martedì 19 settembre 2017

A Man’s Flower Road

Otoko no hanamichi (1986) è il primo lungometraggio di Sion Sono, il che ci trasmette immediatamente una certa importanza filologica perché se si vuole conoscere il cinema del giapponese si deve per forza passare da qui. Che il film in questione sia sghembo e approssimativo fino al fastidio era un dato preventivabile, quello che è possibile vederci dentro è più che altro un’estensione dei due corti precedenti (sono tre, ma Ai [1986] non l’ho visto), ovvero Love Song (1984), di cui risentiamo il fastidioso trillare della sveglia che troveremo nuovamente in 0cm4 (2001), e Ore wa Sono Sion da! (1985), e proprio da quest’ultimo, la cui traduzione dovrebbe essere Io sono Sono Sion!, si può approcciare A Man’s Flower Road poiché la componente autobiografica raggiunge livelli elevati. Il fatto che Sono voglia fare un film su stesso, sul suo mondo da venticinquenne, lo si apprende di più nella seconda parte, la prima invece è un’orgia caotica di immagini in Super 8 sconnesse e con ogni probabilità insensate, semplicemente: non si capisce un cazzo. Ma perché non c’è niente da capire. È solo la deiezione (concreta: Sono all’inizio caga su una pietra in un’aiuola) di un moto interno, una scarica di rabbia e furore che fa rimbalzare il giovane Sion come una pallina da flipper da un posto all’altro, e le immagini con lui, e tanti sono gli scossoni e la concitazione generale che è necessario prendersi due o tre compresse di Plasil prima della proiezione. Con tutta la buona volontà l’anti-estetica di questa prima frazione rende l’opera davvero inguardabile, troppa troppa e ancora troppa confusione, nemmeno l’apparizione surreale dei due spiriti del fiume (truccati in un modo che più cheap non si può) salva la baracca.

La sezione successiva, che ha di nuovo Sion fulcro della situazione senza però che vi siano collegamenti diretti a quanto accaduto prima, comincia con quello che è il segmento più interessante, almeno visivamente, di Otoko no hanamichi, infatti per una buona decina di minuti il quadro è principalmente immerso in una casa rimasta al buio dopo un blackout, timide lucine si accendono, voci nella pece parlano: a sorpresa qualcosina di stimolante c’è. Poi si scoprirà che la famiglia all’interno della suddetta casa è la vera famiglia di Sono e che quindi una delle tematiche che attraverserà una fetta importante della sua filmografia, e per quanto mi riguarda la migliore fetta poiché parliamo di un lasso di tempo che va dalla trilogia del suicidio a Himizu (2011), ha radici strettamente personali in quanto al ribelle Sion la vita famigliare sembra andare stretta e il richiamo di Tokyo è dolce e suadente. Ovviamente nulla è chiaro e anche qua il disordine assoluto legifera indisturbato, si procede un po’ per intuizioni generate da trovate acerbe e raffazzonate, si veda il filo d’Arianna che Sono srotola lungo la città partendo dalla propria abitazione, una sorta di cordone ombelicale che non riesce a recidere (il filo prende fuoco e lui correndo a ritroso si ritrova in giardino ai piedi della mamma che lo sgrida), oppure con il finale dove nella metropoli lascia finalmente il suo imprevedibile segno.

Sui lavori d’esordio di Sono non è che si possano registrare chissà quali picchi di beltà, è roba amatoriale girata senza un soldo con amici/parenti, ad essere magnanimi se ne può apprezzare lo spirito e ravvisare in embrione alcune tematiche che in futuro torneranno con prepotenza, ma se si volesse saltare direttamente a Jitensha toiki (1990) non si commetterebbe un delitto.

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