venerdì 28 aprile 2023

Sweetgrass

Orfano della collega Verena Paravel, ma coadiuvato dalla consorte Ilisa Barbash, l’esordio (a dirla tutta IMDb segnala un precedente dal titolo In and Out of Africa, 1992) del cine-antropologo Lucien Castaing-Taylor ha residenza geografica nel Montana, precisamente in una zona chiamata Absaroka-Beartooth Wilderness al confine col Wyoming dove il regista filma quella che sarà l’ultima transumanza messa in atto dai pastori-cowboy del luogo. Opera dalla lunga gestazione (le prime riprese pare siano iniziate nel 2001), Sweetgrass (2009) è un documentario che per ragioni piuttosto inspiegabili definirei dal taglio europeo (di botto mi sovvengono i lavori di Christophe Farnarier), forse perché non è mai immediato associare gli Stati Uniti a contesti rurali, o forse perché oggetti del genere raramente sono arrivati dall’America, ed è inoltre un documentario buono per una serie di motivi che proverò a spiegare, anche se, giusto per dare un ordine di grandezza, non ce la fa ad essere un documentario ottimo perché il confronto col successivo Leviathan (2012) lo annichilisce sul campo della trascendenza. Sweetgrass è un film che è qui e non là, cioè espone la realtà che i registi sono andati a captare così come l’hanno vista con i loro occhi, a prescindere dagli assemblaggi post-produttivi il flusso ci arriva in forma piana, niente che un Geyrhalter di turno non riuscirebbe ad elaborare, manca un po’ quella spinta che riesce a trasformare il reale in qualcosa che lo supera, ciò comunque non leva nulla alla notevole qualità delle immagini, tanto che, ad esempio, il gregge in movimento, compatto, bianco, un fiume di lana e belati, regala una dose di immersione cinematografica a cui consiglio di abbandonarsi.

Se qualcuno non ha chiaro il ragionamento del sottoscritto posso fornire una prova empirica: perché dentro Sweetgrass c’è una piccola parentesi di deragliamento percettivo, accade verso il sessantesimo minuto con l’arrivo della notte, la risoluzione video si abbassa, il quadro si riempie di ombre, ovine o umane poco cambia, l’oscurità prende il largo e delle luci, di un fuoco o di una torcia, eruttano dal nero, in un campo lunghissimo l’attacco di un orso, non si vede l’animale ma solo le sue pupille al cospetto di un’altra costellazione mobile: quelle delle pecore, la scena, seppur ammantata nel buio, è abbastanza di facile lettura eppure la sensazione di oltrepassare una certa trincea razionale permane, non è un momento bensì IL momento che da umile spettatore bramo, Leviathan sarà praticamente tutto così, qui si ha soltanto questo segmento capace di strappare la cortina documentaristica, non è molto ma ci si può accontentare anche perché il resto si articola in un’impostazione ampiamente sufficiente che a lungo andare riesce perfino a toccare qualche sfumatura personale dei mandriani (divertente una telefonata con la madre lontana), oltre ovviamente a persistere nel cuore argomentativo nonché estetico della pellicola: la migrazione verso il pascolo estivo. Se vogliamo essere buoni la lenta traversata di valle in valle (ho letto di un viaggio lungo oltre duecento chilometri) ha una sua epicità (per un fattore congenito e perché non ce ne sarà un’altra dopo), la narrazione concreta, selvatica e diretta che ne risulta si riversa nel nostro recipiente, quello che chiediamo di riempire ad ogni nuova visione, senza tracimare.

martedì 25 aprile 2023

Single Belief

Avevo dimenticato che Lee Kang-sheng fosse anche un regista, così, alla luce di Single Belief (2016), sono andato a vedere cosa scrissi oltre dieci anni fa a proposito di The Missing (2003) e Help Me Eros (2007), e a parte il solito, terribile, imbarazzo nel rileggersi, ho notato che per parlare dei due film mi ero agganciato (forse anche in maniera un po’ forzata) ad altrettante opere coeve di Tsai Ming-liang. Adesso per questo corto non solo forzo, ma azzardo alla cieca. La mia ipotesi è la seguente: nel 2015 Tsai ha girato Afternoon, un documentario che non ho visto (da qui l’ardito collegamento) ma di cui ho letto parecchio, si tratta, in stretta sintesi, di un lavoro introspettivo dove il sommo regista taiwanese conversa con il fidato Lee del suo cinema. Magari sbaglierò, però a premesse del genere mi è venuto spontaneo considerare Single Belief un appendice di Afternoon, come se anche Kang-sheng avesse voluto compiere una riflessione su di sé e sul ruolo che per così tanto ha ricoperto. E infatti assistiamo ad un monologo che con divertente serietà guarda al passato, se ho ben compreso Lee si fa immortalare in un luogo di Taipei che nel tempo ha subito diverse trasformazioni e che per lui ha un significato affettivo nonché esistenziale: fu lì che la sua vita cambiò perché proprio lì Tsai filmò Rebels of the Neon God (1992), il Big Bang dell’universo tsaiano.

Credo sia impossibile visionare Single Belief (al pari delle altre fatiche di LK-s) e non pensare all’autorialità di Ming-liang, cioè è proprio istintivo: il cortometraggio inizia e c’è Lee da un barbiere che dorme sulla sedia, è un’immagine che trasuda tsaianità da ogni pixel, e anche nel prosieguo la linea visiva tallona le coordinate del Maestro, soprattutto le più recenti riguardanti il ciclo del monaco errante di Walker (2012) ed episodi successivi, ovvero porre un soggetto alieno dentro ad un ambiente reale (qua Lee, sempre immobile, sfoggia un invidiabile completo che possono mettere solo gli sposi o i gangster giapponesi). Si crea un contrasto, netto e ragionato, che in Single Belief sottende un senso autoriflessivo, un ragionare su di sé e sulla lunga carriera alle spalle, un certificarsi in quanto presenza fisica nella folla (/gli spettatori) che passa, incurante, appena appena incuriosita: esserci, ancora. E, nuovamente guardando all’arte del mentore nato in Malesia, Lee lancia un monito nel quale suggerisce di prendersela con calma, di gustarsi le cose, di non avere fretta, e lo dice con un’ironia che è un toccasana. Il cantare e suonarsela di Lee (“io sono Lee Kang-sheng e continuerò a camminare seguendo il mio ritmo”) è fatto di un’amabile leggerezza, la confessione cine-personale, importante in relazione alla porzione di storia contemporanea scritta da Tsai, è piacevole e nient’affatto vacua.

venerdì 21 aprile 2023

Casa Encantada

Dopo A Casa (2012) e Casa Manuel Vieira (2013), un altro titolo nella filmografia di Júlio Alves contiene la parola “casa”: Casa Encantada (2018). Eviterò di elencare le assonanze tra i tre lavori, riscontrabili ma non decisive, per individuare nell’opera più recente un notevole distacco formale rispetto alle altre due. L’Alves che ritroviamo qui osa come non aveva mai fatto in carriera perché si avvicina ad un taglio autoriale che scollina il documentario, rifacendosi a certi visioni che hanno introiettato i bagliori delle avanguardie, costruisce un film che ha una struttura ordinata, quasi matematica (blocchi di racconti personali intervallati da sequenze che riguardano Alves stesso), che però non si presta ad una lettura agevole, questo si deve allo scontro che si attua sullo schermo tra le immagini e la scrittura. Noi vediamo principalmente delle ambientazioni collegate ai luna park, e quindi luci colorate, montagne russe, giostre e via dicendo, mentre i commenti che le accompagnano (proferiti in lingue diverse) non lesinano storie difficili, d’infanzia complicata, o comunque, in generale, non viene meno una malinconia diffusa. La distanza che si crea è colmata dal nostro sguardo che si affida ad Alves, è infatti lui, all’inizio, ad affermare che incappando in alcuni giochi abbandonati in un bosco portoghese ha rispolverato dalla memoria una sua compagna di scuola che voleva fare la ballerina, e tale ricordo del regista sarà l’unico che si ripresenterà varie volte con tanto di attrice danzante all’interno del montaggio.

Data la tendenza nel maneggiare il passato, Casa Encantada ha un discreto feeling con l’unica altra pellicola di Alves che non ha case nel proprio nome: O Regresso (2012), la differenza che tuttavia intercorre tra le due proposte, ed è una differenza notevole, sta tutta nel metodo espositivo. Nel film del 2018 non c’è quell’immediatezza che ti fa intuire dell’immenso scorrere del Tempo, Alves appare maggiormente interessato agli aspetti estetici e alla sostenibilità che possiedono in relazione al comparto narrativo, azione legittima che però ha delle conseguenze. Girando intorno ad un unico macro-tema (il luna park), ogni voce che ascoltiamo va a ricadere lì con briciole di avvertibile forzatura, nulla di realmente insostenibile, lo voglio sottolineare, ma, come dire, pur avendo compreso (o abbastanza compreso) i contorni del progetto, non si viene trascinati dal flusso mnemonico, l’operazione nel complesso rimane piuttosto ancorata ad una dimensione laboratoriale dove il regista ha voluto sondare delle vie di trasmissione da lui inesplorate, quella – presumo – ricerca di mormorii ectoplasmici, di consessi d’altre vite, resta oltre uno spesso vetro che non permette di fare un reciproco passo avanti, vediamo cose belle, ma non riusciamo a sentirle.

martedì 18 aprile 2023

Cat Effekt

Era doveroso approfondire il duo Gustavo Jahn-Melissa Dullius dopo la visione dell’ottimo Muito Romântico (2016), e la prima produzione che si è stagliata dinanzi agli occhi del sottoscritto è stata Cat Effekt (2011), un mediometraggio girato a Mosca dove la coppia brasiliana, ad esclusione di una breve parentesi, non è presente in vesti attoriali, di contro viene seguita una ragazza nel suo girovagare per la capitale russa: freddo, metropolitana, tipo pelato minaccioso, amica/amante, altro tipo che legge un libro. Le similitudini con il film d’esordio si rintracciano nell’area formale, anche qui la tessitura del video è in costante deterioramento, graffi, sfarfallii, saturazione dei colori fino a virare in un negativo fotografico, inoltre sembrerebbe che ci sia una marcata manipolazione sonora, proprio che le voci dei soggetti sullo schermo siano leggermente fuori sincrono. Il nodo da sciogliere e che va affrontato subito è che se in Muito Romântico il dispositivo estetico era parte integrante di un tutto dotato di una rimarchevole grandezza, in Cat Effekt le cose non assurgono ad altezze roboanti ma stanno lì, in una zona di autoreferenzialità artistica, in sostanza dello spettatore non gliene frega un bel niente, la sua natura indisciplinata e anarcoide non consente alcuna lettura razionale, è “solo” un cristallo di cinema che rifrange una luce a volte abbacinante, a volte oscura.

Quindi, non proverò a dare un senso (alzo il dito solo per il ragazzo con il libro, ciò che sta leggendo è il film stesso?), preferisco mettermi buono buono nella scia di immagini che Jahn & Dullius costruiscono intorno alla donna, un mosaico che sa di sogno (un passante a caso urla “sveglia!” come il cowboy di Mulholland Drive, 2001) perché un’impostazione del genere, così stralunata, così incorporea, pare provenire, e/o dirigersi, in una dimensione onirica, e l’impressione si accentua per una serie di reiterazioni, di scene gemelle che si ripetono in un loop lisergico. La disintegrazione di una narrazione canonica è assolutamente ben accetta, il non voler raccontare nulla pur arrivando, inevitabilmente, a raccontare lo è ancora di più, perché si manifesta un’efficacia che rovescia i parametri del comune fruire, i registi potevano fare un film con una protagonista in cerca di se stessa nella grande metropoli moscovita, circondata da personaggi un filo inquietanti, impelagata in una vuota quotidianità, e in effetti hanno fatto proprio questo, solo che non si sono serviti di una banale addizione algebrica ma hanno sconquassato l’etichetta giungendo comunque ad un risultato che, se trova terreno fertile in chi guarda, apertura, voglia di misurarsi con l’alterità, lascia dei residui su cui riflettere, non tanto sull’opera in sé quanto sul metodo che la forgia.

giovedì 13 aprile 2023

Zafir

Il primo cortometraggio di Omar El Zohairy non annovera quell’atmosfera grottesca che invece caratterizzerà il successivo The Aftermath of the Inauguration of the Public Toilet at Kilometer 375 (2014), peccato, un po’ ci speravo che Zafir (2011) avesse non dico un’identica tessitura globale ma almeno che presentasse dei semi pronti – in teoria – a germogliare, invece dobbiamo raffrontarci con un lavoro che vive nella consuetudine di giovani registi con mire autoriali. Non vorrei apparire un appassionato col nasino all’insù, e infatti non mi permetto di mettere in discussione la professionalità dell’egiziano che, sempre entro i confini della situazione, è assolutamente accettabile, sottolineo, “soltanto”, la scelta di rimanere in un recinto dalla base e (per buona parte) dallo sviluppo, piuttosto derivativi. Questo bozzetto di umana e senile solitudine funziona al massimo se lo si guarda con occhi che non chiedono troppo a papà-cinema, altrimenti è proprio arduo abbassare il freno per lasciarsi andare all’entusiasmo. L’ho ripetuto miliardi di volte, non è mai, in un oggetto narrativo, cosa viene raccontato (ché un catetere staccato è un’immagine che implica tutta una mestizia e una rassegnazione dietro mica da ridere), bensì il come, lo sanno anche i muri però non mi dispiace ribadire un concetto a dir poco fondamentale.

E comunque Zafir un minuscolo pregio ce l’ha, ed è ubicato nella sceneggiatura. Vedendo le amorevoli cure dell’anziano marito nei riguardi della moglie disabile, mi sono venuti in mente altri film che proponevano la storia problematica di un rapporto coniugale in età avanzata, non molti a dir la verità, ma sicuramente almeno tre: un corticino cipriota dal titolo Dead End (2013), un lungometraggio islandese (Volcano, 2011) e un’opera asciutta e rigorosa come Amour (2012), ebbene, tale triade ha in comune la scelta di concludersi con un atto funereo (ed è di dominio pubblico il fatto che Rúnarsson e Haneke abbiano usato il medesimo escamotage per la catarsi luttuosa), una tendenza che vuole creare shock nello spettatore e che il sottoscritto, soprattutto crescendo invecchiando, non riesce a digerire. Per cui temevo che anche El Zohairy si accodasse al trend, c’erano i presupposti per dare al preambolo un gratuito scioglimento mortuario, giuro, me lo sono aspettato fino all’ultima ripresa di spalle dell’uomo, invece mi sbagliavo, per fortuna quella che potrebbe essere definita una tensione non ha sfogo, o perlomeno non ce l’ha sullo schermo, il che vale al regista nato al Cairo una mini medaglia che gli appunto al petto, da lui, ora, attendo qualcosa di più sostanzioso.

sabato 8 aprile 2023

The Seen and Unseen

C’è tutta l’alterità di cui avrete bisogno in Sekala Niskala (2017), nello specifico un’alterità orientale che, scendendo ulteriormente nel dettaglio, si circoscrive nell’area sud-est asiatica. L’Indonesia del film, che potrebbe essere tranquillamente la Thailandia, la Cambogia o il Vietnam, corrisponde all’idea che noi occidentali ci siamo fatti di questi paesi attraverso il cinema, quindi anche per la regista Kamila Andini lo scenario bucolico è importante, non Giacarta ma un villaggio dell’entroterra dove poter fornire, tra le altre cose, anche un ritratto di indigenza, poi, inevitabile, la proposta folkloristica con riti e credenze locali volta a suggerirci l’importanza della dimensione spirituale per la popolazione sotto esame, altrettanto inevitabile è inoltre l’apertura di brecce esplicitamente surreali e/o oniriche a cui si coniuga l’utilizzo di simboli (le uova) e metafore (già il titolo lo è: il visto e il non visto come i due gemellini). La Andini deve aver studiato a fondo il cinema dei suoi colleghi maggiormente rinomati perché The Seen and Unseen ha la richiesta autorialità per far colpo sulle giurie festivaliere in giro per il mondo (e in effetti si è messa in saccoccia un paio di premi, uno anche a Berlino), esteticamente si fregia di parentesi notturne dove prendono corpo le faglie visionarie, buie, al limite del perscrutabile (… e con un nome così ci sta anche), ma d’atmosfera, con perfino delle punte di brivido (le apparizioni coreografiche dei bambini), in più la decisione di scomporre l’ordine cronologico degli eventi unita al dilemma su ciò che è sogno e ciò che non lo è amplifica la sensazione di seducente stordimento.

A fronte degli aspetti sopra elencati che è difficile non considerare come positivi, il lavoro della Andini non mi ha persuaso in toto. Di opere indonesiane, se non erro, ne ho viste solo due, questa e Another Trip to the Moon (2015), casualmente, sebbene stiamo parlando di oggetti abbastanza diversi, per entrambi vale un po’ il discorso che tocca il passato cinefilo di noi spettatori. Se si è a digiuno di proiezioni dall’impostazione assimilabile a Sekala Niskala allora è probabile che la mia riflessione non abbia senso di esistere, se invece è già maturata una certa esperienza nell’ambito di riferimento è complicato lasciarsi andare ad elogi sperticati. Vorrei entrare nella questione per me fondamentale: l’alterità citata all’inizio. È incontrovertibile che essa ci sia e che funzioni da cuore palpitante della storia, mi chiedo però se la cornice esotica, ritualista, incorporea, in una parola banalizzante: diversa, a furia di ripresentarsi nel cinema contemporaneo non stia perdendo la posizione antitetica alla nostra, cioè è ancora un momento altro-da-noi l’assistere a pellicole del genere? Non discuto la fattualità del concreto, camminare in un tempio pullulante di scimmiette non sarà mai uguale al passeggiare nel silenzio di una chiesa rinascimentale, parlo di settima arte, delle modalità con cui la si vive e dei sentimenti che ne scaturiscono, e seguendo tale ragionamento in The Seen and Unseen mi è sembrato che un pilota automatico ne guidasse l’incedere verso un intero confezionato ad hoc per l’Occidente, sotto la fantasia e l’originalità mi si è profilato uno schema, un adagiarsi su elementi già esplorati nel passato recente. Non so, sarebbe arricchente se da qui ne nascesse un contraddittorio, dieci anni fa sarebbe successo. Che nostalgia.

martedì 4 aprile 2023

Violence Voyager

Allora, io ci ho messo la buona volontà che possiedo, ma l’auspicio con il quale chiudevo il commento di The Burning Buddha Man (2013) non ha trovato riscontro in Baiorensu boijâ (2018), una mia conversione alla gekianimation è totalmente impossibile, non ce la faccio proprio a sintonizzarmi su queste frequenze, il recente lavoro di Ujicha, nonostante i cinque anni di differenza dal titolo precedente, non annovera nessuna innovazione di rilievo, di nuovo è tutto inequivocabilmente, indubitabilmente fermo, statico, macchinoso fino alla morte, dello spettatore costretto a confrontarsi con una forma d’arte che proprio non va. Potrei fare un copia e incolla dei difetti già riscontati, e lo farò perché non trovo granché da dire: le sequenze che richiedono maggiore dinamicità, come le colluttazioni, sono al di sotto della soglia di guardabilità, dài, con il rispetto che si può avere per qualunque proposta artistica, quella del regista giapponese, quando deve spingere sull’acceleratore (e per sua sfortuna lo fa spesso essendoci nel film svariate zuffe) diventa impresentabile, al pari dei disegni che sottolineano le espressioni facciali dei personaggi, santo cielo no, non va bene. Capisco l’artigianalità che sottende il progetto e che è esplicitamente riportata nel film, del resto mostrare i meccanismi produttivi non è certo una rarità nel mondo dell’animazione, però in termini di resa globale tra le opere di Ujicha e un corrispettivo oggetto girato in stop motion, di qualunque tipo o nazionalità, c’è un divario abissale.

A livello tramico le cose subiscono una semplificazione, il che parrebbe un dato migliorativo ma... non è così. Almeno in The Burning Buddha Man nel delirio che mescolava sacro e profano ci si “divertiva” a vedere quali fossero le fantasiose soluzioni adottate dal regista nel modellare il design degli innumerevoli protagonisti, qui, con una partenza dagli echi kinghiani (dei ragazzini all’avventura che finiscono in un misterioso parco giochi), si finisce a ricalcare una robetta di serie z con il mad doctor di turno e le sue mire pazzoidi. Sorvolo sul fatto che le strutture delle due pellicole sono identiche, ambedue si concludono con un blitz del buono trasformato nell’antro del cattivo, e, anche se non lo vorrei, mi concentro su Violence Voyager: spiacente, non riesco a salvare nulla, il film non funziona né se lo si legge nel suo dispiegarsi narrativo perché è una roba, senza offesa, da fumetto un tanto al chilo, né se lo si interpreta da una prospettiva parodistica e/o citazionistica perché si prende troppo sul serio, magari con qualche innervatura d’ironia la nave non sarebbe andata a picco. Che l’atmosfera para-violenta, sordida (ci sono dei bambini uccisi di mezzo), infarcita di parentesi splatter e schifezze assortite (ancora una particolare cura verso vomito et similia) possa venire erta dagli ammiratori di Ujicha a sua difesa, è un atto che ha il sapore del mezzuccio, d’altronde la vecchia regola aurea è: più si esibisce e più si scade nella gratuità, se qualcuno ha apprezzato io alzo le mani, per me è solo un brutto pasticcio.