Il pizzichio di una chitarra ci introduce nell’India che fa rima con miseria (ma quella vera!) dove un funzionario di una ONG gira in lungo e in largo i paesetti periferici distribuendo volantini in cui si dice che: tutti i bambini affetti dal labbro leporino possono avere l’opportunità di essere visitati, operati e ricoverati senza che la famiglia sia obbligata a sborsare una Rupia, e ciò, giusto per rassicurare i più diffidenti, può essere così grazie alle oblazioni.
Megan Mylan, documentarista americana, non interviene sulla realtà: lei è lì, e cattura quello che accade, al massimo screma e successivamente monta per snellire i minuti (pochi: 35-36); i contenuti di contro non hanno la necessità di filtraggi vari perché la storia di Pinki, al pari di quella di molti altri suoi coetanei, riempie abbastanza agevolmente la portata della visione. E tale fruizione si muove grazie al quadro sociale che il film illustra, ne risulta che l’interesse si indirizza verso questo angolo di assoluta povertà che ha molti aspetti rammaricanti. Non è solo l’indigenza ad emergere, tra l’altro possibile causa del labbro leporino nelle vesti di una nutrizione insufficiente, ma anche e in particolare tutte le carenze costituenti gli anelli di una catena che imprigiona i bambini nel livello più basso della piramide sociale; i principi di causa ed effetto si susseguono: con quella malformazione alla bocca nessuno dei piccoli protagonisti vuole andare a scuola per paura di essere preso in giro, oppure, quando le bimbe cresceranno, nessuna donna troverà uno sposo convinto di prenderla in dote, e Deepa Mehta ci ha mostrato con Water (2005) come era drammatica (qualcosa mi dice che ad oggi non molto sia mutato) la condizione delle donne sole in India.
Vincitore di un Oscar, Smile Pinki (2008) non smentisce le congetture ex ante la proiezione, difatti che il documentario si incentrasse sui bisognosi e che tali bisognosi fossero nullatenenti (alcuni non sanno come mandare il figlio verso l’ospedale) erano questioni che si potevano intendere, al contempo i ritagli che offre non hanno niente di plastificato (essendoci l’Academy di mezzo…) e mostrano un’umanità altrui che comporta dispiacere, e non poco perché vedere un bambino che, subito dopo aver risposto “no” alla domanda “ti sei mai guardato allo specchio?”, si mette a piangere dal nulla, rende consapevoli che il cinema ha una forza capace di andare oltre l’immagine, una specie di laccio che lega invisibilmente lo spettatore a ciò che vede, e quando quel bambino, poco dopo, sorriderà, noi sorrideremo con lui.
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