lunedì 23 ottobre 2017

Bad Film

Bad Film (2012), ovvero il film perduto e poi ritrovato di Sion Sono, è un’opera mastodontica girata nel lontano 1995 da Sono stesso coadiuvato da un collettivo denominato Tokyo GAGAGA, per la cui realizzazione, come ci ricordano i titoli di coda, vennero scritturate ben duemila (!) persone, i numeri sono da capogiro perché oltre al cospicuo materiale umano anche quello relativo al minutaggio è fuori da ogni concezione per un lavoro narrativo, infatti il risultato finale (due ore e quaranta minuti) è la scrematura di una spaventosa mole di girato che pare navigasse intorno alle centocinquanta (!!) ore complessive, così dopo diciassette anni in soffitta causati da una mancanza di fondi, Sono si è rinchiuso nel suo studio per tagliare e incollare i lacerti di un film che, va subito detto, è esteticamente poverissimo poiché ci si riferisce ad una resa visiva dettata dall’HI 8, un formato che al tempo poteva essere potabile (con quei bordi arrotondati a volte sembra di trovarci al cospetto di un precursore delle GoPro) ma che ora accusa enormemente il passare degli anni, sia per la qualità video che per quella audio. Nella recensione di tal Alec Kubas-Meyer (link), un tizio che a quanto pare ha potuto vedere Bad Film su grande schermo, vengono riportate le seguenti parole: “Seeing Bad Film in a theater feels like a joke. It’s not a movie that should be in a theater; it should be seen on an old VHS tape found in an attic somewhere. It’s footage from 1995, but it seems so much older”. Quindi la seconda pellicola più lunga di Sono dopo Love Exposure (2008) è una pena per i nostri occhi “moderni”, se però si riesce a superare questo scoglio si spalanca un mare irrequieto di pura e profonda arte sononiana.

Da un punto di vista temporale Bad Film si collocherebbe tra The Room (1993) e Keiko desu kedo (1997), due film tra i più sperimentali del giapponese che a onor del vero non hanno granché di cui condividere con l’opera in oggetto, no, l’idea che qui sta alla base troverà uno sviluppo più concreto e professionale soltanto lustri dopo, in parte col già citato Love Exposure, e successivamente con Why Don’t You Play in Hell? (2013) [1] e Tokyo Tribe (2014), alla radice di una tale furia tellurica c’è sempre la necessità di inscenare la violenza, condita da ingredienti diversi (riflessioni meta, l’hip-hop), per mezzo di faide tra bande di delinquenti. Bad Film, ovviamente, non possiede ancora quell’eruttante totalità investente degna del miglior Sono, e, parimenti, non presenta nemmeno quella sfiancante amatorialità degli esordi (vedi A Man’s Flower Road, 1986), ci troviamo allora in una zona intermedia dove grazie ad un qualche miracolo incomprensibile si arriva perfino ad una sottospecie di equilibrio. Chiaro che nelle quasi tre ore di proiezione la mole narrativa è al di là dei normali standard e pertanto è innegabile che tutta la contorsione della trama, ricolma di twist, scorciatoie e ingarbugliamenti (è pur sempre una creatura di Sono!), possa anche spazientire, ma d’altronde Bad Film, nomen omen che racchiude già parecchio, se non tutto [2], non vuole essere una visione comoda, al contrario, il suo farsi pian piano spietato sfrondando lentamente altre componenti categoriali (e ce ne sono: comicità, stranezze [una testa di maiale come amante], sentimentalismi pazzoidi), mette in mostra una crudeltà umana che il regista riacciufferà in futuro con Cold Fish (2010), sebbene qua ci si fermi un paio di step prima dell’acme parossistico, il che, per una volta, non dispiace poi troppo.

Opera anche politica, e con ogni probabilità l’unica ad oggi dell’autore, in Bad Film trova posto una riflessione sociale sulle discriminazioni razziali con focus locale tra la diatriba che vede una gang di giapponesi contrapposta ad una di cinesi per il dominio urbano di una zona di Tokyo. Non vi è profondità in questa riflessione, per cui non aspettative niente di illuminante, però calibrando la tematizzazione al contenitore c’è ritmo e misura, e pur non essendo noi davvero dentro il cuore della questione abitando una vita lontana anni e chilometri da lì, sotto il velo della baracconata la materia si scalda fino all’incandescenza. E non è finita: in parallelo Sono innesta un ulteriore argomento che è quello riguardante l’omosessualità, un assunto che con il procedere del film assume un ruolo sempre più di primo piano e che attraverso modalità che lascio a voi comprovare trova un intreccio convincente con la faccenda gangsteristico-razziale. Al pari di quanto scritto sopra, anche la svolta che pone in risalto storie gay e lesbiche non passerà agli annali per acume intellettuale, ma non era comunque questo lo spazio per uno studio del genere. Vedere Bad Film ha ricordato al sottoscritto perché Sono è (… stato?) un regista rispettabile, perché è un buco nero capace di risucchiare qualunque cosa gli orbiti attorno e trasformarla in un manufatto vivo, non esente da difetti (e nella fattispecie ce ne sono in quantità industriale), ma pieno di cuore e voglia di raccontare. Dieci, cento, mille film cattivi, al bando inutilità come The Land of Hope (2012) o Love & Peace (2015).
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[1] Andando a fondo nella filmografia di Sono, e quindi ripercorrendo di conseguenza anche le orme della sua vita, il film che fu presentato a Venezia nel 2013 si profila come il più autobiografico in assoluto. Impossibile non notare una stretta somiglianza tra il gruppo di scapestrati dell’opera recente e ciò che fu Tokyo GAGAGA.

[2] La seguente citazione di Sono presa da qui racchiude il significato dell’operazione: “At the time, the Japanese film industry was full of films for goodie-goodies, i wanted to something completely against that — a film that is not an A-student film but something that is bad

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