Bad Film (2012), ovvero il film
perduto e poi ritrovato di Sion Sono, è un’opera mastodontica
girata nel lontano 1995 da Sono stesso coadiuvato da un collettivo denominato Tokyo GAGAGA, per la cui realizzazione, come ci
ricordano i titoli di coda, vennero scritturate ben duemila (!)
persone, i numeri sono da capogiro perché oltre al cospicuo
materiale umano anche quello relativo al minutaggio è fuori da ogni
concezione per un lavoro narrativo, infatti il risultato finale (due ore e quaranta minuti) è la scrematura di una spaventosa mole di
girato che pare navigasse intorno alle centocinquanta (!!) ore
complessive, così dopo diciassette anni in soffitta causati da una
mancanza di fondi, Sono si è rinchiuso nel suo studio per tagliare e
incollare i lacerti di un film che, va subito detto, è esteticamente
poverissimo poiché ci si riferisce ad una resa visiva dettata dall’HI 8, un
formato che al tempo poteva essere potabile (con quei bordi
arrotondati a volte sembra di
trovarci al cospetto di un precursore delle GoPro) ma che ora accusa enormemente il passare degli anni, sia
per la qualità video che per quella audio. Nella recensione di tal
Alec Kubas-Meyer (link), un tizio che a quanto pare ha potuto vedere
Bad Film su grande schermo, vengono riportate le seguenti
parole: “Seeing Bad Film in a theater feels like a joke.
It’s not a movie that should be in a theater; it
should be seen on an old VHS tape found in an attic somewhere. It’s
footage from 1995, but it seems so much older”. Quindi la
seconda pellicola più lunga di Sono dopo Love Exposure (2008)
è una pena per i nostri occhi “moderni”, se però si riesce a
superare questo scoglio si spalanca un mare irrequieto di pura e
profonda arte sononiana.
Da un punto di vista temporale Bad
Film si collocherebbe tra The Room (1993) e Keiko desu kedo (1997), due film tra i più sperimentali del giapponese che
a onor del vero non hanno granché di cui condividere con l’opera
in oggetto, no, l’idea che qui sta alla base troverà uno sviluppo
più concreto e professionale soltanto lustri dopo, in parte col già
citato Love Exposure, e successivamente con Why Don’t You Play in Hell? (2013) [1] e Tokyo Tribe (2014), alla radice
di una tale furia tellurica c’è sempre la necessità di inscenare
la violenza, condita da ingredienti diversi (riflessioni meta,
l’hip-hop), per mezzo di faide tra bande di delinquenti. Bad
Film, ovviamente, non possiede ancora quell’eruttante totalità
investente degna del miglior Sono, e, parimenti, non presenta nemmeno
quella sfiancante amatorialità degli esordi (vedi A Man’s Flower Road, 1986), ci troviamo allora in una zona intermedia
dove grazie ad un qualche miracolo incomprensibile si arriva perfino
ad una sottospecie di equilibrio. Chiaro che nelle quasi tre ore di
proiezione la mole narrativa è al di là dei normali standard e
pertanto è innegabile che tutta la contorsione della trama, ricolma
di twist, scorciatoie e ingarbugliamenti (è pur sempre una creatura
di Sono!), possa anche spazientire, ma d’altronde Bad Film,
nomen omen che racchiude già parecchio, se non tutto [2], non
vuole essere una visione comoda, al contrario, il suo farsi pian
piano spietato sfrondando lentamente altre componenti categoriali (e
ce ne sono: comicità, stranezze [una testa di maiale come amante],
sentimentalismi pazzoidi), mette in mostra una crudeltà umana che il
regista riacciufferà in futuro con Cold Fish (2010), sebbene
qua ci si fermi un paio di step prima dell’acme parossistico, il
che, per una volta, non dispiace poi troppo.
Opera anche politica, e con ogni
probabilità l’unica ad oggi dell’autore, in Bad Film
trova posto una riflessione sociale sulle discriminazioni razziali
con focus locale tra la diatriba che vede una gang di giapponesi
contrapposta ad una di cinesi per il dominio urbano di una zona di
Tokyo. Non vi è profondità in questa riflessione, per cui non
aspettative niente di illuminante, però calibrando la tematizzazione
al contenitore c’è ritmo e misura, e pur non essendo noi davvero
dentro il cuore della questione abitando una vita lontana anni e
chilometri da lì, sotto il velo della baracconata la materia si
scalda fino all’incandescenza. E non è finita: in parallelo Sono
innesta un ulteriore argomento che è quello riguardante
l’omosessualità, un assunto che con il procedere del film assume
un ruolo sempre più di primo piano e che attraverso modalità che
lascio a voi comprovare trova un intreccio convincente con la
faccenda gangsteristico-razziale. Al pari di quanto scritto sopra,
anche la svolta che pone in risalto storie gay e lesbiche non passerà
agli annali per acume intellettuale, ma non era comunque questo lo
spazio per uno studio del genere. Vedere Bad Film ha ricordato
al sottoscritto perché Sono è (… stato?) un regista rispettabile,
perché è un buco nero capace di risucchiare qualunque cosa gli
orbiti attorno e trasformarla in un manufatto vivo, non esente da
difetti (e nella fattispecie ce ne sono in quantità industriale), ma
pieno di cuore e voglia di raccontare. Dieci, cento, mille film
cattivi, al bando inutilità come The Land of Hope (2012)
o Love & Peace (2015).
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[1] Andando a fondo nella filmografia
di Sono, e quindi ripercorrendo di conseguenza anche le orme della
sua vita, il film che fu presentato a Venezia nel 2013 si profila
come il più autobiografico in assoluto. Impossibile non notare una
stretta somiglianza tra il gruppo di scapestrati dell’opera recente
e ciò che fu Tokyo GAGAGA.
[2] La seguente
citazione di Sono presa da qui racchiude il significato
dell’operazione: “At the time, the Japanese film industry was
full of films for goodie-goodies, i wanted to something completely
against that — a film that is not an A-student film but something
that is bad”
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