mercoledì 29 novembre 2017

A Febre do Rato

Successivo ma inferiore di molto a Bog of Beasts (2006), A Febre do Rato (2011) si occupa comunque di quel Brasile molto vicino al fondo della scala sociale con un approccio di pesante finzionalizzazione. Nonostante Cláudio Assis voglia mettere in piedi una sorta di rivoluzione proletaria, non vi è granché di denuncia qui dentro né un’auspicabile morsa sul reale, al contrario ci si adagia sulle frequenze del poeta di strada Zizo che gigioneggia dall’inizio alla fine restituendoci dunque una forma piuttosto artefatta costituita da reiterati plongée perpendicolari al suolo. Nulla di male, è che annotata un’estetica accettabile e accertata l’assenza di un cinema davvero interrogante, di questo film ambientato a Recife (il titolo sarebbe un’esclamazione del luogo) è automatico domandarsi dove voglia dirigersi. Chi scrive risponde che la rotta se impostata verso lo spettatore deve essere stata dimenticata lungo il tragitto, ho chili di dubbi sul banale interesse che la vicenda tutta sia in grado di suscitare, alla base vi è la non-profondità del film che si concentra sulle vicissitudini di un manipolo di scapestrati un po’ bohémien capeggiati dal poeta/imbonitore Zizo [1] senza che venga anche solo citata la controparte, ovvero quel sistema contro cui l’”artista” si scaglia (nel frettoloso finale osserviamo la marcia di una parata militare, è l’unico momento di manifestazione dell’antitesi), quello che si crea è allora uno sterile monologo inframezzato da orazioni pubbliche, festini e scopate.

Non essendoci una sostanziale azione politica che rimane dunque in un campo aleatorio, Assis preferisce inserire la retro illustrando una piega sentimentale che lentamente prende il sopravvento sull’opera. Conosciamo Eneida e il film si prostra pericolosamente a quegli schemi sentimentali che strangolano il cinema, per fortuna non vi è un’aderenza completa alle strutture appiattenti sopraccitate ma va da sé che tale finestra non si può certo considerare un tonificante per la visione, abbiamo i già visti incontri e scontri, i rifiuti e gli abbracci tra Zizo ed Eneida, perlomeno viene evitata l’ipotetica catarsi erotica poiché il finale, un pelo meglio del resto, punta più ad un imbrunimento della storia che ad un happy end. In sintesi A Febre do Rato mi è sembrato un film poco stimolante, inerte e concettualmente esiguo, non è di certo questo il cinema che smuove.
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[1] È solo l’ambientazione sudamericana perché sotto c’è dell’altro, ma Zizo e il suo fermento letterario unito a quello sessuale mi ha ricordato le narrazioni (anche autobiografiche) che Roberto Bolaño ha disseminato in tutti i suoi lavori.

lunedì 27 novembre 2017

Shinjuku Swan

Stando al 2015 in casa Sion Sono pare che le idee inizino a scarseggiare paurosamente, il regista giapponese nel giro di due anni ha firmato tre film pressoché identici alla cui base c’è sempre stato un substrato gangsteristico, quello che superficialmente cambiava era il filtro attraverso il quale ci è pervenuta la suddetta rappresentazione di faide fra bande rivali, una volta è andata benino poiché Sono nel calderone ci ha buttato dentro parecchia roba frizzantina (Why Don’t You Play in Hell?, 2013), poi siamo calati con un’opera dall’impostazione musicale che dopo dieci minuti esauriva la voglia di proseguire (Tokyo Tribe, 2014), e adesso si giunge a Shinjuku suwan (2015) che francamente è un titolo indifendibile, con ogni probabilità uno dei peggiori di Sono, il che è un problema poiché quest’ultima frase si sta affacciando un po’ troppo spesso alla fine delle visioni sononiane. Però è così: il film sotto esame, tratto da un manga inedito in Italia, raccoglie il peggio delle due pellicole a lui precedenti evitando qualsiasi azione in grado di distinguersi un minino dalla pletora di Yakuza-movie che la realtà nipponica offre, e all’assenza di guizzi rimarchevoli si unisce un aspetto ancora più preoccupante: Shinjuku Swan non sembra nemmeno più un film di Sono, tale amara constatazione è un triste dato di fatto emergente da una proiezione che pur eccedendo in sangue e violenza non possiede nemmeno un millesimo della brutalità di un Cold Fish (2012) a caso.

La mancanza di quel tipico agire esuberante di Sono che uccideva la logica e rendeva accettabile ogni im-possibile passaggio delle sue storie, in Shinjuku Swan fa sì che al contrario si aggrottino le sopracciglia fin dai primissimi minuti assistendo ad un reclutamento “lavorativo” che potrebbe risiedere al massimo sulle pagine di Topolino, ed è proprio il concentrarci sulla trama che non va bene, tutta la diatriba fra le due fazioni di delinquenti è di una pallosità ammorbante perché davvero inconcludente e frivola in quanto non porta a nulla se non a delle scazzottate inguardabili (l’unico momento leggermente più cattivo è quello sulla pista da bowling). Se un tempo Sono riusciva a tratteggiare delle persone per mezzo del suo registro eccessivo, adesso sullo schermo ci sono dei personaggini che recitano in modo fastidioso e schematizzato (se prendiamo tutti e tre i film sopramenzionati i malavitosi che li popolano sono spiaccicati gli uni agli altri), e dire che poteva esserci del potenziale umano visto che ci si occupa di prostituzione, ma le donne in Shinjuku Swan sono mere pedine bidimensionali in una narrazione che si incaponisce nelle fiacche scaramucce per la spartizione del territorio o in faccende soporifere di droga e affini. Debolissimi inoltre i tentativi di innervare il racconto principale con due eccedenti sottosezioni, passi il collegamento col passato che riguarda Tatsuhiko ed il villain, la parentesi sentimental-fiabesca invece non funziona affatto.

Il Sono che più si preferisce nel campo dei film a tema mafioso resta l’imperfetto Bad Film (2012), sgraziato e lungo quanto si vuole ma dotato di un’energia che Shinjuku Swan si sogna, e tanto per essere stucchevoli, se nel commento di Tokyo Tribe mi stupivo della super prolificità del regista e del suo sestetto nel 2015, ecco che i risultati di una iper-produttività del genere vengono impietosamente a galla, e ovviamente quando si prende una brutta china non è facile ritornare sulla retta via, per la serie le brutte notizie non vengono mai da sole, ecco l’aggravante: Shinjuku Swan II (2017).

venerdì 24 novembre 2017

Milch

Giunto a Igor Kovalyov leggendo un’intervista (link) agli autori di Oh Willy... (2012) che lo citavano come fonte di ispirazione per il loro lavoro, mi sono subito fiondato a scatola chiusa sul primo corto che ho potuto recuperare: Milch (2005), e devo dire che alla fine è risultato difficile tracciare un’idea precisa di quanto visto. È sicuramente un oggetto molto strano orbitante intorno alla figura di una donna che consegna il latte a domicilio e di un padre nerboruto invaghito della suddetta, all’interno del quadro famigliare che comprende anche la moglie e una coppia di anziani (forse i nonni, forse il nonno più la badante), Kovalyov piazza un personaggio parecchio ambiguo come il figlioletto che pare un nodo cruciale della non-storia. Dico “non” perché su un aspetto credo si possa concordare: l’animatore nato a Kiev è disinteressato ad una logicità narrativa poiché il corto procede più per situazioni suggestionanti che mirano a stimolare tematiche senza che avvenga la loro esplicitazione. Ne consegue che una questione rilevante è lo stato fibrillante del bambino forse in balia di emergenti pulsioni sessuali, nonché, procedendo per ipotesi, una sorta di identificazione tra padre e figlio con comune denominatore l’attrazione verso la ragazza del latte. Teorie inconfutabili e che comunque nessuno avrà voglia di confutare.

Intrigante è invece la resa estetica che ci propone uno studio artistico dove i corpi umani, goffi e inespressivi, sembrano usciti dal pennello di un Botero sotto effetto di stupefacenti. L’allestimento bidimensionale non depotenzia l’atmosfera greve che il regista voleva imprimere, e c’è da ammettere infatti che la forma sa reggere da sola il film. Sebbene non via siano particolari picchi, il senso occludente, umido e lievemente perverso di Milch lo rendono un titolo più forte sul piano seduttivo che su quello comprensivo, e a me va bene così. Se il nome di Igor Kovalyov vi suona completamente sconosciuto, sappiate invece che quasi per certo avete già visto della roba firmata da lui, parliamo infatti dell’autore di Rugrats - Il film (1998) e di alcuni episodi della serie tv.

lunedì 20 novembre 2017

Perché.

Esattamente dieci anni fa nasceva questo blog. Volevo pubblicare un post più autocelebrativo ma non ci sono riuscito. A volte va così. Se mi volto verso quel lontano 20 novembre 2007 rimango un po’ confuso, è come se avessi la contrastante sensazione che oggi molte cose sono cambiate anche se in fondo non è realmente cambiato niente, d’altronde io sono sempre qua a scrivere con lo stesso computer di allora, un obsoleto Compaq Presario che ha visto passare nei suoi circuiti i peggiori virus in circolazione ma che comunque, non so come, è ancora vivo ed è consolante che la lucina verde proveniente dal case ha rischiarato, e continua a farlo tutt’ora, la mia piccola stanza. Solo lo sfondo del desktop è mutato qualche volta a causa delle disperate formattazioni dovute a chissà quale robaccia infettante, adesso ho la foto di un paesaggio acquatico, non si capisce se sia un lago o il mare, si vede sulla sinistra un promontorio che finisce nell’acqua mentre a destra il sole tramonta in un orizzonte gialloarancione, non so dove io abbia pescato questa immagine dalla risoluzione così bassa, si notano dei pixel e c’è una specie di nebbia dovuta alla scadente tessitura estetica, però mi piacerebbe mostrarvela perché la trovo molto bella e anche molto malinconica. Chi è cambiato, almeno in certi aspetti, sono io e le persone che durante questi 120 mesi hanno orbitato intorno alla mia vita così come io ho orbitato intorno alla loro, c’è chi, indirettamente, è entrato tramite me in questo spazio virtuale per poi uscirne lasciando dei residui che probabilmente non se ne andranno mai. È triste pensare al passato ma sono dell’idea che possiamo tirarci su considerandoci tanti piccoli satelliti che passano l’esistenza a tracciare complicati cerchi, una volta giunti alla fine non si può che ricominciare da capo.

Ho scritto tanto, tantissimo, ma non me ne faccio di certo un vanto, e ho visto/letto/ascoltato cose meravigliose che mi hanno formato interiormente. Una volta una grande persona mi disse che aveva letto un libro così bello che gli veniva difficile, dopo, rapportarsi con l’umanità che stava intorno a lui. Sarà banale dirlo ma spesso tutto sembra così buio: ti infili alla sera in un letto-sarcofago, fai sogni dolorosi, ti alzi, inzuppi quei due o tre biscotti nel latte, ti lavi le ascelle e i denti per mantenere un decoro, ti vesti ed esci ad affrontare il mondo che una volta era l’università e che poi si è trasformato nell’estenuante ricerca di un lavoro e infine in una sottospecie di lavoro, poco è cambiato comunque: sei sempre stato tu e gli altri. Con quante persone sei riuscito a stabilire una connessione profonda, intima e totalizzante? Amicizia e amore, quale è il loro peso nell’economia della tua giornata? Della tua settimana? Dei mesi, degli anni, di una vita intera? La prima immagine che si profila è questa: ci sono io che vado a zonzo per la mia città in un tardo pomeriggio di inverno, indosso un pesante montgomery blu e ho la faccia ficcata fino al naso nel bavero della giacca, non fa troppo freddo e sono tempestato dai pensieri: quando mi realizzerò? Quando avrò un posto fisso? Chi mi accetterà per quello che sono? Riuscirò a comprarmi una casa prima o poi? Avrò dei figli? Quanto è patetico farsi ’ste domande? Quella tipa scoperebbe con me? Arrivo in stanza e guardo un film, provo a scriverci qualcosa sopra, con grande fatica metto il punto finale e realizzo che quando scrivo vorrei essere da tutt’altra parte e quando sono da tutt’altra parte vorrei essere lì a scrivere.

È difficile nascondere quell’impressione di solitudine che ci attornia, e mi piace molto scoprire quali antidoti i miei simili utilizzano per combattere questa guerra eterna, io, ventenne senza arte né parte, aprii un blog, il motivo, andando a fondo, era solo questo: mi sentivo solo. E adesso come mi sento? … dovrei porre questa domanda a mio padre, ma non lo faccio mai. È invecchiato molto ed è pieno di brutti acciacchi. I nostri genitori sono l’impietosa misura del tempo che passa. Il primo ricordo che possiedo è con loro: ci troviamo ad una specie di festa in periferia, in una zona collinare che di notte si trasforma nell’alcova automobilistica delle coppiette innamorate, c’è della gente che balla e che mangia, e io sono davvero un bimbetto, avrò tre o quattro anni e i miei sembrano dei giganti, me ne sto lì con la manina appoggiata sulla portiera della Fiat Uno bianca, osservo, registro, frammenti di immagini mi si piantano nel cervello e, dopo decenni, ritornano casualmente – o forse no – ad esistere su queste pagine. Dopo quella macchina ci sarà una Punto che ad oggi smarmitta ancora per strada, ma non lo farà per molto, da qualche mese papà non guida più perché il diabete gli sta oscurando la vista. Un tempo era lui a portarmi in giro, adesso lo faccio io. Ecco una cosa che forse ho imparato in questi dieci anni: cambiamenti, cambiamenti effettivi o apparenti, cicli che si ripetono, che si aprono, che ti risucchiano per riportarti all’inizio quando credevi di essere arrivato alla fine.

Spesso nella quotidianità del vivere accadono cose a cui non diamo il minimo peso ma che se ci soffermiamo un attimo sono davvero curiose. È successo che nemmeno qualche mese fa sfogliavo un quotidiano e la mia attenzione è svogliatamente caduta su un articolo riguardante non ricordo più quale fumettista, le prime righe citavano la Turritopsis nutricula, che roba è la Turritopsis nutricula? Sono andato ad informarmi e, per farla breve, si tratta di una medusa la cui genetica le permette di essere praticamente immortale, una volta giunta ad un dato stadio biologico se ne torna giù sul fondo dell’oceano e si riconverte, inizia una nuova vita. Poi di recente mi sono smarrito nelle terre disastrate di Antoine Volodine dove in un suo libro firmato con l’eteronimo Manuela Draeger si narrano le avventure di una simpatica elefantessa che ha la capcità di rinnovare la propria esistenza a suo piacimento, Volodine spiega che non vi sono chissà quali procedimenti fantascientifici, semplicemente ad un certo punto il pachiderma entra in un tunnel scuro e quando vi esce è ringiovanito, è sempre lei e non più lei all’unisono. Noi purtroppo (o per fortuna) non abbiamo una struttura chimica come quella delle meduse perenni né siamo i personaggi di un romanzo post-esotico, però ciò che mi sento di dire a cuore aperto è di tenere duro, la resistenza è l’azione più alta che possiamo mettere in campo per fronteggiare i periodi bui. Se non erro David Foster Wallace diceva che ogni fallimento può trasformarsi in una vittoria, ed è questo l’unico modo che abbiamo per poter rinascere di nuovo. Non vorrei sembrare il predicatore di una qualche setta pseudo-filosofica ma resistere anche quando sembra che ci sia solo della merda intorno, e state tranquilli, non sembra, è esattamente così, è il solo spiraglio che lascia filtrare un po’ di ossigeno, e per farlo si può iniziare dalle piccole cose che ci fanno stare bene: guardare dei film, darsi all’unicinetto, curare le piante in giardino, non importa, per ricominciare davvero bisogna soltanto partire da se stessi. Io, che ho una grande ambizione già ribadita in passato: dissolvermi in un bicchiere d’acqua come un’aspirina, sono ripartito più volte da oltre il fondo, anche se non avevo niente di che, sai i problemi sono altri, che vuoi che sia, ma dài, ma su, me ne sono scappato, ci sono tornato, in realtà non me ne ero mai andato, e non lo farò nemmeno quando un giorno questo luogo si sarà disgregato nell’etere. Da quaggiù lo dico con un filo di voce, ascoltatemi per favore, perché io sono oltre il fondo: buon compleanno vecchio me. 

Hope when it gets cold
Cause my fear is that I’m getting old
Breathe when it takes hold
To start again
 

venerdì 17 novembre 2017

Leviathan

Insomma, alla quarta prova registica posso affermare con una certa sicurezza che il cinema di Zvjagincev non rientra nell’insieme dell’ammirabile, non lo è stato pienamente prima, e non lo è adesso dopo la visione di Leviathan (2014). Ma che visione è? La solita carrellata di una Russia umanamente inospitale che il regista accerchia e fende per mezzo di due rii: il primo è quello di un j’accuse allo Stato (il faccione di Putin campeggia proprio nell’ufficio del sindaco) e il secondo è quello di un ritratto dei legami personali prossimo allo sfascio con tradimenti, amici/nemici, insoddisfazione generale profonda e radicata. Coniugando questi due aspetti Zvjagincev costruisce un film davvero molto meccanico dove la possanza della sceneggiatura non lascia la possibilità ad ulteriori aperture, di conseguenza colui che guarda si limita a registrare l’accadimento degli eventi non senza una dose ragguardevole di tedio. Il nucleo della questione è che a causa della sua marcata strutturazione artificiosa, tipica di un cinema reazionario che non conosce il mondo oltre le recinzioni, Leviathan autoaffonda sotto i suoi stessi colpi che vorrebbero vestirsi di una ficcante drammaticità e che invece sono pallidi tentativi mirati ad estorcerci qualche emozione, ma noi siamo spettatori scafati e il nostro cristallino non si farà certo ingannare da baluginii così tenui.

La filmografia di Zvjagincev (ad esclusione forse de Il ritorno, 2003), è centrata sulla figura femminea in quanto le donne presenti nei tre film successivi all’esordio hanno un ruolo che spicca e che inevitabilmente si scontra con una controparte maschile imbevuta di vodka. Siamo dunque in presenza di una netta linea autoriale oppure di una reiterazione sterile di tematiche e situazioni molto simili? La domanda apre un dubbio un filo preoccupante poiché le protagoniste di The Banishment (2007) ed Elena (2011) sono coinvolte in storie vicinissime a quelle in cui è impelagata anche Lilya. Da una tale angolazione muliebre si viene dunque a creare una ripetizione argomentativa che non mi sento di definire esattamente appagante. E, ritornando all’opera del 2014, non sazia nemmeno la risoluzione che si dà della tragedia tra Nikolav e la seconda moglie, i passaggi scritturiali nel finale si fanno molto forzati e il quadro che va a delinearsi, dal vago, ma proprio vago, sapore kafkiano, è un presepe di desolazione plastificata dove le varie pedine si muovono su binari pre-impostati e dove i sottotitoli non ci abbandonano mai continuando a dirci imperterriti: “ehi guardate come vanno le cose in Russia!”.

Bravissimo Zvjagincev, per carità, quanta raffinatezza nella messa in scena, che sagacia nello specchiare l’imperturbabile paesaggio circostante dentro i volti paffuti degli abitanti, quale saettamento verso lo sterminato universo-Russia! Sì, ma poi? Non scherziamo, questo cinema nasce già in un tumolo (nella fattispecie fu Cannes) per poi proseguire la propria esistenza zombesca raccogliendo consensi da individui che si nutrono della stessa carne decomposta (eccola lì la nomination all’Oscar). Non vale la pena scomodare la Bibbia o Hobbes, per riferimenti del genere è stato molto più esaustivo l’unico e vero Leviathan (2012), un film di un’altra categoria: quella del capolavoro.

domenica 12 novembre 2017

I tempi felici verranno presto

Che bello! Finalmente un film che non si esaurisce durante la visione e che ha la forza di trasformarsi oltre i titoli di coda in sete di conoscenza da parte di uno spettatore obbligato a ricercare indizi, opinioni, dritte ed interpretazioni per poi giungere alla conclusione che ogni punto di arrivo, purché soggettivo e pensato, è valido e che proprio tale capacità, quella di piantare semi nella mente di chi assiste, è un valore molto più prezioso rispetto a qualunque scioglimento o annodamento tramico, finalmente, soprattutto, un’opera che fa esattamente quanto auspico da anni: prendere la realtà senza intaccarla né codificarla in modo pesante, cogliere una purezza, un’origine e trasportarle nella diegesi travalicando i confini stessi del reale: attenzione, è qui, in questa zona decisiva, che la faccenda si fa tanto seria quanto ghiotta: ecco come si può e si deve costruire una storia e di come il cinema permetta ciò grazie ad una specie di processo osmotico che parte da un realismo per approdare altrove. In altri termini durante la proiezione quanto si diffonde oltre la membrana dello schermo è la finzionalizzazione di una concretezza, così, un po’ stupiti e un po’ disorientati, tocchiamo questi due estremi, i quali, cortocircuitando, partoriscono esemplari come I tempi felici verranno presto (2016), modelli di cinema che hanno radici sia nel contemporaneo internazionale (Weerasethakul per le riprese nemorali, Gomes per il rimbalzo tra verità e menzogna) sia nel panorama italiano riguardante i non pochi autori che lavorando sul documentario sono arrivati in altre zone apocrife, però I tempi felici... sa anche distaccarsi da un Marcello di turno, ha una forza diversa rinvenibile principalmente nell’astrazione che permeando il cuore del film (si noti il contrasto: dal concreto all’indefinito) arriva ad universalizzarlo.

Il friulano Alessandro Comodin giunge al secondo lungometraggio mantenendo una ferrea coerenza nell’approccio, sia in Jagdfieber (2008) che ne L’estate di Giacomo (2011) il metodo del regista non ha mai abbracciato alcuna didascalia e ha provato, con semplicità e nei limiti produttivi, di farci sentire qualcosa piuttosto che raccontarcela. Con la pellicola presentata a Cannes ’16 lo schema di base è lo stesso ma questa è solo la partenza: ce ne accorgiamo dopo una mezz’ora sorniona in cui tra luci naturali e camera in spalla abbiamo seguito due ragazzi vestiti come cinquanta/sessant’anni fa i quali, giusto il tempo di una bella panoramica svelatrice, vengono fatti fuori da due malintenzionati, stacco ed eccoci introdotti in ciò che appare essere il presente nudo e crudo: ad un tavolino un signore racconta una leggenda del posto, la quale leggenda prenderà vita nel prosieguo attorcigliandosi con il passato. Capite? No? Perfetto: è esattamente qua che Comodin vuole portarci e dove io stesso voglio arrivare: nel dubbio e nella semioscurità. Attraverso il mix dei piani temporali, che avviene in totale spontaneità, basta un buco nella terra (cfr. la penetrazione del formicaio in The Human Surge, 2016), la materia forgiata si scalda arrivando ad una temperatura elevata con l’incontro tra i due ragazzi. È un’opera aperta a partire dal dislocante titolo (suggerito casualmente da un amico di Comodin) ed anche nella sua essenza prismatica, dentro c’è, come ampiamente ribadito, la tangibilità di ciò che ci circonda e al contempo (ma di quale tempo si tratti non so dire) il fantastico del folklore unito all’enorme capienza del cinema che permette congiunzioni impossibili ed illogiche ma che attuandosi non lasciano in chi assiste la benché minima riserva. Lo ripeto: che bello!

mercoledì 8 novembre 2017

Out of Frame

Nella breve descrizione che il sito della Mostra dedicò a Titloi telous (2012) [1] si possono leggere testuali parole: “adesso sono le loro stesse cornici vuote a essere il messaggio. E anche la stessa Grecia è rimasta “vuota”. Una tale lettura del corto mi pare errata perché a differenza di Casus belli (2010) che proponeva un’allegoria sulle classi sociali della Grecia-in-crisi, e quindi uno sguardo puntato sulle persone, per Out of Frame Zois lascia da parte metafore & affini le quali possono essere rintracciate soltanto attraverso un’opera di sovrainterpretazione. La frontalità e l’immediatezza del film nascono dall’esigenza di cogliere le conseguenze di una scelta politica da parte della Grecia: quella di abolire la pubblicità sui cartelloni urbani, e tali conseguenze si direzionano verso un unico punto: un quadrilatero spoglio, lo sdoganamento involontario del quadrato di Malevič, un effetto dell’impasse economica in cui la nazione ellenica versava in quel periodo. Il nocciolo che si scontra con una visione umanistica è che qui l’uomo per chi scrive non c’entra proprio niente, i cartelloni vuoti sono la conseguenza della crisi, ma senza pubblicità i cittadini, al contrario, ne uscirebbero arricchiti poiché senza un mondo tutto brand e spot si riacquista quella capacità di scegliere seguendo semplicemente il proprio volere e non quello imposto dagli altri. Capisco che si tratta di un discorso insensato poiché il capitalismo è ormai un elemento fondante dell’occidente e non riesco a pensare ad un sistema che possa prescindere da esso, tuttavia una sorta di utopia mi fa pensare che sarebbe bello poter esercitare il poter d’acquisto senza l’inquinamento del marketing e delle campagne commerciali su scala globale. Certo, bisognerebbe avercelo il potere d’acquisto, cosa che Zois sembra ricordare mostrandoci il totale disarmo dello Stato: a che serve sponsorizzare un prodotto se nessuno può comprarlo?

A parte lo sproloquio personale di cui sopra, ritengo che Titloi telous sia un’opera nulla che artisticamente vale zero. Assodati i risultati della débâcle greca in termini monetari non vi è nient’altro degno di interesse, Zois si limita a raccogliere questi monumenti moderni della disfatta europea disseminati nella realtà urbana, non accenna né uno sviluppo (fattore rintracciabile invece in Casus belli) né un approfondimento, in dieci minuti la stasi che si presenta allo spettatore non è sufficiente a riempire la profondità dell’argomento tematizzato, al netto della libertà autoriale di qualunque regista, quando si affronta la politica col cinema accontentarsi della constatazione è un atto a mio avviso insoddisfacente, per l’ovvietà bastano i telegiornali.
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[1] Consultabile qui.

lunedì 6 novembre 2017

Marquis

Di tutte le variazioni sul tema de Sade proposte dal cinema nel corso della sua storia, è probabile che Marquis (1989) si ritagli una posizione di rilievo per il suo grado di originalità e di irriverenza sbruffona, elementi che sommariamente sono molto accostabili con il pensiero del personaggio che si vuole andare a ritrarre. Indubbiamente già in partenza ci sono buone premesse poiché l’idea nacque dalla fervida mente di Roland Topor, grande illustratore francese “padre” de Il pianeta selvaggio (1973) nonché attore per Herzog nel suo Nosferatu (1979), che venne poi messa in pratica dal regista belga Henri Xhonneux (deceduto nel ’95) con una professionalità a cui non si può biasimare niente. Ciò che rende Marquis un titolo peculiare è la scelta (voluta da Topor) di animalizzare gli esseri umani tanto che ogni personaggio ha la testa ed anche altre parti del corpo di una bestia (una mucca, un topo, un cane), qui si crea il valore dell’opera poiché nonostante siano passati quasi trent’anni la resa estetica di questi animaluomini, realizzati grazie all’animatronica, non appare né datata né ridicola. Ovvio che oggi, con una CGI che ha il monopolio del fantastico nel cinema, i canoni estetici sono stati irrimediabilmente modificati, tuttavia all’artigianalità e alla bizzarria visiva della coppia Topor-Xhonneux alzo un grande pollice perché oltre ad una valida restituzione dei soggetti in scena si aggiungono dettagli e finezze che impreziosiscono il film, particolari che denotano una mirata cura formale (guardate il giornalista olandese e come fa a respirare).

L’affrontare il tema di una sessualità perversa come è di costume per il celeberrimo Marchese viene portata avanti con gusto, weird, sia chiaro, che sempre gusto è: già c’è una trovata che fa sbellicare come quella del pene parlante la quale oltre ad essere divertente per via delle sue fattezze e delle situazioni che gli vengono costruite attorno è funzionale dal punto di vista narrativo visto che permette al protagonista di avere un partner all’interno della cella con cui dialogare mantenendo una continua frizzantezza del racconto. In più, e ora arriviamo al nocciolo, vi è anche lo spazio per una sorta di rovesciamento delle aspettative spettatoriali, infatti del micro-mondo che ci viene incontro l’unico a mantenere un certo autocontrollo è proprio l’esimio Marchese mentre intorno a lui è un continuo fornicare. A tal proposito Xhonneux e Topor costruiscono una rete di erotismo deviato con un intreccio quasi soapoperistico legato ad una misteriosa paternità (la quale darà i natali a…) che poi va a combaciare in un qualche sghembo modo con un fatto Storico come la presa della Bastiglia, ma l’evidenza della trama può a mio modo di vedere essere messa da parte, è meglio prendere atto di questo profilo “diverso” del signor de Sade e focalizzarsi sulla patina per gustare quelle minuzie che fanno di Marquis un cinema d’evasione che mi piacerebbe vedere più spesso.

sabato 4 novembre 2017

Ok

Ascoltato assolutamente per caso, da questo disco d’esordio dei Wy, duo svedese di sede a Malmö, non riesco, e non voglio, uscire. Già il mio dylandoghiano quinto senso e mezzo aveva incominciato a fibrillare su Indolence, il brano d’apertura che a 2'16'' ha una accelerazione poderosa, poi con il refrain quasi tribale di What Would I Ever Do le orecchie si sono spalancate e dentro ci è entrata della musica intessuta di un mood che sento intimamente mio, tipo Bathrooms, tipo You + I. All’inizio sembrava di riascoltare la Zola Jesus di Conatus, ma se la voce di Ebba Ågren quando si apre potrebbe anche assomigliare a quella della collega americana, la struttura dei pezzi di Okay tende, a volte, verso un post-rock carico di malinconia staccandosi dalle derivazioni elettroniche del caso, mentre altre volte, grazie alle notevoli doti canore della lead singer, le sonorità tra il dream ed il sad-pop alzano l’asticella della posta in gioco per lambire certe corde profonde, quelle che si articolano sotto la nostra pelle, tra le vene e le arterie, e che fremono quando vengono stimolate nel modo giusto. Ci saranno tanti altri dischi così nello sterminato sottobosco delle band indie? Non lo so. In attesa di possibili notizie, io mi inchino di fronte ai Wy.

Ascolto completo sulla loro pagina di Bandcamp.

giovedì 2 novembre 2017

Olmo e il gabbiano

Petra Costa, brasiliana con alle spalle il lungometraggio Elena (2012), e Lea Glob, danese con non molta esperienza in campo registico (danese: c’è anche la Zentropa a finanziare), si incuneano nella vita di due attori teatrali residenti a Parigi, la modenese Olivia Corsini e il francese Serge Nicolai, che da anni sono una coppia anche fuori dal palco. La genesi di Olmo and the Seagull (2015) si situa dunque nell’incontro avvenuto in Brasile tra la Costa e Corsini-Nicolai, i quali, affascinati da Elena, decisero di buttare giù un progetto con la regista, progetto che inizialmente doveva ispirarsi a La signora Dalloway di Virginia Woolf, ma che, una volta sopraggiunta la gravidanza di Olivia, si è trasformato in qualcosa di maggiormente personale. Chiaro che la maternità è il centro del film e che la correlata tematizzazione ha un tatto femminile, delicato, capace di estromettere la controparte maschile che vediamo al massimo come un premuroso futuro papà senza però venire a conoscenza dei suoi dubbi e delle sue paure (ad esclusione di una rapida domanda postagli al party conclusivo). Quindi la dimensione muliebre che le registe propongono ha figura essenziale nella mente e nel corpo di Olivia Corsini, il ritratto che ne risulta, tempestato di ricordi, riflessioni e confessioni, è quasi una biografia sull’attrice italiana, un tableau vivant casalingo dove sia la donna che l’uomo, immersi fino a quel momento nel mondo-teatro, devono impegnarsi ad impersonificare il ruolo più difficile della loro vita: quello di essere se stessi.

Ma passiamo pure al comparto tecnico che più ci interessa, perché se è vero che ormai le storie proposte da qualunque forma d’arte non sono più in grado di stupire, è allora fondamentale trovare un metodo di trasmissione convincente, e quello di Costa & Glob rientra nei territori della docufiction. L’etichetta ossimorica esibisce il senso del film, per cui sì, abbiamo a che fare con un altro esemplare filmico che si prende l’onere di rappresentare l’elettrico contatto tra realtà e finzione. La traiettoria che si disegna davanti ai nostri occhi contempla movimenti ingannatori dove situazioni che toccano vertici di reale (la tesa discussione tra Olivia ed un rincasante Serge) vengono ribaltatate da coordinate che finzionalizzano la scena (l’ingresso vocale di una delle due nel quadro ripreso che dispensa consigli). Dunque c’è un continuo rimbalzare tra il vero ed il fittizio che per usare una consunta litote non è poi così male, vedibile senza strabuzzamenti oculari, né in negativo né in positivo, vieppiù poi che se ragioniamo sui due personaggi in scena e sulla professione che svolgono allora il discorso prende una piega quasi meta-esistenzialistica poiché ritroviamo due attori intenti a recitare la vita che vivono normalmente, insomma c’è una componente celebrale che si tramuta in riflessione artistica in grado di rinforzare l’aspetto concettuale dell’opera.

Tutte le sopraccitate informazioni che riguardano l’intima visione della dolce attesa da un punto d’osservazione femmineo, oltre al biopic di una brava attrice nostrana unito alla ludicità del canale comunicativo e ad un pensiero che pensa al ruolo attoriale nel cinema, fanno di Olmo e il gabbiano un prodotto che, in qualità di film para-narrativo, si è meritato la distribuzione italica in DVD per conto di Koch Media.