Fotogramma di una donna
che sale delle scale su cui sono state poste delle candele accese.
Cambio scena ed un uomo è disteso sul pavimento, affianco ha
una sveglia che comincia ossessivamente a trillare, l’uomo si alza
per gironzolare nervosamente nella stanza fatiscente, ad un certo
punto scaglia una trave contro la finestra e con un coccio di vetro
tenta di lavarsi i denti, poi si avvicina ad un lavandino fuori uso e
con dell’acqua invisibile si deterge la faccia, infine mette su giacca e
cravatta per inoltrarsi nei corridoi del palazzo mentre sullo schermo
ritorna per alcuni istanti il viso della donna.
Quell’uomo è
Sion Sono e Love Song (1984) è in assoluto il suo primo
vagito nel mondo-cinema. Onestamente non riesco a
trovare collegamenti significativi con il Sono che verrà, sì
forse la figura femminile è un’antenata delle molteplici
Mitsuko che popoleranno la filmografia del giapponese, ma è un
laccio debolissimo nonché forzato da un’ostinata ricerca
filologica da parte del sottoscritto. In realtà questo breve
cortometraggio non ha nient’altro che non sia lo spirito amatoriale
di un al tempo ventitreenne che inizia a cimentarsi nelle riprese con
l’8mm, il che ci catapulta in avanti di ben ventinove anni sulle
tracce dell’Hirata di Why Don’t You Play in Hell? (2013)
e alla sua necessità di riprendere qualunque cosa gli girasse
intorno. Pur non avendo punti intrinseci di memorabilità, Love
Song resta una chicca per il suo essere miccia del dispositivo
sononiano, la scintilla dove non c’era nulla (nemmeno Miike, il
regista nipponico più vicino a Sono ha esordito negli anni
’90), il big bang che ha dato origine ad un universo in
imperterrita espansione.
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