Dylan Dog ha un ruolo di primo piano nella mia formazione. Più di interminabili ore passate tra i banchi di scuola e forse anche più di vuote discussioni con i miei coetanei e/o parenti.
Il fumetto ideato da Tiziano Sclavi mi ha fatto sognare per molti anni: il primo numero che ho letto è stato La morte rossa, un albo non eccezionale, ma fortunatamente per me il numero successivo era Il cuore di Johnny, sequel mai troppo amato di una delle pietre miliari della serie: Johnny Freak. Così iniziai a ritroso un percorso che mi portò nei sentieri dell’incubo fino alle sue origini con L’alba dei morti viventi, e non appagato recuperai gli inediti con enorme entusiasmo e un’irrefrenabile voglia di leggere Dylan Dog.
Poi è successo qualcosa.
Sclavi stesso, nella toccante lettera d’accompagnamento di Xabaras!, il primo del doppio numero celebrativo del ventennale, dice in sostanza che in tutto questo tempo non è Dylan ad essere cambiato, ma noi lettori. Magari un tempo giovani ribelli e adesso ragionieri un po’ pelati.
Sarà, ma non è solo questo.
Faccio un esempio: qui sul blog l’ultima storia che ho commentato è stata La condanna di Casper, apparsa quasi un anno fa. In questi dodici mesi non ho smesso di comprare Dyd, semplicemente non ero stimolato a nessuna riflessione, lentamente mi sono disamorato.
Anche se sono “cambiato”, credo di essere in grado di decidere se oggettivamente una storia è buona o meno. E purtroppo, nell’ultimo anno, non ho letto una, che sia UNA, storia degna di portare quel nome stampato sulla copertina.
Con la lontananza di Paola Barbato la serie è passata nelle mani di nuovi sceneggiatori che, a mio avviso, non sono riusciti a dare una propria “impronta” al personaggio, riducendolo ad una sbiadita copia di quel che era.
Ahimè, Il re delle mosche, opera quarta sulla serie regolare di Giovanni Di Gregorio, è un albo come quelli che l’hanno preceduto negli ultimi mesi: opaco. Non è illeggibile per carità, però è tutto così poco… intrigante. Il ribaltamento dei ruoli credo sia uno degli stratagemmi più usati all'interno della testata, la sequenza onirica non basta come indizio per trovare la chiave dell’inghippo perché troppo slegata dal contesto, ma soprattutto non è chiaro il messaggio dell’autore, se mai ce ne fosse uno. È un attacco ai baroni universitari? Un’analisi delle abissalità umane? Non lo so, e la cosa più grave è che non mi interessa saperlo.
Piccatto ha intrapreso un percorso stilistico molto particolare. Piace o non piace. A me non piace.
Lo ammetto, ormai compro questo fumetto solo per collezione, ma non so fino a che punto potrò andare avanti.
Il fumetto ideato da Tiziano Sclavi mi ha fatto sognare per molti anni: il primo numero che ho letto è stato La morte rossa, un albo non eccezionale, ma fortunatamente per me il numero successivo era Il cuore di Johnny, sequel mai troppo amato di una delle pietre miliari della serie: Johnny Freak. Così iniziai a ritroso un percorso che mi portò nei sentieri dell’incubo fino alle sue origini con L’alba dei morti viventi, e non appagato recuperai gli inediti con enorme entusiasmo e un’irrefrenabile voglia di leggere Dylan Dog.
Poi è successo qualcosa.
Sclavi stesso, nella toccante lettera d’accompagnamento di Xabaras!, il primo del doppio numero celebrativo del ventennale, dice in sostanza che in tutto questo tempo non è Dylan ad essere cambiato, ma noi lettori. Magari un tempo giovani ribelli e adesso ragionieri un po’ pelati.
Sarà, ma non è solo questo.
Faccio un esempio: qui sul blog l’ultima storia che ho commentato è stata La condanna di Casper, apparsa quasi un anno fa. In questi dodici mesi non ho smesso di comprare Dyd, semplicemente non ero stimolato a nessuna riflessione, lentamente mi sono disamorato.
Anche se sono “cambiato”, credo di essere in grado di decidere se oggettivamente una storia è buona o meno. E purtroppo, nell’ultimo anno, non ho letto una, che sia UNA, storia degna di portare quel nome stampato sulla copertina.
Con la lontananza di Paola Barbato la serie è passata nelle mani di nuovi sceneggiatori che, a mio avviso, non sono riusciti a dare una propria “impronta” al personaggio, riducendolo ad una sbiadita copia di quel che era.
Ahimè, Il re delle mosche, opera quarta sulla serie regolare di Giovanni Di Gregorio, è un albo come quelli che l’hanno preceduto negli ultimi mesi: opaco. Non è illeggibile per carità, però è tutto così poco… intrigante. Il ribaltamento dei ruoli credo sia uno degli stratagemmi più usati all'interno della testata, la sequenza onirica non basta come indizio per trovare la chiave dell’inghippo perché troppo slegata dal contesto, ma soprattutto non è chiaro il messaggio dell’autore, se mai ce ne fosse uno. È un attacco ai baroni universitari? Un’analisi delle abissalità umane? Non lo so, e la cosa più grave è che non mi interessa saperlo.
Piccatto ha intrapreso un percorso stilistico molto particolare. Piace o non piace. A me non piace.
Lo ammetto, ormai compro questo fumetto solo per collezione, ma non so fino a che punto potrò andare avanti.
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