che si adagia ad hoc
sul padre il quale a causa di un fatto apparentemente superfluo vede
la propria esistenza deflagrare in brandelli squadernando
l’incapacità di saper “dirigere” una famiglia. Tutte le
figure maschili del film rappresentano l’istanza del fallimento e
la preoccupante incapacità di governare il presente, ad
esempio abbiamo il coniuge di un’ospite della struttura che in
accordo con la compagna ha una condotta sessuale libertina, ed anche
l’amico barbuto, già separato con due figli in Norvegia, è
lì in vacanza con una ragazzina parecchio più giovane
che, tra l’altro, gli soffia addosso il dubbio di una possibile
irresponsabilità al cospetto di un’eventuale valanga. E nel
finale, anticipato da un falso pre-finale che ricostruisce in maniera
fittizia il puzzle consanguineo, è nuovamente un uomo coetaneo
di quelli che abbiamo visto durante la proiezione ad incagliarsi col
pullman nei tornanti di una tortuosa strada di montagna.
Difficile capire se negli
intenti di Östlund ci sia davvero l’additamento verso quei
soggetti che attualmente dovrebbero guidare la società,
o se sia soltanto lungimiranza personale, se volete attenervi alle
certezze qui di sicuro si vagliano i vuoti di una coppia come
potremmo essere noi, l’ardore cinefilo sonnecchia, un possibile
sussulto, ammessa la legittimità, è dato
dall’estensione esegetica di cui sopra.
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