venerdì 27 febbraio 2009

Il re delle mosche

Dylan Dog ha un ruolo di primo piano nella mia formazione. Più di interminabili ore passate tra i banchi di scuola e forse anche più di vuote discussioni con i miei coetanei e/o parenti.
Il fumetto ideato da Tiziano Sclavi mi ha fatto sognare per molti anni: il primo numero che ho letto è stato La morte rossa, un albo non eccezionale, ma fortunatamente per me il numero successivo era Il cuore di Johnny, sequel mai troppo amato di una delle pietre miliari della serie: Johnny Freak. Così iniziai a ritroso un percorso che mi portò nei sentieri dell’incubo fino alle sue origini con L’alba dei morti viventi, e non appagato recuperai gli inediti con enorme entusiasmo e un’irrefrenabile voglia di leggere Dylan Dog.

Poi è successo qualcosa.
Sclavi stesso, nella toccante lettera d’accompagnamento di Xabaras!, il primo del doppio numero celebrativo del ventennale, dice in sostanza che in tutto questo tempo non è Dylan ad essere cambiato, ma noi lettori. Magari un tempo giovani ribelli e adesso ragionieri un po’ pelati.
Sarà, ma non è solo questo.
Faccio un esempio: qui sul blog l’ultima storia che ho commentato è stata La condanna di Casper, apparsa quasi un anno fa. In questi dodici mesi non ho smesso di comprare Dyd, semplicemente non ero stimolato a nessuna riflessione, lentamente mi sono disamorato.
Anche se sono “cambiato”, credo di essere in grado di decidere se oggettivamente una storia è buona o meno. E purtroppo, nell’ultimo anno, non ho letto una, che sia UNA, storia degna di portare quel nome stampato sulla copertina.
Con la lontananza di Paola Barbato la serie è passata nelle mani di nuovi sceneggiatori che, a mio avviso, non sono riusciti a dare una propria “impronta” al personaggio, riducendolo ad una sbiadita copia di quel che era.

Ahimè, Il re delle mosche, opera quarta sulla serie regolare di Giovanni Di Gregorio, è un albo come quelli che l’hanno preceduto negli ultimi mesi: opaco. Non è illeggibile per carità, però è tutto così poco… intrigante. Il ribaltamento dei ruoli credo sia uno degli stratagemmi più usati all'interno della testata, la sequenza onirica non basta come indizio per trovare la chiave dell’inghippo perché troppo slegata dal contesto, ma soprattutto non è chiaro il messaggio dell’autore, se mai ce ne fosse uno. È un attacco ai baroni universitari? Un’analisi delle abissalità umane? Non lo so, e la cosa più grave è che non mi interessa saperlo.
Piccatto ha intrapreso un percorso stilistico molto particolare. Piace o non piace. A me non piace.
Lo ammetto, ormai compro questo fumetto solo per collezione, ma non so fino a che punto potrò andare avanti.

martedì 24 febbraio 2009

Ferro 3 - La casa vuota

Quanto mi piacerebbe possedere un linguaggio forbito e appropriato per spiegare, o almeno provarci, che cosa sia questo film di Kim Ki-duk. Invece, ogni mia sensazione, è riassunta in una sola parola che riesce, al contempo, sia a sminuirlo, perché Ferro 3 è un oceano di spunti e riflessioni, che a rendergli giustizia: capolavoro. Perché è questo, perché è geniale, perché È.
Bin-jip è un qualcosa che sta sopra, che appartiene ad una realtà eterea fatta di silenzi infiniti ma mai noiosi o stancanti. Il legame fra Tae-Suk e Sun-Hwa si cementa in quest’atmosfera muta, priva di parole ma non di emozioni, perché il dialogo a volte è superfluo, può bastare un gesto, uno sguardo.
E forse Kim Ki-duk riesce a trascendere queste cose così materiali, cogliendo l’essenza profonda e intima dell’amore, spoglio di ogni frivolezza, banalità, chiacchiera. Un’ essenza mistica, quasi religiosa, che ha come cifra caratteristica l’eternità. Anche se il film racconta solo una porzione della vita di quell’uomo e quella donna, si riesce a comprendere come il loro sentimento travalichi le barriere di una prigione per lui, e della sua casa per lei. Ma anche gli ostacoli della realtà come un marito possessivo e violento, o la polizia corrotta e ancora più violenta.

Brilla, d’una propria luce, il personaggio di Tae-Suk.
Non sappiamo niente di lui: chi è? Quanti anni ha? Si sa solo che vive nelle case degli altri. Ma non è un ladro, o un assassino. Tutt’altro, in questi “soggiorni” si occupa della casa bagnando le piante o facendo il bucato. Poi, al rientro della famiglia, sparisce. In silenzio, come un fantasma.
Ma risplende anche la dolce Sun-Hwa.
Una modella che ha tutto ma è come se non avesse niente. Il marito, nel volerla, la prosciuga, la inaridisce, lasciandole soltanto lividi violacei che segnano il suo viso.

Come abbia fatto Kim Ki-duk a creare una storia d’amore così profonda senza che i due protagonisti parlino mai tra di loro, è un magico mistero.
Il cinema orientale ha regalato negli ultimi anni perle di rara bellezza, lasciando in eredità ai posteri un patrimonio culturale immenso che scriverà un capitolo fondamentale nella Storia del cinema.
Ferro 3 – La casa vuota rappresenta, a mio parere, una meravigliosa sintesi delle due facce che compongono questo modo di fare cinema. Da una parte una qualità estetica sublime che nella sua estrema semplicità “trasuda” raffinatezza da ogni singolo fotogramma. Cito soltanto la scena conclusiva dell’abbraccio perché è la più potente, ma ce ne sono molte altre degne di nota.
La seconda faccia è quella dei segni e dei simboli che rimandano a “qualcos’altro” spingendo lo spettatore all’interpretazione. A partire dal titolo, quel Ferro 3 altro non è che una mazza da golf, la meno usata per essere precisi. Ebbene, l’intero film può essere una metafora di un “green”, con i suoi ostacoli e le sue buche. La mazza diviene il mezzo attraverso il quale Tae-Suk arriva con grande fatica all’ultima buca, ovvero Sun-Hwa.

Da ricordare nei secoli l'ultima inquadratura: i due protagonisti sono sopra una bilancia, la mdp stringe sui loro piedi. Forse molti non se ne sono accorti, ma l’ago della bilancia segna lo zero. Insieme, non pesano niente: sono leggeri, sono innamorati.
Capolavoro cristallino, applausi a non finire.

sabato 21 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button

Eh.
No dico, ma cosa posso scrivere su un film candidato a 13 premi Oscar?
Che ha una locandina americana fichissima, quello sicuro.
L’idea che sorregge il film, tratta da un racconto (breve) di Fitzgerald, è un’idea della madonna e di tutti i cerchi concentrici del paradiso comprese le trombe degli angeli e le chiavi di san pietro: un uomo che nasce vecchio e che crescendo ringiovanisce. Splendido, roba che ti fa riconciliare con la vita.
Ma manco ho voglia di starci sopra tanto.
La regia di Fincher è impeccabile, la fotografia è squisita con alcune chicche virate seppia come la storiella dell’orologio o dell’uomo dei fulmini, roba da puro godimento. È cazzuta pure la scena di guerra navale, in un film in cui la guerra è solo un contorno.
E parliamo di Fincher, sì parliamone.
Ok Seven, ok Fight club, ok The game, ok Panic room ma Zodiac, ah Zodiac! È il suo film più coraggioso. E dico subito perché: perchè manda al diavolo gli stilemi hollywoodiani. Il killer Zodiac rimane senza un volto. E poi è lento, quasi privo di azione, silenzioso. Non sembra un film americano.
“Maccheccazzo – direte voi – mica è Zodiac sto Benjamin Button”. Abbiate fede, miscredenti. Volevo sottolineare che Zodiac è una mosca bianca nella filmografia di Fincher, mentre Il curioso caso di Benjamin Button scorre sugli stessi binari delle sue (diverse) opere precedenti. Qui è tutto…tutto! Tutti sono belli, tutte le persone incontrate da Benjamin sono buone, il padre ritorna dopo averlo abbandonato, Daisy è l’amore che coltiva fin da bambino (anziano), tutto è perfetto nella sua vita imperfetta!
Però funziona a meraviglia.
E quando Daisy culla quel neonato che è anche il padre di sua figlia, e l’amore della sua vita, mi si è inumidito il ciglio mannaggia a Eric Roth.
Al di là di ogni buonismo-patriottismo-forrestgumpismo americano, le quasi tre ore di proiezione passano via che è un piacere.
Fincher sarà contento di sapere che è entrato nelle mie grazie, mica è da tutti per un film così mainstream. Aspetto una sua chiamata per ringraziarmi.

venerdì 20 febbraio 2009

Invincibile

“I miei personaggi sembrano degli outsider, ma è il resto ad essere outsider.”
Così parlò Werner Herzog.
Quanto mi piace iniziare con una citazione, mi dà un tono! Che poi, detto tra noi, l’ho scopiazzata dall’amica Wiki, però non ditelo troppo in giro che mi si rovina la reputazione.
Anche se, a ben vedere, questa frase non c’entra molto con Invincibile. Cioè, c’entra, ma vogliamo mettere un Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), o un Paese del silenzio e dell’oscurità (1972) in materia di outsider?
Siamo nel 1932.
E Zishe è sicuramente un “diverso” nel suo villaggio in Polonia. Ha una forza sovraumana che lo fa notare da un “imprenditore” tedesco organizzatore di alcuni spettacoli all’interno di un cosiddetto teatro dell’occulto. Qui, Zishe, incontra Hanussen.
Anche Hanussen è un “diverso”. Ha poteri di chiaroveggenza che l’hanno fatto entrare nelle grazie di Hitler in persona.
Nello sviluppo della vicenda, Zishe, dopo la visita del suo fratellino prediletto, rivela ad un pubblico di nazisti le sue origini ebree. Apriti cielo. Un alto esempio di pura razza ariana rivela di essere un ebreo,non più Sigfrid, ma il nuovo Sansone come ama definirsi lui stesso.
Hanussen, schiavo del denaro e del potere, sfrutta questa rivelazione per attirare nel teatro anche un folto gruppo di ebrei che vogliono assistere alle gesta di questo Sansone.
Zishe diventa un idolo, ma durante una specie di festa in barca, smaschera l’odiato Hanussen davanti a dei capoccia nazisti come Himmler e Goebbels. Stranamente, e lo scrivo perché di solito i nazisti ragionavano con le pallottole, la discussione tra Zishe e Hanussen viene portata in tribunale dove si scopre che il prestigiatore ha utilizzato da sempre un nome falso in quanto anche lui è un ebreo.

Zishe e Hanussen sono le due facce di una stessa medaglia. Una medaglia che da lì a poco sarebbe stata bandita dalla Germania. Zishe è umile, e anche un po’ tonto. Hanussen è un’arrivista e imbroglione. Ma entrambi sono ebrei, quindi diversi.
I due personaggi, esistiti realmente, sono interpretati rispettivamente da Jouko Ahola un attore non professionista che è davvero forzuto in quanto vincitore per ben due volte del World’s strongest man, e da Tim Roth che sfodera una prestazione maiuscola, e dimostra di essere uno degli attori più versatili in circolazione.
Antagonista e protagonista si completano a vicenda al punto che quando Hanussen esce di scena a mezz’ora dalla fine, del futuro di Zishe importa poco o niente. Il forzuto ebreo si sente una specie di profeta che vede un futuro nero per la sua gente. E qui salta fuori l’aspetto mistico di Herzog, che infila nei sogni di Zishe eserciti di granchi rossi che brulicano su degli scogli (scena vista anche in Echi da un regno oscuro, 1990).
Molto bello il racconto del rabbino sui 36 Giusti che in ogni momento della storia dell’umanità sono stati al mondo. Non sanno nemmeno loro di esserlo, ma sanno riconoscere il dolore e se ne fanno carico perché sono Giusti. Il giusto un po’ come il diverso, e quindi come Zishe.
Non so se Zishe fosse uno dei Giusti,ma forse, poco prima di morire, vedendo il suo fratellino salire in cielo, capisce quanto fosse speciale, e magari anche Giusto.

Non eccellente come altre opere di Herzog: la poca dimestichezza con la recitazione di Ahola si nota, anche se alcuni attori di Hollywood tipo Arnie o Sly non sono molto più espressivi. Inoltre la parte centrale del film si svolge tutta all’interno del teatro, senza stacchi o cambi di scena, e questo svilisce la maestria di Herzog dietro la macchina da presa.
Si può vedere, ma non imprescindibile se si vuol conoscere il regista.

mercoledì 18 febbraio 2009

Breakfast on Pluto

Non mi è piaciuto.
Non mi è piaciuto innanzitutto il personaggio di Patrick “gattina” Brady. Troppo stereotipato, troppo caricato fino a diventare una caricatura, e questo era già successo con In Dreams (1999) ed il suo killer.
Questa accentuazione del protagonista non sarebbe un male se il contesto in cui Patrick agisce fosse come lui, ovvero buffo irriverente e scanzonato, invece la realtà che lo circonda è maledettamente seria. Così, mentre lui/lei cerca sua madre, Lady Fantasma, nella grande città che l’ha inghiottita (Londra), incontrando le persone più diverse, da un assassino a un mago ad un magnaccio, i suoi due migliori amici muoiono in Irlanda, seppur in maniera diversa, per colpa del terrorismo. Questa discrepanza tra protagonista e ambiente che lo circonda si fa sentire di brutto.
E poi, la figura di Patrick/Patty è quanto di più lontano ci sia per farmi legare empaticamente con un attore. Perfino i personaggi di Mysterious Skin (2004) li sentivo più “vicini” a me rispetto alle avventure di questo strampalato travestito, che, con tutta sincerità, ha gonfiato le mie gonadi sin dai primi minuti. Non è che se una persona è omosessuale deve starmi simpatica per forza, a me Patrick è stato sulle palle da subito. E nemmeno la sua vicenda famigliare me lo ha fatto “andar giù”, in quanto inglobata dal personaggio Patrick che fagocita tutto e tutti.

Ma chi è Patrick Brady?
Beh, innanzitutto è Cillian Murphy. Un attore dai tratti muliebri, veramente, ma veramente bravo ad interpretare uno dei ruoli più difficili della storia del cinema, che si riscatta dalla recitazione scialba in 28 gironi dopo (2002) di Danny Boyle.
Patrick è una donna intrappolata nel corpo di uomo. È figlio di una relazione clandestina tra un prete e la sua domestica, e vive nell’Irlanda degli anni ’60 macchiata di sangue dalla guerra civile irlandese. Ma lui sogna di poter riabbracciare la madre, e così parte destinazione Londra per cercarla.
Il viaggio nella capitale inglese rappresenta allo stesso tempo sorta di viaggio interiore in cui Patrick conosce il mondo e se stesso(a). Certo che il mondo non è proprio il massimo, Plutone, forse, sarebbe meglio.

Il film soffre della sindrome della pietra rotolante.
Sindrome che ho inventato io in questo momento per spiegare come dopo il passaggio di Patrick non resta niente sullo schermo e nemmeno nello spettatore.
Neil Jordan, strutturando il film in capitoletti, probabilmente ha voluto dare una struttura organica alla pellicola, ma facendo così l’ha frammentata a tal punto che ogni segmento è slegato dall’altro, con il solo Patrick a fare da collante.
E all’interno di questi segmenti si affastellano molti personaggi secondari che finiscono nel dimenticatoio in un istante a causa della loro inconsistenza, e della strabordante invadenza di Patrick.
Buonissime invece le musiche che accompagnano il percorso di Patrick scandendo i momenti importanti della sua vita.

È la prima delusione che Neil Jordan mi dà. Vabbè aspetto con trepidazione Ondine, la sua ultima fatica che potrebbe essere presentata a Cannes 2009.

martedì 17 febbraio 2009

Foto di gruppo

Obama a sinistra, Berlusconi a destra, Brunetta al centro.

domenica 15 febbraio 2009

Paese del silenzio e dell'oscurità

“Quando le nostre mani si lasciano, è come se fossimo distanti mille miglia.”

Fini Straubinger, una donna sordo-cieca fin da bambina.
Questo documentario di Werner Herzog del 1971 racconta la sua storia e la sua vita dedicata ai “compagni di destino”, sordo-ciechi come lei, in Germania.
Il film si apre con la voce di una donna che descrive un paesaggio, subito dopo appare l’immagine di una strada che si perde nell’orizzonte sovrastata da nuvole rigonfie. È un ricordo di Fini che, seduta su una panchina, racconta di sé a due donne. Tutte e tre sono cieche, tutte e tre sono sorde. Comunicano attraverso un alfabeto tattile in cui ogni parte della mano corrisponde ad una lettera.
Fini è incaricata dalla lega per i ciechi di occuparsi delle persone con handicap come il suo in Baviera e il viaggio in questa terra di silenzio e d’oscurità in cui la donna ci conduce è terribilmente toccante.
Fini è sempre accompagnata da una “traduttrice” che attraverso l’alfabeto tattile le spiega cosa sta accadendo intorno a lei. La mano è l’unico contatto che ha con il mondo.
Durante il suo cinquantaseiesimo compleanno invita i suoi più cari amici, ad un tratto, una donna, anch’essa sordo-cieca, chiede al proprio accompagnatore se nella stanza ci fosse qualcuno. E intorno a lei ci sono decine di persone, questa cosa mi ha fatto rabbrividire.

La cecità non è mai il buio completo ma colori omogenei che si alternano, così come la sordità non è mai il silenzio completo ma piuttosto un fruscio continuo. Il tatto diviene la risorsa primaria. Toccante la sequenza in cui Fini strapazza (e si fa strapazzare) da una scimmietta; la visita ad uno zoo e ad un orto botanico sono occasioni di apprendimento che per le persone “normali” rappresentano pura routine, ma per loro no.
Probabilmente per chi da sempre vede e sente, è impossibile capire cosa provano queste persone. Fini, ad un certo punto, paragona la propria vita ad un fiume che scorre lentamente e che sfocia in una lago nero e profondo. Una vita condannata alla solitudine anche in mezzo alla folla, le parole che chiudono il documentario rendono l’idea di come sia, a volte, disumana la vita: “Se scoppiasse la guerra non riuscirei ad accorgermene.”

Ma le cose si fanno maledettamente serie quando Fini visita ad Hannover un centro di rieducazione per bambini sordo-ciechi dalla nascita.
Se ora, nel momento in cui sto scrivendo, divenissi improvvisamente cieco e sordo, anche nell’ handicap saprei come è fatto un gatto, un cane, un tramonto, una canzone o una voce. Non potrei più vedere né sentire, ma almeno avrei il ricordo! Quei bambini di Hannover non sanno cosa sia un albero, un cane, una vocale o una consonante. Non sanno quando è giorno e quando è notte. Non sanno nemmeno quale sia il loro volto e quale suono abbia la loro voce. Sono terribilmente soli.
Vengono così spiegate alcune tecniche per sviluppare la capacità di dialogo attraverso i movimenti delle labbra e le vibrazioni della voce.
Gli ultimi due incontri di Fini mostrano due realtà ai bordi della società. Il primo è un ragazzo di 22 anni, sordo-cieco, che non sa comunicare in alcun modo, emette soltanto dei versi incomprensibili. Viene detto che probabilmente non riuscirà mai ad imparare a parlare.
Infine Fini incontra un uomo (sempre deaf-blind) che dopo aver vissuto per 5 anni dentro ad una stalla con un cavallo, ha perso l’uso del linguaggio.

Herzog ritiene questo suo documentario un tassello fondamentale della sua filmografia.
Anche qui, come in La ballata di Stroszek (1977) o L’enigma di Kaspar Hauser (1974), il regista tedesco racconta ciò che è diverso, che è altro, che è oltre. Ma in questo caso, trattandosi di un documentario, non vi sono i filtri di un lungometraggio che porta sempre una vicenda, seppur vera, in una dimensione fittizia. Qui ci sono persone che non riescono a vedere la mano che devono stringere o a sentire la voce che gli sta parlando. Ed è tutto vero.

Consigliato? Sì, ma occhio alla vostra coscienza. Io subito dopo sono andato a vedermi dei filmati del Grande Fratello su Youtube, avevo bisogno di anestetizzare il cervello.

mercoledì 11 febbraio 2009

L'esame degli esami

Domani.

Cinque libri.
Più di milleduecento pagine lette, sottolineate, trascritte, rilette, studiate e ripetute, in un loop infinito.
Parecchie ore a fissare il muro o passate a fare zapping selvaggio pur di non mettere la testa fra i libri.
Una lunga convivenza spiacevole con fogli, appunti volanti e annotazioni incomprensibili. Un riversamento ossessivo ad un interlocutore immaginario di periodi sconnessi che col tempo sono diventati discorsi strutturati (spero) decentemente. Il tutto per giorni e giorni, giungendo alla fatidica frase che chiude la vigilia di ogni esame: “Vabbè, ormai quel che so, so.”

Buffo come dopo mesi ad aver letto sempre le stesse cose, adesso sento nella mia testa soltanto un desolante vuoto cosmico, e davvero esilarante di come a poche ore dal giorno del giudizio si sgretoli anche la più inconfutabile delle certezze.
Heidegger è nato nel 1889? O quello era Rosenzweig? Chi ha scritto il De oratore?
Goethe, Schiller, chi sono costoro? Giocatori del Bayern Monaco?

Ermeneutica, semiotica, gnoseologia, epistemologia.
Parole che si rincorrono in maniera confusa.

Ma almeno di una cosa sono sicuro: guardare Pomeriggio Cinque e fissare una parete bianca non fa differenza.

martedì 10 febbraio 2009

lunedì 9 febbraio 2009

In Dreams

Qui la trama, perché oggi, di scrivere, zero voglia.

Questo film è come Alicia Keys, è buona ma c’ha il culo un po’ grosso.
Tale similitudine, che sicuramente mi farà entrare nella giuria di Cannes, è utile per spiegare che In Dreams è un’opera gradevole, interessante ed intrigante. Però ha qualche difetto che come un fondoschiena sproporzionato ti fanno dire: “Uff, echeccazzo!”.
Sì, perché la messa in scena è splendida. Sono superbe le riprese subacque, ma anche la fotografia del bosco, del lago e del covo del killer hanno una qualità estetica eccellente, intrisa di un’atmosfera da fiaba (In compagnia dei lupi, 1984), ma al contempo violenta e tenebrosa come solo una torbida vicenda di bambini ammazzati può essere.
E la prima metà è da spellarsi le mani. Tutto funziona alla grande, anche se si incomincia ad intuire che la carne messa al fuoco sia davvero troppa.
Al di là di alcune leggerezze, come un ospedale in cui i pazienti possono sgattaiolare attraverso le finestre, e la “coincidenza incredibile” della vittima, che non solo viene ricoverata nella stessa clinica psichiatrica, ma addirittura nella stessa stanza e nel medesimo letto dell’assassino in cui esso era trent’anni prima, il “culo grosso” di In Dreams è la scelta unire le strade, e le vite, dell’eroina e dell’antieroe.

La genesi del killer è terribilmente confusa, roba che anche Freud non ci sarebbe raccapezzato più, e quando la Bening segue nei sogni la fuga di Vivienne (l’assassino) dalla clinica psichiatrica, la frittata è fatta.
Dopo l’incontro dei due si perde ogni interesse per il film e per il loro destino. Un po’ perché Robert Downey Jr. come cattivo è improponibile, e un po’ perché i due personaggi vengono snaturati al punto tale di diventare delle caricature di se stessi. Il passato e il presente, finora uniti solo nel sogno, si incontrano, in un minestrone di nevrosi e patologie latenti, rovesciamenti di ruoli e sdoppiamenti di personalità. Insomma, un bel caos.
Si segnalano due grandi scene di forte impatto visivo: la morte del marito dentro all’hotel abbandonato, e la caduta di Anette Bening dentro al lago con la sua auto.

Però, come ad Alicia Keys che pur avendo un deretano non proprio invidiabile, due colpi glieli darei con piacere, allo stesso tempo In Dreams merita ampiamente uno sguardo, anche se resta il rammarico per un occasione mancata.

venerdì 6 febbraio 2009

Se

Se il cielo avesse smesso di piangere io e Max saremmo ancora vivi a quest’ora, invece, quella notte, mentre la mia A4 divorava l’asfalto, Dio, o chi per esso, mise sulla nostra strada un angelo dalle piume infuocate, un metro e ottanta di forme sinuose sotto una cascata bionda lucente, toppino asfissiante, fazzoletto di velluto intorno alla vita e tacco vertiginoso.
Mentre ci avvicinavamo alla sua auto in panne ciò che sembrava quasi un miraggio divenne realtà: il nostro finestrino elettrico scese lentamente, una quinta abbondante straripò all’interno della macchina insieme alla puzza di gomma bruciata. Prima di scendere udii Max dire qualcosa del tipo: ”stasera si scopa”, io annuii distrattamente perché ero imbambolato dal corpo della bionda che sotto la pioggia battente sembrava assorbire i ritagli di stoffa che indossava.
La situazione si presentava così: gomma esplosa, cric e ruotino non pervenuti.
Un secondo dopo era in macchina con noi, ma prima di salire prese un borsone blu pesante come il piombo dal suo bagagliaio e lo mise nel nostro, poi ci accomodammo nell’auto tutti e tre, anzi quattro, ma ancora non lo sapevamo.

La pioggia continuava implacabile la sua caduta, la proposta della bionda di fermarci in un casolare abbandonato fu accolta da me e da Max come il primo premio della lotteria, così, esultando in silenzio, e con fare quasi distaccato, la aiutammo a tenersi in piedi sulla stradina infangata che portava alla porta arrugginita del casolare.

Se qualcuno mi avesse detto che il mondo stava per finire, beh, io sarei stato contento, perché in quel momento eravamo rapiti dalla sua pelle che nella penombra sembrava una statua perfetta, irraggiungibile, inviolabile. Invece era lì, a due passi da noi, tanto che riuscivamo a percepire il respiro bollente e le sue mani che abilmente sbottonavano i nostri jeans; indubbiamente il mondo sarebbe potuto terminare quando s’inginocchiò ai nostri piedi infilandosi in bocca ciò che penzolava dai nostri boxer.
Il mondo finì davvero, per noi, nell’istante in cui il ponte che collega il cervello con l’istinto si sgretola, il cuore spinge il sangue arterioso come una pompa petrolifera, ed il corpo è pervaso da eserciti di formiche brulicanti.
Guardai Max, fece sì con la testa mentre se lo scappellava.

Intanto, almeno presumo che sia andata così, l’uomo dentro al borsone blu apriva il bagagliaio e sgattaiolava fuori.

Se fossimo stati più prudenti quella notte, adesso non ci troveremmo sotto sei metri di terra umida in mezzo ai vermi, ma come si può resistere a quell’odore che sale dal centro delle sue gambe e inebria la mente facendo perdere il controllo? Non chiedetelo a me e a Max, perché quando entrò l’uomo del sacco ci stavamo fottendo quella puttana da circa mezz’ora.
Lui sbraitava agitando la pistola per aria neanche tirasse di scherma, come una gattina che vede il padrone la bionda si accoccolò ai suoi piedi, noi rimanemmo più o meno come un sandwich senza la svizzera fino a quando l’uomo del sacco non mi puntò la pistola alla tempia e intimò al mio amico di consegnargli le chiavi della macchina che erano nelle tasche dei miei jeans, se Max avesse fatto qualche mossa sbagliata io mi sarei ritrovato con un buco in testa in più e un po’ di materia celebrale in meno.
Adesso che ci penso, noi quattro, in quella casa, eravamo già tutti morti, solo che ancora non lo sapevamo.
L’uomo, che digrignava i denti ad ogni passo di Max verso i pantaloni ammucchiati in un angolo, impugnava la pistola come un bambino che gioca a fare il cow-boy, avevo sentito parlare di loro in giro, erano soltanto due mentecatti, così, quando vidi Max chinarsi sui pantaloni dissi:

“Questa notte avete fatto un grosso errore.”

Se non fossimo stati i due killer migliori sulla piazza a quel tempo, avremmo sicuramente finito i nostri giorni dentro quel casolare, invece la mia semiautomatica scarrellava tra le mani di Max vomitando pallottole che illuminavano la stanza ad intermittenza. L’uomo cadde su se stesso tra le lacrime della bionda che lo stringeva a sé. Così, ancora nudi, ci avvicinammo al tenero quadretto che si stava consumando sotto i nostri occhi, io scoppiai in una risata fragorosa, e mi venne l’idea di sparare un colpo tra le gambe della bionda. Sicuramente là sotto c’era sempre stato parecchio via vai, e complice la prestazione che ci aveva appena offerto, la canna della pistola scivolò dentro che fu un piacere. Non per lei, ovviamente.
Il proiettile si incastrò nell’intestino o da qualche altra parte perché non lo vidi uscire.
I topi, poi, avrebbero fatto il resto.

Qualche tempo dopo, in uno studio medico :

"L'incidenza di infezione con un solo rapporto a rischio è bassissima, purtroppo però dalle analisi siete risultati positivi al virus dell’HIV".

Dicono che la vita sia fatta di se.

Se quella notte non ci fossimo fermati, se avessimo avuto un cazzo di preservativo.
Se…
Se...

mercoledì 4 febbraio 2009

La ballata di Stroszek

La notte del 18 Maggio 1980 Ian Curtis si impiccò nella cucina della propria casa. Prima di farlo, però, guardò La ballata di Stroszek, il suo film preferito di Herzog, almeno così riportano alcuni siti.
Chissà perché le ballate sono sempre tristi: “la pioggia ci ha lavati abbastanza/e il sole ci ha anneriti e seccati/Gazze, corvi ci hanno gli occhi scavati.” Oppure: “e mentre il sangue lento usciva/e ormai cambiava il suo colore/la vanità fredda gioiva/un uomo s'era ucciso per il suo amore.”Anche la ballata di Bruno non sfugge a questa regola. Si consuma in un respiro di fisarmonica, in una Berlino grigia e violenta che segna di lividi il viso della prostituta Eva, e sgretola moralmente il povero Bruno appena scarcerato, e quindi tornato alla vita a cui si aggrappa come un neonato. Ma la Germania è senz’anima, Berlino appare come una fredda rete di viali deserti.
L’unica speranza sta oltre l’oceano, in America, nel Wisconsin, a casa del cugino di Scheitz, il vicino di casa di Eva e Bruno, un vecchio mezzo squinternato ma molto simpatico.
Così lo strano trio parte.
Ma il sogno americano si infrange presto. La banca chiede il pignoramento della casa, lo stipendio di Eva come cameriera non basta. Menchemeno quello di Bruno nell’officina. Così Eva scappa in Canada con un camionista, e l’abitazione (una specie di container) viene portata via. La ballata di Bruno si conclude poco dopo con uno scoppio di fucile.

L’incedere della piccola è serrato nella sua inesorabile lentezza. La parabola discendente di tre individui ai margini della società si consuma in silenzio, quasi banalmente. Eppure, nei discorsi di Bruno (attore dilettante ma perfetto in questo ruolo), si avverte tutto il suo scoramento, tutto il suo disprezzo nei confronti della società e della vita che sembra lo perseguiti e in cui ci si ritrova come se percorresse un cerchio. Ed anche il vecchio Scheitz, nei momenti finali di pazzia, imbracciando il fucile, teme che ci sia un complotto contro di loro. Ma il suo tedesco è incomprensibile per gli americani.
Herzog riprende la splendida sequenza del camion che ruota in tondo da Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970). Anche qui c’è una situazione senza uscita: è la vita di Bruno che pur avendo attraversato l’Atlantico ritorna prepotentemente in un vortice che lo fa nuovamente sprofondare, questa volta però non c’è più l’alcol a salvarlo. Solo un colpo di fucile.

Ma quanto cavolo è bella la sequenza del parco giochi?
È uno di quei momenti in cui il cinema non può essere ridotto ad una semplice trasmissione di informazioni da uno schermo ad uno spettatore perché l’insieme di immagini, segni e simboli, creano un testo che chi guarda deve interpretare e non può limitarsi a subire passivamente. Il pollo che suona il pianoforte dentro la gabbia non è Bruno? Per me lo è. Ma è anche il pollo che danza su una piastra, sempre in una gabbia. E tutto gira, ruota, circola. Il camion come la gallina al pari della funivia su cui viaggia Bruno. Poi uno sparo, il camion prende fuoco e si ferma. Ma è solo un attimo, poi il pollo continua la sua danza.

Forse per il cosiddetto mainstreamer i tempi di questo film potrebbero apparire un po’ compassati. Il doppiaggio italiano non è che sia proprio una meraviglia, e dunque credo che in lingua originale acquisti più valore. Herzog alterna inquadrature che esaltano l’ambiente rendendolo in alcuni casi imponente, ad altre più soggettive risultando squisitamente dinamico.
Bellissimo, chapeau Herzog.

lunedì 2 febbraio 2009

La moschea della discordia

Nel mio quartiere verrà costruita una moschea.
Il borbottio che da giorni accompagnava la notizia è tramutato in urlo di protesta quando essa è stata confermata. Subito sono apparse sui muri scritte anti-moschea e anti-sindaco. Come un fungo è sbucato un gazebo della Lega Nord adibito a raccogliere firme nella piazzetta della via. Firme che non si sono fatte attendere.
Dal pensionato alla casalinga, si sono presentati in buon numero carichi di buste della spesa e stereotipi che non hanno mancato di riversare ai microfoni delle tv. E mentre qualcuno appendeva un lenzuolo in cui ricordava l’ottavo articolo della Costituzione, i miei concittadini si esibivano in ciò che gli, e ci, riesce meglio: il mugugno.

“Eh, adesso va a finire che prendono il nostro posto.”
“Così gli autobus saranno pieni!”
“Ci rubano i posti di lavoro!”
“Che se ne stiano a casa loro.”
“Sono tutti dei delinquenti.”

Non voglio appiccicare qui qualche frase fatta, trita e ritrita, solo per marcarmi di un certo buonismo, parola, quest’ultima, che ha un significato per me oscuro.
Non mi metterò a girare per la strada con cartelli pro-moschea, e nemmeno distribuirò copie del Corano. Ma di sicuro non andrò a mettere la mia firma nel gazebo di Lega Nord. Questo perché non sono con, o contro qualcuno, ma semplicemente perché sono dalla parte dell’umanità.
Quelle persone che preferirebbero al posto della moschea l’allestimento di un campo di concentramento o la succursale di Guantanamo, non hanno capito che negando la libertà di pregare a delle persone come loro, si privano prima di tutto della loro libertà, quella di essere uomini.
Se poi saranno delinquenti allora sarà giusto punirli, se vengono qua è perché nel loro paese non se la passano affatto bene, e se gli autobus saranno pieni, pazienza, tanto già adesso non è che si viaggi granchè comodi, con o senza moschea.
E se infine, queste persone che hanno anche organizzato una fiaccolata di protesta, resteranno sui loro passi, gli suggerisco umilmente, ed è un invito da parte di uno che ancora non ha capito se è ateo o agnostico, ma indubbiamente, a differenza loro, non è certo un cristiano modello, di aprire il loro, e forse anche mio, testo sacro al Vangelo secondo Matteo. Poco prima della celebre frase che vede protagonisti un cammello e un ago, qualcuno dice: Ama il prossimo tuo come te stesso.