martedì 30 settembre 2008

Non si sevizia un paperino

Dici Fulci e dici un pezzo del cinema italiano. Poi attingendo dalla fonte di conoscenza del nostro tempo (wikipedia) scopri che è stato anche sceneggiatore, attore, produttore, scrittore e autore di canzoni famosissime. Insomma un’artista a tutto tondo.
Tra gli anni '70 e '80 Fulci si cimenta con il genere giallo, avendo in precedenza sondato i territori delle commedia e dei spaghetti-western, e proprio da quella magica decade arriva questo Non si sevizia un paperino (1972), titolo strambo per un film morboso e intrigante. Il cast è di tutto rispetto per quel tempo, Thomas Milian (irriconoscibile senza barba e berretto); Florinda Bolkan che aveva già lavorato con Fulci in Una lucertola con la pelle di donna (1971); e la splendida Barbara Bouchet indimenticabile attrice della commedia erotica italiana.
Accendura. Un paesino immaginario del sud Italia che viene sconvolto dalla morte di quattro bambini tutti uccisi in circostanze misteriose. Mentre si susseguono i colpi di scena sui principali indiziati la verità che viene a galla è tanto sconvolgente quanto inaspettata.

L’ambientazione atipica rende questo film un giallo non convenzionale per i canoni del tempo. E proprio questo paesino arroccato sulle montagne trasmette un’atmosfera malsana i cui abitanti sono sopraffatti dalla superstizione religiosa e dall’ignoranza che mutua in paurasfociando in una violenza magistralmente immortalata da Fulci.
Fulci, appunto.Ho letto che molti considerano Non si sevizia un paperino come il suo capolavoro, un punto di riferimento per il cinema di genere italiano. Devo ancora conoscerlo bene questo regista romano, ho visto solo due suoi film, ma in entrambi ho colto una “pulizia” che non saprei bene come spiegare, ho avuto come la sensazione che tutti gli elementi tecnici che compongono un film siano dosati nella maniera giusta, riuscendo a creare prodotti di alta qualità, anzi di alta classe oserei dire. Basta prendere la sequenza dove viene uccisa a bastonate la Maciara accompagnata dalla voce di Ornella Vanoni con Quei giorni insieme a te. Il contrasto tra ciò che si vede e ciò che si sente è prepotente, eppure non si riesce a togliere gli occhi dallo schermo, e quando la donna muore sul ciglio della strada, con le macchine indifferenti che le sfrecciano accanto non sentivo più la musica ma quasi percepivo il dolore di una donna uccisa ingiustamente, uccisa dall’ignoranza.
La caratteristica che più mi ha colpito è la totale assenza di personaggi positivi. Escludendo ovviamente l’assassino che è un figlio di buona donna, anche la Maciara seppur uccisa ingiustamente pratica riti voodoo contro i bambini; senza scordare la Bouchet, che per buona parte del film si aggira per il paese come una sorta di eterea presenza, ha tendenzediciamo pedofile o pseudo tali; e pure il giornalista Martelli (Thomas Milian), forse sarò pazzo, ma durante l’azzuffamento finale appoggia le mani sui seni della piccola Malvina. Questo pessimismo si incastra in una cornice dai toni “gialli” che accentua ancora di più l’innocenza dei bambini nei confronti degli abitanti del paese.
Forse il peso degli anni che si porta addosso fa sì che non sia difficile intuire chi sia l’assassino, però rimane una pellicola molto affascinante per l’ambientazione e i temi trattati che esulano dai classici film di genere di quegli anni.

Due piccole osservazioni: la scelta di mettere sopra le scene del linciaggio una canzone d’amore è stata riproposta anche in Cannibal Holocaust (1980) sempre dal compositore Riz Ortolani.
Il colpevole che precipita giù dalla montagna è la prima scena di Sette note in nero (1977).

lunedì 29 settembre 2008

Quella villa in fondo al parco

Il film del 1988 che congeda Giuliano Carnimeo dal grande schermo è una delle sue rare incursioni nell’ horror, essendosi occupato prevalentemente di spaghetti-western come Il momento di uccidere (1968) o a commedie all’italiana tipo La signora gioca bene a scopa? (1974). Mi permetto di dire che non sono state poi così un male queste rare incursioni.
La sceneggiatura è firmata da Dardano Sacchetti che aveva lavorato anche a Sette note in nero (1977) di Fulci, ma con risultati ben migliori.
Ad “allietare” la visione auto-punitiva ci pensa un cast stellare composto da Eva Grimaldi munita di sopracciglia alla Elio, David Warbek (L’aldilà…e tu vivrai nel terrore, 1981), e Nelson de la Rosa, scomparso due anni fa, che girò nel 1996 con Marlon Brando L’isola perduta. Niente di strano, a parte il fatto che era alto 54 centimetri.
Uno scienziato che lavora in un laboratorio pari ad una stia per galline crea un mostriciattolo partorito da una scimmia inseminata da un ratto, praticamente Riccardo Schicchi in miniatura.
Questa bestiola possiede delle unghie velenose in grado di provocare una lectospirosi (?) fulminante, e fuggito dalla gabbietta per uccelli in cui era rinchiuso incomincia a seminare il terrore per tutta l’isola. Tra le sue vittime anche la modella Grimaldi dispersa nella giungla con il suo fotografo, sulle cui tracce si era messa anche la sorella insieme ad uno scrittore conosciuto sul posto.

Una nefandezza a partire dal titolo, che come spesso accadeva non c’entrava assolutamente niente con il film ma serviva solo da “traino” per gli spettatori avendo il nome simile a pellicole più famose. Soporifero nei frangenti in cui un film horror dovrebbe eccellere, ossia nei momenti di tensione, e povero dal punto di vista della sceneggiatura: striminzita e così prevedibile che consiglio di affaccendarsi in altre attività durante la visione per non perdere del tempo prezioso.
Infelice la scelta di Carnimeo nell’utilizzare inquadrature buie durante gli attacchi del mostro, e ancora più infelice la decisione di utilizzare l’uomo più basso del mondo come mostro serial killer, facendo perdere quel minimo di credibilità e fiducia che cerco sempre di dare ad un film.
Basso il livello degli effetti speciali, soprattutto il make-up di De La Rosa che piccolo com’è non farebbe paura neanche ad un bimbo.
La Grimaldi si fa notare per alcuni gemiti inopportuni sotto la doccia, per il resto è buio totale.

Nemmeno buono per farsi due risate con gli amici.

sabato 27 settembre 2008

Jesus Camp

Cazzo…
Ho appena staccato il film e questa è la prima parola proferita dalla mia bocca.
Il lavoro di Rachel Grady ed Heidi Ewing è un documentario del 2006 che si occupa di una comunità Evangelica americana ed in particolare di un campo estivo riservato a bambini denominato “Kids on fire school of ministry” situato sul Devil’s lake nel Nord Dakota, presieduto da un’esagitata panzona di nome Becky Fischer. Il documentario non è fazioso ma nemmeno critico nei confronti di questa comunità, si è soltanto spettatori di ciò che accade, anche se a dir la verità vorrei sapere con precisione fino a che punto il lavoro in fase di montaggio è coerente con la realtà, anche solo dal punto di vista cronologico.
Il film ha ricevuto una nomination agli oscar 2007 come “Best documentary feauture”.Non so fino a che punto sia giusto parlare di trama quando si tratta di un documentario, comunque il film parte con un sermone di Becky davanti ad una folla impietrita di bambini non più grandi di 10 anni. Alla fine della predica alcuni di essi entrano in una sorta di trance e cominciano a parlare in una lingua sconosciuta, ovvero parlano “in tongues”. Ciò che dicono apparterebbe alla lingua madre dello spirito santo. Ah.
Dopo aver fatto conoscenza con alcuni bambini Becky raccomanda loro di essere presenti al campo estivo, e loro la rassicurano neanche si trattasse Disneyland. Poi si approfondisce la vita di due di essi. Levi (aspirante pastore) studia a casa senza frequentare nessuna scuola, sua madre lo interroga sull’origine del Mondo e ovviamente prende piede il creazionismo a scapito dell’evoluzionismo.
Rachael è la bambina che più mi ha spaventato. Cerca di infondere il cristianesimo a chiunque, in un bowling si avvicina ad una tizia che sembra uscita da Bangbros dicendole cose del tipo: “Io so che Gesù ti vuole…” E le porge un volantino che la tizia prende intimidita. Mah.
Durante il campo si assiste a sconcertanti sedute in cui i ragazzini si inginocchiano piangendo a dirotto durante i sermoni e come impossessati inneggiano Gesù Cristo, i valori della fede e ogni tanto pure Bush, il che stride un attimino visto che il presidente non mi sembra proprio un tipo pacifico, e a meno che dio non abbia detto che bombardare l’Iraq è cosa buona e giusta qui c’è qualcosa che mi puzza.
Il top lo si raggiunge quando Becky afferma che Harry Potter in quanto mago è nemico di dio e non importa se esso sia un eroe o meno. Immaginatevi le facce dei ragazzini dopo questa frase.
Il film termina con un confronto tra Becky e lo speaker di una radio liberale.

È difficile non prendere posizioni nei confronti di questa comunità evangelica, durante il film ho pensato parecchie volte “ma che cazzo stanno dicendo ‘sti qua?” perché la mia formazione è stata totalmente diversa da quella di questi bambini. Mi hanno particolarmente colpito le parole di Levi quando afferma di essere spaventato quando si trova davanti una persona non cristiana, è come se questi ragazzini abbiano assimilato i dogmi della cristianità a tal punto di considerarli la Verità assoluta, e ciò che non rientra in questa Verità fa paura perché diverso ed è sbagliato a prescindere. Ciò mi perplime alquanto.
Mentre vedevo questi bambini contorcersi dalle lacrime dopo prediche in cui sostanzialmente non si dice nulla di concreto ma la solita e ripetitiva fuffa, ho provato grande pena per loro. Facendo un parallelo neanche troppo azzardato li metto sullo stesso piano di quei integralisti islamici che imbottiti di tritolo si fanno saltare in aria nel mercato all’ora di punta. I partecipanti al “camp” forse non ammazzeranno nessuno nella loro vita, ma facendo così perderanno la libertà di scegliere soggettivamente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se a dieci anni vengono a dirti che l’aborto è contro il Cristianesimo, ti piazzano un adesivo con su scritto “Life” sulla bocca e ti fanno vedere la riproduzione in plastica di un feto, puoi stare certo che non comprerai mai e poi mai una pillola anticoncezionale o un pacchetto di preservativi, con conseguenze che “qualcuno” ha magnificamente tradotto in prosa parecchi anni fa: "Feconda una donna ogni volta che l’ami, così sarai uomo di fede, poi la voglia svanisce ed il figlio rimane e tanti ne uccide la fame." Questa canzone la sparerei a stecca negli altoparlanti durante quei congressi.
Ma l’assurdità si raggiunge quando viene portata la sagoma di Bush sul palco e viene suggerito ai ragazzi di pregare... per la guerra. L’ho già scritto poco fa ma mi ripeto perché questa cosa mi fa troppo incazzare, cioè è un controsenso gigantesco, io se fossi stato Gesù Cristo (ammesso che esista) in quel momento avrei fulminato quella cicciona e la combriccola che si porta appresso. D’altronde anche lo speaker della radio ricorda a Becky che ciò che in passato ha distinto l’America dagli altri paesi è stata la separazione tra stato e chiesa. Già, faglielo capire a quelli.

Come si sottolinea su exxagon.it è un film che ha bisogno del vostro giudizio, per riflettere e per capire. E magari riuscire a comprendere il perché di tutto questo.

venerdì 26 settembre 2008

Thriller

Quando uscì nel 1974 fu il primo film svedese ad essere censurato in patria a causa di inserti hardcore tanto veri quanto fuori luogo. La regia è di Bo Arne Vibenius che lavorò con Bergman nel film Persona (1966), mentre la protagonista è Christina Lindbergh, al tempo ventitreenne, e adesso giornalista, che con il suo look “piratesco” ha ispirato Tarantino per il personaggio di Elle Driver in Kill Bill (2003).

Madeleine viene violentata da un vecchio maniaco quando era piccina. Lo shock la rende muta ma con l’affetto dei suoi cari riesce a riprendersi vivendo in serenità nella fattoria in campagna. Un giorno accetta un passaggio da uno sconosciuto di nome Tony per recarsi in città. Tony si rivela un magnaccio che rapisce Madeleine, la droga e la costringe a prostituirsi cavandole un occhio. Nel frattempo l’uomo invia una finta lettera ai genitori di Madeleine in cui finge di essere la ragazza dicendo che ha abbandonato la fattoria per la troppa oppressione della famiglia. Quando Madeleine riuscirà a scappare via dal bordello scoprirà che i suoi genitori si sono ammazzati per il dispiacere, a questo punto inizia un’improbabile addestramento per prepararsi alla sua vendetta che compirà implacabilmente.

Si legge in giro che Tarantino lo ha definito “the roughest revenge movie ever made”.
Bah, sarà ma personalmente ho visto dei rape & revenge superiori a questo come La casa sperduta nel parco(1980) di Deodato o L’ultimo treno della notte (1975) di Aldo Lado, film più solidi in tutto e per tutto al confronto di questo Thriller che ha più buchi di una gruviera.
Alcune forzature sono palesi: possibile che una ragazzina traumatizzata da uno stupro accetti un passaggio dal primo che passa? Inoltre il metodo con cui Tony la segrega in casa è troppo artificioso: inizia a drogarla a tal punto che diventa dipendente dall’eroina e non scappa via perché Tony è l’unico a dargliela. Bu.

Le frequenti scene pornografiche puzzano di sexploitation gratuito fino a qua perché non c’era il bisogno di utilizzare questi inserti in una storia dai toni così cupi se non per accaparrasi un po’ di pubblico, e penso che l’intenzione del regista era proprio questa.
La totale assenza di colonna sonora, latitante anche negli ovvi momenti in cui Mad è in scena (ricordo che è muta), non aiutano a cementificare l’attenzione dello spettatore rendendo ancora più stucchevole la narrazione già di per sé scontata fin dal primo minuto.
Assolutamente pessima, infine, la scelta del regista di utilizzare lo slow motion durante le sparatorie e le scene di lotta che diventano ridicole e mettono in luce i limiti della pellicola in quanto si nota chiaramente che le persone non vengono colpite dalle pallottole ma hanno dei sacchetti d’esplosivo sotto gli abiti, come accade in tutti i film del resto, ma al ralenty è tutto molto accentuato.
Buono il finale invece.

Un cult piccolo piccolo in definitiva, meritevole forse soltanto per l’appeal della Lindbergh con il suo look da vendicatrice e per essere il primo (credo) del suo genere.

martedì 23 settembre 2008

Totò che visse due volte

Daniele Ciprì e Franco Maresco sono due controversi registi siciliani del panorama italiano e dunque molto interessanti, almeno secondo i miei gusti.
Per farvi una vaga idea del loro stile e degli argomenti che affrontano vi basterà ricordare gli episodi di Cinico tv, quella serie proposta in Fuori Orario su rai 3 ambientata in una Sicilia mostruosa abitata da storpi e obesi, se non la ricordate c’è sempre Youtube che può darvi una mano.
Questo film è del 1998, tre anni prima il duo girò Lo zio di Brooklyn che ha in comune con Totò che visse due volte e Cinico TV l’ambientazione e la totale assenza di personaggi femminili, infatti le donne presenti sono uomini travestiti.

Il film è suddiviso in tre capitoli.

Nel primo si racconta la storia di Paletta (Marcello Miranda), lo scemo del villaggio preso a secchiate di piscio in faccia, frequentatore di cinema porno (il film si apre con un tizio che si monta un asino, tale scena è ripresa da Lo zio di Brooklyn) e povero in canna, che vede nell’arrivo in paese di una formidabile prostituta l’occasione per sfogare i suoi impulsi sessuali. Non avendo un soldo bucato il povero Paletta decide di rubare i valori di un’edicola religiosa costruita in onore della madre di un boss religioso. Ma mentre aspetta il proprio turno nell’anticamera della prostituta dei rapinatori irrompono nella stanza e derubano i clienti del loro denaro. Alla fine il boss mafioso scoprirà che è stato Paletta a rompere l’edicola e lo metterà al posto di Gesù Cristo all’interno di essa.

Nel secondo, che a mio parere è un piccolo gioiello, si assiste alla veglia funebre di Pitrinu, un omosessuale innamorato di Fefè, uno sdentato signore di mezza età che ha paura di recarsi al capezzale del compagno perché Bastiano, il fratello di Pitrinu, non ha mai accettato la relazione tra i due. Convinto da alcuni paesani, Fefè si reca in casa di Pitrinu e quando si trova dinanzi al morto partono dei flashback e si scopre che in realtà Fefè è un miserevole perché è uscito con Pitrinu solo per prendersi l’anello che portava al dito. E quando Bastiano si distrae Fefè sfila l’anello dal dito del morto e scappa portandosi via un pezzo di cacio.

L’ultimo capitolo è una rivisitazione sarcastica degli ultimi giorni di Gesù.
Un mafioso chiamato Don Totò scioglie nell’acido un uomo di nome Lazzaro. Per farlo resuscitare viene chiamato un burbero messia detto Totò che riesce a farlo rivivere, ma Lazzaro risorto inizia ad uccidere per vendetta i suoi sicari, così uno storpio (Giuda) arrabbiato per il fatto che Totò non lo curasse tradisce il suo maestro e lo consegna al mafioso Don Totò che lo scioglierà nell’acido.
Nel frattempo un angelo viene violentato da tre obesi e da un demente eccitato (copula con una gallina e la statua della Madonna) che finirà sulla croce insieme a Paletta e a Fefè.

Innanzi tutto qualche informazione tecnica: i dialoghi sono in siciliano stretto accompagnati da sottotitoli in italiano; alla vigilia della sua uscita nelle sale fu dichiarato “vietato a tutti” dalla censura, per poi essere sbloccato in appello, io vi assicuro che a parte il primo piano di un uomo che si masturba, ma è sempre un’inquadratura “sporcata” dal bianco e nero sgranato che caratterizza il film, non c’è nulla di così scandaloso. Certo vedere un uomo che tenta di far sesso con una statua della Madonna non è roba per bambini, ma trovo molto più diseducativo e violento, nel senso di violazione dell’intelligenza umana, Daniele Interrante ubriaco in Troppo belli (2005).
La peculiarità di Totò che visse due volte è l’ambientazione. I due registi hanno creato una Palermo mai vista: apocalittica e buia, diroccata e dispersa come le coscienze degli uomini che la abitano.
Nietzsche sarebbe andato a nozze con questo film. L’assenza di Dio trasuda dal comportamento degli uomini che si abbandonano ai piaceri istintivi quasi elusivamente sessuali. I vari personaggi sono brutti, sporchi, dementi, incapaci di risorgere e destinati a sprofondare sempre di più nel marciume che li circonda, l’ultima scena del secondo episodio è emblematica: Fefè ha rubato l’anello e nel letto di casa sua viene circondato da una marea di topi, quell’uomo merita di stare in una fogna.

La fotografia è meravigliosa, i giochi di luce e di buio sono sapientemente dosati, e anche la sala d’aspetto di un bordello sembra tremare sotto i colpi dei tuoni di un temporale.
C’è amara ironia, e anche un po’ di compiacimento, non lo metto in dubbio. Ma vale più un compiacimento del genere o quello di qualche merdata che mostra per il semplice gusto di mostrare?
Questo è cinema coraggioso che va incoraggiato.

lunedì 22 settembre 2008

Storie - Racconto incompleto di diversi viaggi

Per il suo sesto film Haneke sceglie la Francia e Juliette Binoche come protagonista che nel 2005, diretta sempre dal regista di Monaco di Baviera, reciterà in Caché (Niente da nascondere).
Sei anni dopo 71 Fragments of a Chronology of Chance (1994), Haneke ripropone un film spezzettato, suddiviso in brevi blocchi costituiti ognuno da un piano sequenza, escluse le scene in cui la Binoche recita “il film nel film”.

Un pallina di carta buttata addosso ad una mendicante è il punto di contatto tra diverse persone.
Anna (Juliette Binoche) è una giovane attrice che sta per sfondare nel cinema. Suo marito è un fotografo di guerra con un giovane fratello irrequieto stanco della vita in campagna.
Amadou è un insegnante di musica in una scuola per bambini sordomuti.
Marie è una donna rumena che si è recata in Francia piena di speranza ed è finita a mendicare all’angolo di una strada.

Il titolo originale del film è Code inconnu.
Il codice sconosciuto è quello di un portone ma anche quello tra un padre contadino e un figlio ribelle, tra un gruppo di bambini sordomuti e il resto del mondo, non per niente le ultime scene sono sottolineate da un continuo tambureggiare, spazzando ogni altro suono dalla scena, ricreando nelle orecchie dello spettatore quell’incomunicabilità che i personaggi stanno vivendo nello schermo: Marie che viene allontanata dal luogo dove elemosina e Georges che non riesce ad entrare in casa sua utilizzando il codice numerico.
Haneke mi mette sempre in difficoltà quando provo a commentare un suo film. C’è così tanto in questo Storie, dal razzismo ai legami di coppia, dal rapporto finzione/realtà che avrà un ruolo preponderante in Funny Games (1997) all’immigrazione, dalla comunicazione (nel film si contano 4 lingue diverse) alla freddezza della società, che è difficile analizzare il tutto, anche perché lo stile di Haneke non cambia, e tutti questi temi sono ripresi dalla mdp in maniera distaccata e indifferente.

Ad un occhio attento e inesperto potrebbe sembrare un film scollegato e privo di senso, il fatto è che per comprenderlo appieno bisogna aver visto anche gli altri film del regista a mio avviso.
Un po’ come ha fatto Lynch per INLAND EMPIRE (2006), Haneke annulla il divario tra la pellicola e chi la guarda, rendendoci spettatori di una realtà feroce come la situazione all’interno della metropolitana, per poi ricordarci attraverso il doppiaggio in sala prove di Anna che il cinema è finzione.
Come dicevo è la comunicazione, o meglio l’incomunicabilità, che più di ogni altra questione Haneke pone al centro dell’attenzione. Il linguaggio, verbale e non, come mezzo e non come strumento, la comunicazione per capire e capirsi, sembra così semplice e invece non lo è; d’altronde voi avete compreso cosa dice quella bambina sordomuta all’inizio e alla fine del film? No, vero? Beh nemmeno io, purtroppo non è così facile Capire…

Compratelo, scaricatelo, registratelo, noleggiatelo, insomma cercate in qualche modo di vederlo, ne vale la pena.

sabato 20 settembre 2008

I.D.A.


Quando il 14 febbraio del 2020 fu lanciato sul mercato l’ I.D.A., io avevo appena 13 anni.
A quel tempo il mondo era messo parecchio male, si portava dietro problemi vecchi come lui e il futuro non prometteva niente di buono.
Mia sorella comprò l’I.D.A. con i soldi che la nonna le aveva dato prima di morire, non disse niente ai nostri genitori perché mio padre non avrebbe approvato. Ricordo che quando aprì la scatola io me ne stavo a gambe incrociate sul letto mentre lei camminava nervosamente per la stanza leggendo le istruzioni ad alta voce. Chiedevo quale fosse il potere di quella scatoletta di plastica non più grande di un cellulare, mia sorella rispose che ero troppo piccolo per capire.
La stessa notte fui svegliato da un bagliore azzurro che proveniva dall’altro letto, in punta di piedi mi avvicinai a mia sorella che stringeva l’I.D.A. tra le mani mentre dormiva. Ricorderò per sempre il sorriso sul suo volto in quel momento perché fu l’inizio della fine.
A scuola i ragazzi più grandi ne parlavano come della più grande invenzione degli ultimi duecento anni, io provai a chiedere informazioni alla ragazza più carina della classe, visto che mi era sempre piaciuta mi sembrava un buon approccio. Rispose che se lo sarebbe comprato quel pomeriggio. Non la rividi mai più.
Come un’onda silenziosa l’I.D.A. entrò nelle case di tutto il mondo e quando si comprese la sua pericolosità era ormai troppo tardi.
La prima e ultima volta che lo usai fu all’età di 16 anni. Accadde ad una festa tra amici, mi dissero solo di stringerlo in mano prima di addormentarmi, il resto sarebbe venuto da se. Quella fu la notte più bella della mia vita.
Intanto mia sorella, come la maggior parte della popolazione mondiale, passava metà giornata a trovare un modo per stancarsi così da dormire per l’altra metà. Per usare l’I.D.A. le persone dimenticavano persino di mangiare, alcune morivano di notte stringendolo tra le mani. Mia sorella se ne andò quattro anni dopo, ormai pesava trenta chili e l’unica cosa che ingeriva erano sonniferi. I miei genitori non dissero nulla, anche loro ne erano diventati dipendenti.
Lentamente la Terra s’immobilizzò, non ci furono più guerre perché nessuno aveva più niente per cui combattere, il denaro perse il suo potere, i trasporti aerei, marittimi e stradali si arrestarono, le città piombarono in un buio illuminato da fievoli bagliori azzurrognoli accompagnati da flebili sospiri interrotti.
Le poche persone immuni si riunirono in piccole comunità sparse per il pianeta.
È qui che mi trovo in questo momento, dicono che in Africa la popolazione stia rinascendo, chissà forse è vero, io probabilmente non vedrò mai questo nuovo inizio. Ho 83 anni e se sono arrivato qui lo devo a me stesso, quella notte in cui provai l’I.D.A. ebbi la forza di non cadere nuovamente nella sua trappola. Ho scritto questa lettera per far sapere, se mai qualcuno la leggerà, di quanto era difficile la condizione dell’umanità al mio tempo. Allego qua sotto le istruzioni in modo che non ricapiti mai più una tragedia del genere.

LA HEARTS IN LOVE TI RINGRAZIA PER AVER SCELTO L’I.D.A. (Immobilizzatore D’Amore)
Il funzionamento dell’I.D.A. è molto semplice : grazie a studi complessi i nostri tecnici sono riusciti a creare dei particolari recettori che catturano gli impulsi sulle sinapsi diretti ai neuroni. Questi recettori, contenuti nella scatoletta blu, elaborano le informazioni che hanno “rubato” e le spediscono nel sistema talamo-corticale del nostro cervello, ossia il sistema di elaborazione delle informazioni periferia-corteccia, laddove risiede la nostra memoria.
Quindi poco prima di addormentarvi basta che voi pensiate ad un amore del passato, o un amore mai avuto, e stringendo fra le mani l’I.D.A. vi sembrerà di rivivere o di vivere per la prima volta, una stupenda storia d’amore.
Dimenticate giornate buie e tristi, scordatevi lo stress del lavoro.
State per entrare in una favola, buon viaggio.

AVVERTENZE: Un uso smisurato dell’I.D.A. può portare ad una dipendenza, in ogni caso gli effetti collaterali non sono particolarmente nocivi.

giovedì 18 settembre 2008

Torino centrale del vizio

Con Torino centrale del vizio (1977) termina il sodalizio tra Renato Polselli e Rita Calderoni, che qui avete potuto “apprezzare” in Nuda per Satana (1974) e Delirio caldo (1972) sempre diretta da Ralph Brown (Polselli), iniziato nel 1971 con il trucido horror La verità secondo satana.
La regia del film in questione è attribuita a Bruno Vani, ma fonti autorevolissime (wikipedia) lo danno come “uncredited” al nostro Renato, che comunque ha scritto sicuramente la sceneggiatura. In ogni caso la mano di Polselli si sente fin dal titolo, perchè così come in Casa dell’amore… la polizia interviene (1978) dove non si vede neanche l’ombra di uno sbirro, anche in Torino centrale del vizio il capoluogo piemontese, esclusa qualche panoramica della città, non c’entra un’emerita mazza, ed anche di vizi ne ho visti molto pochi.

Ehm… per la trama passo. Io con tutto l’impegno ci ho messo una settimana per vederlo, e la durata non supera l’ora e un quarto. Ho capito di una tizia che si chiama Hellen (Rita Calderoni) che viene ricattata da alcuni loschi figuri coinvolgendo anche il marito Mirco.
Ma la mia attendibilità è pari a zero quindi non fidatevi troppo.

Questo è un film brutto.
Ora si potrebbero fare distinzioni in questa categoria. Allora, citando alcuni film presenti in questo blog, il peggio del peggio per me sono Maniac Nurses (1990) e Le porno killers (1980), film tristemente vuoti. Un gradino sopra si collocano le trashate di Polselli e robe come La bestia in calore (1977), pellicole pessime, ma così pessime che fanno sorridere. Torino centrale del vizio si posiziona, a mio avviso, tra questi due raggruppamenti.
La confusione di Lynch, giusto per fare un esempio, è ordinata, calcolata, quella di Polselli è confusione e basta.
La linea che divide il passato dal presente è praticamente inesistente, confondendo lo spettatore che sin dai primi minuti deve sorbirsi una carrellata di flashback.
La storia d’amore non è resa per niente bene, non si capisce un cazzo! Sono sposati i due? Quando è successo? Si conoscevano da piccoli?

In più i dialoghi sono molti “ruvidi”, botta e risposta secchi senza profondità… ad un certo punto un poliziotto cita la legge del menga… mamma mia...
La Calderoni non mostra il suo lato migliore (le tette) e sfoggia una continua monoespressione, non è da meno il suo partner che ha un qualcosa di Little Tony dei tempi d’oro.
Il risultato finale è proprio povero, come fa notare la recensione del Davinotti si respira un’aria di scarsa professionalità davvero imbarazzante.

martedì 16 settembre 2008

La lezione di mamma

Il mondo del porno ha attraversato diverse ere.
Si è partiti da cortometraggi muti come Saffo e Priapo (1922) che potevano essere visionati soltanto da una ristretta cerchia di persone abbienti, e si è arrivati alla più recente frontiera della pornografia: l’amateur, per dirla nel linguaggio internettiano. In mezzo ci sono stati attori e attrici diventate vere e proprie icone del mondo hard, ma questo penso che lo sappiate bene.
La mia generazione è stata testimone del passaggio di consegne tra il pianeta scintillante e inarrivabile delle pellicole super curate, e quello degli home video girati anche con un semplice telefonino. Come la penso a riguardo l’ho già scritto in questo post, voglio solo sottolineare il fatto che attualmente, con le nuove tecnologie, siamo tutti dei potenziali attori porno. Roy Parsifal lo sa bene e per questo ci ha dato dentro con le produzioni amatoriali annoverando nei suoi cast tutti attori non professionisti, tralasciando ogni aspetto tecnico in favore della spontaneità e della naturalezza.
La trama è la seguente: la mamma cicciona sospetta di essere tradita dal suo consorte, in un dialogo degno di Tarantino apprendiamo che la sorella del marito ha bisogno di un idraulico. Cambio di scena ed ecco l’idraulico che smanetta coi tubi del lavandino, subito dopo farà sentire il tubo da due pollici (parole sue) alla sorella. Si ritorna in casa della mamma, la quale coglie sul fatto suo figlio e il suo amichetto spipettarsi sul divano con una rivista. Da buona madre gli ritira il giornalino e… si porte nella doccia i due tizi. Grazie a dio non succede quello che state pensando, ma di cose ne succedono, e una volta trasferitisi in massa sul divano, irrompe il padre infuriato che insulta la moglie per poi castigarla con un dildo; ma alla “disperata” richiesta di farlo venire, lei risponde andandosene: ”D’ora in poi mi farò scopare solo da tuo figlio.” Apperò! Infine sbuca una tizia mascherata, amica della mamma, che dopo le confessioni incestuose di quest’ultima ci va giù pesante con un fallo di gomma.

Che è amatoriale l’ho già detto, ma per capire bene cosa vuol dire bisogna vedere.
Come si sbandiera nei siti che vendono i dvd di Parsifal, l’audio è in diretta, ovvero non c’è un doppiaggio in post-produzione, così, per esempio, nella scena del bagno non si capisce nulla di ciò che dicono a causa del rimbombo e dello scrosciare della doccia. Poi ho idea che il regista non abbia scritto un copione ma abbia mandato gli attori in scena allo sbaraglio, giustappunto è da sottolineare la performance dell’amico del figlio che improvvisa dialoghi improbabili e tristissime battute con la mamma.
L’unica scena in cui si assiste ad un rapporto completo è quella tra l’idraulico e la sorella, la quale ha dei pelazzi sotto le ascelle che manco una contadina padana negli anni '60. Per il resto di scene erotiche il film è abbastanza avaro, la mamma si limita a rapporti orali o al massimo un po’ di svago con un dildo unito ad un mini-rapporto col marito, e meno male… questa donna raggiunge un grado di inchiavabilità stratosferico.
Qui c’è una clip, e attenzione ai cerchiolini rossi delle foto.

venerdì 12 settembre 2008

Cane di paglia

I cani di paglia accettano silenziosamente il proprio destino senza lamentarsi mai. A volte però i cani di paglia prendono fuoco. È questo il succo del film, tratto dal romanzo The Siege of Trencher’s Farm, diretto da Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio, 1969) ed interpretato da un grande Dustin Hoffman, alcuni affermano che questa sia la sua prova migliore, e dalla bella, ma anche brava, Susan George.

David è un matematico timido e impacciato che si reca insieme alla moglie Amy nel paesino inglese natio della consorte per studiare. Il paese è abitato da alcuni bifolchi tra cui un certo Charlie, vecchia conoscenza di Amy, che fin da subito ci prova con la suddetta. La quale, detto fra noi, non sembra schifare lo zoticone, anzi mostra tranquillamente il suo seno a Charlie e compagnia bella mentre aggiustano il tetto della baracca vicino alla casa della coppia.
Durante una finta battuta di caccia architettata per tenere David lontano da sua moglie, Charlie si intrufola nella casa per approfittare di Amy che non oppone tutta ‘sta resistenza, e non dirà nulla al marito dello stupro.
Una notte, dopo la festa patronale, la coppia si rimette in viaggio verso casa quando investe Henry, lo scemo del villaggio, che ha accidentalmente ucciso una ragazzina. David decide di portarlo a casa per curarlo, ma il gruppo di balordi vuole la testa di Henry e attacca la casa con ogni mezzo, fino alla resa dei conti finale.

“Homo homini lupus”. L’uomo è un lupo per l’uomo. Citazione latina che richiama concetti del Leviatano di Hobbes applicabili anche a questo film. Al di là di alcuni sotto-testi molto criticati perché colpevoli di essere fortemente fascisti e misogini, io l’ho trovato un film sul razzismo, e, attenzione, non un film razzista. Non credo fosse nelle intenzione di Peckinpah mostrare gli inglesi come un popolo ignorante e violento, d’altronde anche David, messo alle corde, sfodera una violenza inaudita. Inoltre è centrale la figura di Henry, lo scemo del paese. Il regista mette in scena quell’equazione tanto presente quanto sbagliata nella nostra società dove diverso = deviato (il discorso razzista di cui parlavo prima), e quindi ecco che Henry viene additato come un assassino mentre paradossalmente i veri assassini sono proprio quelli che lo incolpano.

Ma Cane di paglia è anche un film molto intimo che scava nelle relazioni umane, e spiccano indubbiamente le figure dei protagonisti ottimamente caratterizzate.
David è timido, goffo, smidollato, ma è un cane di paglia, appunto. Si rifugia nello studio piuttosto che affrontare il gruppo di bifolchi. Tra l’altro c’è un quesito a cui non viene dato risposta… chi ha impiccato il gatto? Secondo me è stato David stesso, ha approfittato della presenza degli operai per dare la colpa a loro e liberarsi del felino che lo infastidiva.
Amy è insoddisfatta del rapporto con David, lo si capisce quando mostra le tette dal bagno, e anche quando inizialmente accetta le avances di Charlie. E poi non dice nulla al marito dell’accaduto, e anche all’ultimo, asserragliati nella casa non ha fiducia in David ma addirittura tenta di aprire la porta a Charlie. Apparentemente angelica con quei capelli biondi, è, a mio modesto parere, il personaggio più cinico di tutto il film, magnificamente costruito ed interpretato.

Suggestiva l’immagine finale in cui David ed Henry in auto sono circondati dal buio e affermano entrambi di non sapere quale sia la strada da percorrere. Una specie di non-fine che allontana il matematico dalla strada dei numeri e della razionalità per quella dell’istinto e dell’aggressività, come una bestia, un cane insomma.

mercoledì 10 settembre 2008

Il cavaliere ferito


Riparto da qui.
Dalle mie parti direbbero che sono una chiacchiera, uno che dice e che poi non fa. Ma ho capito che chiudere un blog non risolve i problemi della vita vera, anzi il diario virtuale è una valvola di sfogo, un pungiball, il cielo contro cui urlare, il tavolo dove sbattere i pugni. Questo mi era già entrato nella zucca, forse un mese fa, preso dallo scoramento, lo avevo dimenticato.
Riparto da questa “poesia” (virgolette d’obbligo) scritta alla cazzo e con lo scazzo, un po’ gonfiata ma sostanzialmente vera, e chiedo umilmente scusa a Guccini se ho avuto l’ardire di rubargli alcuni versi.

La tempra per combattere l’ha sempre avuta,
masticatore amaro, silenzioso osservatore di vita vissuta,
indossa con velata disinvoltura
la sua argentea ma fragile armatura.
Sotto chili di metallo un profilo sottile,
sfregi sulla pelle come un’ammaccatura,
e un cuore grande d’animo gentile.

Ma anche lui soffre e si sente solo,
seppur cavaliere desidera spiccare il volo.
Forse è quella corazza che lo nasconde
come un’isola tra le onde,
difficile da farsi trovare
paura di farsi scoprire.

Aprirsi agli altri è stato difficile,
avere veri amici quasi impossibile.
Di donne alcune ne ha così tanto amato,
le altre sanno del vento appena passato.
Ma due l’ hanno segnato.
La prima nel buio lo ha tradito,
ma di questo ha già parlato.

La seconda per tre mesi lo ha ingannato,
da bugie e false promesse è stato stordito.
Piange ancora la vita da immaginare,
strappata dal grembo un giorno di Luglio,
il bambino che di un altro era il figlio.
E a lui venne fatto credere
di un’operazione ai reni o una stronzata del genere.
Un vile messaggio, smascherata, getta cenere sulla brace,
giustificazione sterile di un “giuro, mi dispiace”.

Il cavaliere non ha scordato perché è difficile dimenticare,
ci sono cicatrici e lividi che ancora fanno urlare.
Prova a tirare dritto per la sua strada in salita,
ma resta amara e indelebile la traccia aperta di OGNI ferita.



P.S. : un grazie sincero a chi in questo periodo di pausa mi ha sostenuto e spronato, anche se non vi conosco fisicamente e probabilmente non lo farò mai vi mando un forte abbraccio.
Ecco mi sono commosso :’(