sabato 28 maggio 2011

Down by Love

Éva, giovane illustratrice, torna nel suo appartamento di Budapest dopo una splendida vacanza a Venezia (non aveva mai visto il mare!) con il suo amante scrittore e professore, nonché padre adottivo, Tibor. Qui iniziano i problemi, tra un passato che ribussa alla porta, inganni, e amori piccoli creduti grandi.

Gli autori ungheresi contemporanei come György Pálfi o Kornél Mundruczó, e non sto nemmeno a citare Béla Tarr, sono irrimediabilmente lontani da questo regista di nome Tamás Sas, magiaro anch’esso, di cui in rete sono rintracciabili pochissime informazioni: nato nel ’57, attivo nel mondo del cinema dal 1986, con una manciata di film alle spalle tra cui alcuni episodi di una serie tv.
Se la tracimante fantasia e classe registica dei suoi compatrioti oggettivamente manca a Sas, gli va comunque riconosciuto un certo coraggio nel proporre un film come Down by Love (2003). Questo perché la strutturazione della pellicola è tutta concentrata all’interno del piccolo appartamento di Éva, e lo sguardo su di lei si fa ipocentro di una storia atipica dove tutti gli altri personaggi sono tali soltanto dall’altro capo del filo telefonico, da dietro un vetro smerigliato o al massimo se colti di schiena.
Con una pesantissima spada di Damocle che risponde al nome di Repulsion (1965), il regista trasforma il film, o almeno vorrebbe farlo, in una seduta psicanalitica che mette a nudo la personalità della protagonista attraverso un colloquio interno, intimo, esperienziale, in un viaggio ai bordi di una claustrofobica follia generata dall’amore o da un claustrofobico amore generato dalla follia, come dir si voglia.

Il meccanismo risulta però difettoso già dopo 15 minuti di girato. Nonostante l’impegno dell’attrice Patricia Kovács che non sarà Catherine Deneuve ma che si difende con dignità, il peso dell’opera di cui si fa carico è insostenibile, e così la progressione drammatica che nei fatti non sarà tale (è poco un abbassamento delle luci nel dispiegamento della trama) si incaglia in una stasi filmica a tratti insopportabile. La storia non è che fatica a decollare, non parte proprio! Non coinvolge, non risucchia, non assorbe, il massimo del dinamismo è vedere Éva rispondere al cellulare o preparare da mangiare, tanto che l’atroce atto conclusivo frutto del percorso che la porta ad uno sgretolamento sentimentale si vive con una certa indifferenza. Bella l’entrata in scena di tutti gli attori di cui fino a quel momento avevamo solo sentito la voce o al massimo visto l’ombra, ma è troppo poco e troppo tardi.

sabato 21 maggio 2011

Pleasure Factory

Una musichetta così simile a quelle che tanto ama Tsai Ming-liang – sarà deformazione da cine-blogger ma giurerei che una scena del film sia accompagnata dalla stessa melodia cantata in Face (2009) da Laetitia Casta – solleva il sipario su uno dei luoghi in cui come recita il plot di IMDb ci sono persone che cercano piacere e altre che lo danno. Non siamo nel Red Light District di Amsterdam ma a Geylang, sobborgo di Singapore, un tempo luogo centrale per la coltivazione del cocco e oggi ombelico del mondo (marcio) della prostituzione asiatica.

Se nello score ho rintracciato qualche reminiscenza tsaiana, beh, anche nei contenuti si potrebbe ritrovare una simile non-poetica di fondo. Le basi su cui il regista Ekachai Uekrongtham (thailandese, e non poteva essere altrimenti con un nome del genere) edifica il film poggiano sull’ennesimo ritratto di uomini solitari all’interno di fagocitanti contesti urbani. Poi c’è indubbiamente l’attenzione nel mettere in mostra il lavoro delle ragazze, a tratti si naufraga nella denuncia sociale con delle pseudo interviste ai protagonisti, tuttavia è mia opinione che chi va con una prostituta sia essenzialmente una persona sola, ed anche le suddette meretrici dubito che navighino in un mare di salda amicizia, quindi sì, ok far vedere il ghetto, i vicoli luridi, le donne schierate in fila per essere scelte, la rassegnazione delle più anziane, il terrore di quelle più giovani, va bene tutto, ciononostante il film si allinea al trend asiatico degli ultimi anni forgiando la sua tesi su una materia prima inconfondibile: l’emarginazione, l’esclusione, in una parola la solitudine.

Le assonanze con Tsai si fermano qua, comunque. La tecnica registica non si sposa granché con la profondità visiva del maestro taiwanese. Sebbene vi siano lunghi momenti di silenzio la mdp non ha focalmente delle traiettorie geometriche particolari poiché il taglio dato è alla ricerca del realismo con aggressioni costanti nei confronti dei soggetti ripresi che annientano lo spazio circostante.
Nello specifico abbiamo tre istantanee dedite a narrarci la realtà di Geylang in una coralità anticonvenzionale: la prima situazione vede una debuttante accolta sotto l’ala protettrice di una collega esperta, la seconda un giovane alle prese con l’ansia della prima volta e la terza con un menestrello prima intimorito e poi tranquillizzato da una donna di strada nella sua camera. È con questa triplice visione che la pellicola perde smalto perché a mio avviso da un lato ci vengono mostrate circostanze prevedibili (la ragazzina che non vuole avere rapporti col vecchio, la nostalgia per la figlia lontana e in generale le dinamiche relative alla “compravendita”), mentre dall’altro il nascere quasi spontaneo di amori impossibili fra la battona e il cliente risulta poco credibile vista l’aderenza alla realtà ricercata dal regista.

Questa sballata rappresentazione del sesso che pare trasformarsi con poca avvedutezza in qualcosa di più, non preclude ad ogni modo la possibilità di assistere a sequenze di buon cinema soprattutto durante i rapporti sessuali che sprigionano spontaneità molto intensa.

domenica 15 maggio 2011

Mr. Satan


Dumont e/è il diavolo.

giovedì 12 maggio 2011

Sebastiane

Anacronismo: intorno all’imperatore Diocleziano si consuma un psichedelico balletto-orgia in versione quasi pop (i piselloni di plastica dalle rimembranze kubrickiane) a cui prende parte anche il soldato Sebastiane, ma a causa della sua fede cristiana viene esiliato su un’isola desert(ic)a insieme ad altri commilitoni. Cronistoria: in questa landa desolata il gruppo di soldati comandati dal biondo Severus passa le giornate a inscenare battaglie, rincorrere porcellini e curare il proprio corpo. Intanto il capitano si infatua di Sebastiane che però non si vuole concedere. Debutto datato 1976 di Derek Jarman, outsider del cinema inglese che forse conoscerete per il suo film testamento Blue (1993), una schermata blu, musica, e una voce, la sua: l’unica cosa che l’Aids non gli aveva tolto. Gay dichiarato in una forma di outing dai contorni artistici, in questo film le presenze femminili sono ridotte al baccanale iniziale, fastosità lussuriosa pagana dove non c’è posto per la religione. Cambio scena e ci ritroviamo nelle aride terre di un’isola tutta arbusti e dune (nei fatti è la Sardegna, selvaggia, rocciosa, una meraviglia) dove gli uomini vivono un paradiso infernale di noia e attrazione più o meno velata. Jarman si disinteressa della storicità e dell’attinenza ai fatti che ricalca per sommi capi, il suo volere è quello di destabilizzare. Prima di tutto l’udito con una recitazione totalmente in latino, successivamente l’occhio tramite l’esibizione continua di glutei marmorei e addominali scolpiti, per giungere infine all’obiettivo principe correlato all’epoca in cui il film uscì, quello di svestire il perbenismo della società del tempo in un processo di critica alla contemporaneità attuata grazie ad una rivisitazione a-storica della biografia di San Sebastiano. 
 
L’intento concettuale è lodevole, quello più pragmatico vede invece una pellicola che davvero non ha la forza per raccontare qualcosa di interessante. Il girare a vuoto dei soldati è un parallelo azzeccato della vicenda in sé. La scrittura è volutamente assente per essere sovrastata dai parossistici ralenti che toccano (forse anche qui volutamente) punte di ingenuità: il soldato sotto la doccia, altri due che amoreggiano in un laghetto. Fino al martirio conclusivo in qui lo slow motion ha un suo senso d’essere poiché si pone in antitesi alla sinuosità dei corpi precedentemente ripresi, poi una soggettiva grandangolare focalmente deformata e titoli di coda su sfondo blu (!). Non un esempio di cinema di cui andare orgogliosi, piuttosto un cinema dell’orgoglio.

domenica 8 maggio 2011

Fior(d)i


Chi è Susanne Sundfør? Non lo so.
Viene dalla Norvegia e ha un quarto di secolo. Ha inciso The Brothel (2010), secondo album che ci dice un sacco di cose, dai suoni diseguali e qua e là perfino commerciali, alle improvvise aggressioni elettr(on)iche, e sopra tutto, a far da collante, le sue elfiche corde vocali.

lunedì 2 maggio 2011

Jesus Christ Savior

L’indimenticabile prologo di Kinski, il mio nemico più caro (1999) mostrava l’attore tedesco urlare di Gesù e della fede da un palcoscenico immerso nell’oscurità. Cosa ci faceva lì? Perché un uomo come lui parlava (a modo suo) di religione di fronte ad un pubblico pronto a beccarlo ogni cinque minuti? Peter Geyer, il regista di questo documentario, riprende fedelmente il filmato d’epoca relativo allo spettacolo di Kinski e lo ripropone intervallandolo a delle scritte sullo schermo.
Tuttavia questo è un documentario atipico perché non ha praticamente nulla di esplicativo; c’è solo una telecamera puntata dal basso verso l’alto su un uomo che parla, stop. Nient’altro. Allora più che un documentario in senso stretto ci troviamo di fronte ad un documento storico che si forgia su una materia prima dura come il cemento: Klaus Kinski.
Ha un che di cinematograficamente metaforico lo scenario in cui vive questo film, esiste l’uomo-cinema Kinski che viene ascoltato (/insultato) da una platea di uomini-spettatori, ma la luce è tutta per l’istrionico Klaus che da buon egocentrico patologico non vuole e non può dividere il palco con nessuno. D’altronde anche nella sua carriera (almeno quella legata a Herzog) grazie all’incredibile carisma era capace di prendersi la scena e spostare tutto il resto sullo sfondo.

Cosa resta perciò di Jesus Christus Erlöser? Il ritratto di un attore ai margini dello star system – notevoli le inquadrature da lontano che rendono Kinski una stellina solitaria nel buio profondo –, o il semplice delirio di un uomo che si credeva una specie di ultimo apostolo? Fa effetto pensare a Kinski come il tramite del verbo divino, eppure fanno altrettanto effetto le sottolineature da esso poste e ahimè sempre recenti alle ipocrisie del sistema ecclesiastico. Era pazzo Kinski? Che banalità pensarlo e dirlo, sarà che molto spesso siamo troppo normali e banali noi.