Non ci sono dubbi a
riguardo: Play (2011) è il miglior Ruben
Östlund visto finora.
Abbandonata
la coralità e la conseguente frammentarietà che
costituivano Involuntary (2008), il regista nato a
Styrsö, isoletta al largo della costa occidentale della Svezia,
mette in piedi un film dalle radici solide (il bullismo giovanile
come punto di partenza) che si sviluppano in convincenti
ramificazioni, ulteriori tasselli sociali, politici, morali, che
elevano l’opera stessa, la sfaccettano con cattiveria, sarcasmo,
attualità (Östlund
ha preso spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto), con
realismo, perché lo svedese, ormai virtuoso della camera
fissa, prosegue il suo percorso di distaccamento, visione grottesca,
testimonianza esterna, insomma ciò che più sembra
calzare il suo stile, uno stile non esattamente seminale ma che negli
anni ha efficacemente personalizzato.
Sono
tanti gli spunti di riflessione che la pellicola proposta a Cannes
offre, i temi si presentano urgenti finanche scomodi: c’è il
leit-motiv della prepotenza sui più deboli che si ripercuote
costantemente durante la proiezione attraverso avvenimenti che
lasciano persistentemente l’amaro in bocca; va notato che i cinque
teppistelli a fronte di un’indolente sfacciataggine subiscono a
loro volta l’aggressione di alcuni poco di buono, certo ciò
accade per colpe tutte riconducibili al comportamento che tengono, ma si
intende di come il quadro urbano in cui vivono è fatto di
quelle cose, o si raggira l’altro o se ne subisce la reazione. Poi
c’è ovviamente l’aspetto dell’integrazione messo
splendidamente in evidenza grazie alla contrapposizione, soprattutto
estetica, morfologica, tra i bambini autoctoni e quelli di origine
extracomunitaria, solo che l’impatto visivo colpisce: il
mini-plotone di bulli è una macchia nera indistinta che
colpisce senza patire alcunché, mentre le “vittime”, così
innocenti e spaesate, si pongono agli antipodi, ciò è
chiaramente dovuto all’estrazione sociale delle due fazioni, e
questo è un sotto-argomento della tematica integrazione: Play
evidenzia l’impossibilità, non solo di un paese, ma forse di
anche di un continente (pensiamo alle Banlieue), di far convivere a
stretto contatto ceti non equipollenti all’interno di una comunità,
ed anche quando sembra che il divario possa essere ridotto (Sebastian
e l’altro ragazzetto che si staccano dal gruppo) la legge del
branco impone di non mischiarsi con gli agnellini.
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