martedì 31 maggio 2016

Bestiaire

Il corteggiamento tra Denis Côté e il documentario si protrae fin dagli inizi della carriera dove ad un impianto di finzione veniva iniettata una ricerca di realismo tangente il contemplativo; c’è stato in passato un esempio di genere documentaristico come Carcasses (2009) che per buona parte della sua durata eludeva ogni vincolo narrativo, ma è con Bestiaire (2012) che Côté fornisce la prova maggiormente anti-fiction dell’intera filmografia. Al contempo risulta difficile intendere questo film come un normale studio zoologico su pellicola, al limite può apparentemente mimetizzarsi nella categoria (in fondo quel che si vede è una lunga carrellata su svariati esemplari di animali), ma è indubbio che non troverebbe mai asilo sul canale di National Geographic perché Côté non ha fini divulgativi o educativi, non si tratta di un lacerto animalista, è piuttosto una digressione tematica che rispecchia una coerenza autoriale cominciata con Les états nordiques (2005). Il cinema di Côté è infatti e prima di tutto un cinema etologico, analisi comportamentale dell’uomo posto nell’ambiente di appartenenza (sempre la provincia quebechiana) con il quale si rapporta spesse volte in modo problematico, il tutto approcciato con un distacco quasi hanekiano. Qui l’oggetto d’attenzione non è più l’Uomo bensì l’Animale, c’è quindi una sovrapposizione evidente che non coincide in modo perfetto perché gli animali di Bestiaire non si trovano nel loro habitat naturale e tale aspetto rende ancora più articolato il film.

Vero che i connotati da “denuncia di sfruttamento animale da parte dell’uomo” non appartengono a Bestiaire, però Côté non disdegna di posizionarsi dentro le gabbie di zebre o leoni che scalpitano come matti nel tentativo di guadagnarsi la libertà. Tali sequenze hanno acceso nel sottoscritto una lampadina interpretativa che non ha pretese di esaustività: l’assistere ad un leone che sbatte violentemente le zampe sulla porta di una cella mi ha subito riportato alla mente un detenuto dietro le sbarre di una prigione. L’operazione di traslazione uomo -> animale risulta una strada percorribile (nell’incipit un cerbiatto imbalsamato è come una modella per disegnatori) e in buona sostanza fortifica il concetto di cinema di Côté ancora una volta silente biologo. Praticamente nell’osservare il musetto curioso di uno struzzo, l’inespressività di un bufalo, il disorientamento di una iena, la goffa statuarietà di una giraffa, il relax di uno scimpanzé, sembra rivedere l’estraneità di persone colte di sorpresa da una cinepresa o incuriosite da essa rendendo Bestiaire una sorta di specchio che ci riflette sotto altre spoglie, superficie non priva di una strisciante inquietudine che sta lì davanti a noi, imperturbabile.

lunedì 30 maggio 2016

Come Lazzaro

Esattamente otto mesi fa riemergevo da un oblio lungo due anni asserendo che avrei pubblicato una serie di giacenze rimaste negli umidi e pericolosissimi anfratti del mio pc (vedi qui). Ebbene, i suddetti fondi di magazzino sono pressoché terminati (mancano una decina di file anche se come potete vedere dal post sotto il valore è decisamente esiguo), ma nel lasso di tempo intercorso è sotto gli occhi di tutti che io mi sia ringolosito e sia tornato a pubblicare pensieri partoriti più di recente. Mi è tornata un po’ di voglia, devo ammetterlo. Il che rende la mia parola credibile quanto quella di un politico sotto elezioni perché dal 2007 ad oggi ho promesso di chiudere il blog una marea di volte per poi puntualmente autosconfessarmi ritornando codardamente sui miei passi (se scorrette l’etichetta “elucubrazioni” potrete dare un nuovo significato alla parola patetico). Quindi rieccomi qua, chiedo ancora venia per l’inaffidabilità che mi contraddistingue, il giorno che chiuderò per sempre sarà quando non farò alcun annuncio. Nel frattempo è cambiato qualcosa a livello estetico e anche in questo post perché negli anni la sensibilità è mutata e certe preferenze non potevano rimanere tali. Altro che Gagarin, sono una specie di Lazzaro, sono così.

domenica 29 maggio 2016

Potilas

Il turno di guardia notturno riserva un incontro inatteso.

Cortometraggio commerciale finlandese di alta fattura: il regista Misko Iho, dedito principalmente al videoclip, maneggia piuttosto bene gli strumenti che ha a disposizione, e lo si avverte da subito con una qualità video ad alta definizione che esalta l’accuratezza delle luci in scena, da qui si genera quella che si potrebbe definire un’atmosfera che non lesina una sottile suspense (maculata da piccoli indizi insospettenti), creazione di un’attesa che suggerisce il plausibile accadimento di un Fatto. E puntualmente il Fatto succede permettendo al corto di spiccare un piccolo salto oltre l’aiuola dell’intrattenimento per disquisire, addirittura, e con un’apprezzabile puntura d’ironia, dell’Universale, passando dal Sé al Big Bang in un nanosecondo.

Chiaro che Potilas (2010) è una normale gocciolina nell’oceano-cinema, e per di più ha l’aggravante come molti altri lavori brevi di voler a tutti i costi stupire con il finale che ribalta gli assiomi, il tipico coup de théâtre nemmeno troppo necessario che non ho mancato di redarguire in altri corti (vedi Still Life [2005] o Security [2006]), resta al contempo lodevole l’aspetto formale che coniugato ad una prova attoriale convincente (lo si evince, per me, da come rimane impressa la figura della guardia, maschera divertente) e ad una levità indispensabile per questo tipo di progetti, riesce a far distinguere il minimo necessario questa goccia dispersa nell’enorme mare che abbiamo di fronte, quello dove c’è tutto quel cinema, bello e suadente, che dobbiamo fronteggiare.

venerdì 27 maggio 2016

The Loneliest Planet

Vacanza pre-matrimoniale in Georgia, le cose non andranno granché bene.

Pur non essendo un film convenzionale, The Loneliest Planet (2011) di Julia Loktev si presta ad una lettura dei propri intenti troppo ma troppo semplice. È qui che giace il problema più urgente di quest’opera presentata a Locarno, perché di difetti, più o meno grevi, ce ne sono anche altri e possono essere così elencati: la scrittura dei personaggi rivela una friabilità preoccupante, nessuno dei tre attori in scena (la guida non è un professionista) ha un guizzo che va oltre il preconfezionamento, la suddivisione ruolistica e l’impianto relazionale (lui, lei, l’altro) sono lapalissiani e di un’esiguità che non permette ispezioni spettatoriali; c’è poi una vera e propria pochezza narrativa che la regista non riesce a gestire a dovere, o ti chiami Dumont (alla lontanissima può ricordare Twentynine Palms, 2003) oppure il rischio di inabissarsi sotto i colpi di un incombente vuoto pneumatico diventa una concreta possibilità. Ma la ferita che mostra tutta la sua immedicabilità risiede nell’assetto compositivo del film, la bipartizione, con ciò che accade nella seconda porzione in relazione alla prima, è un escamotage non particolarmente felice poiché investito automaticamente di una certa prevedibilità, è infatti chiaro che dopo sessanta minuti in cui rose e fiori ornano il legame della coppia (che peraltro risulta un po’ antipatica), i successivi sessanta non potranno che fare da contraltare alla faccenda. Tralasciando la posticcia apertura della guida verso il finale e le brusche avances della suddetta, è praticamente immediata la dimensione concettuale della pellicola: non si tratta di una normale vacanza a contatto con la natura, o almeno non solo, bensì il tipico viaggio interiore che punta all’esplorazione sentimentale, una congettura, questa, intuibile dalla visione del trailer.

Non è però tutto da buttare a mio avviso. La Loktev tenta comunque la strada di un cinema che pur avendo molte pretese sa esporre una dignità artistica che allontana la débâcle totale. Condivido quanto scritto da Giovanni Ottone (link) sulla somiglianza formale con i lavori di Kelly Reichardt vista l’uguale tendenza a considerare il Tragitto come zona di transitorietà fisica e soprattutto psicologica, che poi Julia Loktev si smarrisca durante il cammino perdendo l’efficacia della collega è un discorso che sono il primo a sottoscrivere. Detto questo, se il film non sarà digerito nemmeno sotto il piano dell’intraprendenza, a restare c’è l’incontestabile bellezza dei luoghi ripresi che tra prati smeraldo, cascate fluenti e rocce millenarie, mitiga un goccio l’insoddisfazione generatasi dalla proiezione.

mercoledì 25 maggio 2016

Cavallo Denaro

Cavalo Dinheiro (2014) è un altro film enorme di Pedro Costa, è la possibilità di un cinema ulteriore che argomenta la propria tesi trovando un miracoloso equilibrio tra la completa astrazione e la totale aderenza realistica. È più di un miracolo: se osserviamo il movimento concettuale del regista portoghese veniamo a conoscenza di un progetto autoriale che nel corso degli anni ha saputo definzionalizzarsi arrivando in un territorio, quello di questo film, che è dentro ma anche oltre la realtà, un’opera da eiaculazione celebrale che abbraccia teneramente tutto il corollario di umanità marginale visto negli esemplari precedenti: da Ossos (1997), oggetto con ancora elementi di finzione che ci calava per la prima volta nel degrado degli immigrati a Lisbona, sostando poi dentro In Vanda’s Room (2000), monumento cinematografico che ha dato nuove coordinate visive nello spazio cinema, per arrivare in Colossal Youth (2006), epitaffio di un quartiere, morte dell’umanità, tomba artistica. In questa silente indagine Costa ha via via estromesso le componenti del racconto più marcate affinando uno stile che è sì narrativo ma che sa tangere la vera realtà, ciò non può che essere motivo di conforto poiché è in siffatti termini che il cinema, a mio avviso, è in grado di esprimere un preciso potenziale, non c’è bisogno di attorialità né di sceneggiat(ur)e coerentemente razionali, si può e si deve lavorare sul reale, unico ring che permette una visione ancora virginale, intatta.

Non che Cavalo Dinheiro abbia attinenze nel campo documentaristico, d’altronde è lampante lo studio che Costa compie sul piano ottico dimostrandosi uno dei migliori sguardi nel saper trattare i corpi dentro e fuori dal buio (cfr. il capolavoro Ne change rien, 2009), tuttavia questa intensificazione non intacca il nostro concetto di realismo, è come se l’ospedale in cui Ventura è ricoverato possa essere plausibilmente così, il “classico” luogo-non-luogo immerso in una tenebra uterina dove uomini nascono già morti. Parimenti Costa salpa verso altri pianeti attuando una magnifica congiunzione tra il mezzo cinema e la mente di un anziano malato, Ventura, altro essere costiano dopo Vanda Duarte martire dello sfacelo, che riflette la condizione geografica dove lui, insieme a molti altri capoverdiani, ha vissuto per anni: barrio de Fontainhas; il punto è che questo povero quartiere, così come Colossal Youth ci aveva permesso di vedere, non esiste più, e di riflesso non esistono più nemmeno le persone che vi abitavano. Probabilmente nemmeno Ventura esiste, ectoplasma di se stesso che genera altri ectoplasmi, che fonde il tempo e lo spazio, che collassa, che muore e risorge, Cavalo Dinheiro è questo, un consesso di fantasmi, di ricordi, un’elegia dopo l’elegia (l’incipit mostra delle foto in b/n del passato, come ovali nelle lapidi), sicuramente una delle opere-cervello maggiormente memorabili degli ultimi anni poiché la lettura della mente di Ventura che si dà attraverso il cinema non è penetrazione bensì invasione, come un liquido nero il flusso di persone e situazioni che sgorgano dal poveretto, oltre che generare un senso di profonda e smisurata pietà verso lui stesso, rompe gli argini della fruizione invitandoci ad un terso abbandono sensoriale in questo purgatorio di poveri spettri.

martedì 24 maggio 2016

Poyraz

Anche Belma Baş, come il Reha Erdem di Beş Vakit (2006) o il Selim Güneş di White As Snow (2010), ci riporta ad una Turchia feudale, arcaica, distaccata dalla contemporaneità e ancorata alle proprie tradizioni, forme ritualistiche dall’immutabile portata. In Poyraz (2006), nel concentrato d’una dozzina di minuti che va a costituirlo, il cerimoniale quotidiano lo si può intuire: la madre indaffarata a trattare il latte con un aggeggio su cui il bimbo balza a cavalluccio ricevendo l’ammonizione del genitore il quale gli ricorda che non è più così piccolo, un gesto semplice incastonato nella routine famigliare (a proposito: una piccola chiocciola apre il film: qui si racconterà di un focolare domestico sembra premettere la Baş, con lo scorrere lento e paziente della vita), tassello inessenziale come la preparazione della cena, ingranaggi di un meccanismo effettivamente più grande che ha come principio inviolabile quello della ciclicità.

Perché sotto sotto, a prescindere dalla durata dell’opera che ci viene incontro, c’è un certo cinema che prova a raccontarci, in ogni sua manifestazione, quello che più ci interessa, anche a nostra insaputa, è una questione di vita e di morte d’altronde, e sebbene spesso si tenti di ornare la faccenda con orpelli e diversivi, il focolaio che accende ogni storia volge l’attenzione all’alfa e all’omega dell’esistenza, testacoda capaci di dare pregni frutti, e Poyraz è lì a ricordarcelo, in miniatura, sottovoce, placidamente, con pudicizia verso la Morte, senza riuscire a trasmettere davvero lo sconosciuto Significato (sembra un ossimoro, e in effetti lo è), ma comunque impegnandosi rispettabilmente nel tentativo, rimanendo voce nel coro, inavvertibile apoftegma che scorre davanti ai nostri occhi, come un vecchio bastone bitorzoluto portato via dalla corrente fluviale.

domenica 22 maggio 2016

Rita's Last Fairy Tale

Rita è una malata terminale e ha i giorni contati, nell’ospedale dove è ricoverata un’infermiera assume i connotati della Morte.

Sono sufficienti i titoli di testa per delineare la sagoma di un’esemplare di cinema che non ha niente di ordinario: Poslednyaya skazka Rity (2011), diretto da Renata Litvinova, attrice in molti film di Kira Muratova, è un’opera che divampa nella sua folgorante estetica dove ogni fotogramma è marchiato in maniera indelebile dal talento di chi concerta il tutto, un talento descrivibile in un modo soltanto: visionario, aggettivo troppo spesso tangente l’inappropriato che invece con questa Litvinova trova una perfetta impersonificazione, e non soltanto nella forma su cui si potrebbe scrivere ben più che un articoletto come quello che state leggendo, ma anche nella scrittura che forgia la storia, un pastiche innovativo che abbraccia una sorprendente quantità di registri: la fiaba nera è la stella polare che convoglia una narrazione ingioiellata da diramazioni abbacinanti, felicemente sconclusionate, dove un senso di ubriacante grottesco satura la visione lasciando comunque spiragli per parentesi romantiche (i siparietti con il fidanzato di Rita), comiche (i dipendenti dell’ospedale che non smettono un attimo di fumare) e fantasy (un libro che si scrive da solo, passaggi dimensionali, costumi realmente improbabili), mescolandosi in un pantagruelico affresco che diffonde con orgoglio il proprio nonsense.

Autoprodotto dalla regista stessa, Rita’s Last Fairy Tale impressiona per un ventaglio di scenografie che non hanno niente da invidiare a lavori di acclamati professionisti, e la costruzione dell’ambiente ospedaliero che riporta alle atmosfera malsane di un certo Švankmajer vale come esempio principale. Ma l’estro che sostanzia il film è praticamente inarrestabile e l’elenco di meraviglie visive sarebbe lungo e tanto noioso da leggere quanto sbalorditivo da vedere, la libertà espositiva di Renata Litvinova fa applaudire a più riprese e almeno due sequenze vanno comunque menzionate: quella all’interno del bar caratterizzata da una geniale progressione ludica (il vetro che c’è e non c’è), e quella che riprende il trapasso definitivo regalando un vero e proprio quadro destinato ad incastrarsi nell’iride dello spettatore il quale nel frattempo accompagna La discesa dolce ed irreversibile.

È avvertibile uno sfilacciamento dopo la morte di Rita (non che prima il racconto sia saldo e controllato!), questo sì, visto che da lì in poi si procede con dei flashback che scaturiscono dal dialogo fra la Morte e la sua aiutante, ad ogni modo l’eventuale defezione può essere imputata da una cieca razionalità: non si capisce niente? C’è da esserne felici perché ciò che c’è da capire è esclusivamente nel dispositivo stilistico anti-livellante. Come 4 (2004), come Volchok (2009), come Bibliothèque Pascal (2010), come Target (2011) e chissà quante altre pellicole provenienti da una terra di mezzo che congiunge l’Europa dell’Est con la Russia occidentale, questo film destabilizza le coordinate del reale pur parlando di argomenti che ci riguardano, bacia ripetutamente l’impossibile e si avvale della sua consulenza per esibire la prismatica essenza che lo costituisce, è cinema bello e inafferrabile che ci ricorda ancora una volta che cosa vogliamo da esso, vogliamo essere stupiti, vogliamo essere ipnotizzati, vogliamo credere all’incredibile, vogliamo che le braccia di quella statua alla fine si siano alzate per davvero.

venerdì 20 maggio 2016

Le mille e una notte - Arabian Nights: Volume 3 - Incantato

Finalmente facciamo conoscenza con Shahrazād: c’è di più: il prologo di O Encantado non si riduce a mostrarci la bella principessa narratrice, per Gomes colei che racconta diviene a sua volta racconto. Nel gioco interminabile di matrioske perfino la donna che dovrebbe essere il demiurgo della situazione, passeggiando per una Baghdad incantata e anacronistica (coesistono persone agghindate con vesti orientali ed altre in abiti moderni così come i cavalli osservano i motoscafi sul pelo dell’acqua), diviene a sua volta la protagonista di una storia non dissimile da quelle che ci ha illustrato nei due film precedenti. E così in uno scenario cristallino, sterrato dalle miserie umane che interessano a Gomes, la vediamo fare incontri con personaggi grotteschi completamente slegati da una sequenzialità logico/temporale, si va da un adone ingravidante ad un esotico menestrello passando per un’alterazione spaziale con una band che ci canta della saudade. Ma a questo punto nasce una domanda: se Shahrazād è la protagonista principale di questa porzione filmica, chi sta raccontando questa storia? Gomes? Probabilmente no, nell’incipit del trittico, in Inquieto, scappava a gambe levate di fronte alla responsabilità etico/politica di fare un film oggi, adesso, ora in Portogallo, e difatti in O Encantado lo ritroviamo come un servo della principessa, un umile subalterno del racconto. Non si sa allora chi in tale frangente conduca il film, è possibile che qua si giunga al nocciolo più puro di tutto il discorso concettuale di As Mil e Uma Notes: semplicemente, le storie si raccontano da sole.

Nel prosieguo, con l’adottamento del modello già visto in Inquieto e in Desolato, Shahrazād ritorna ad intrattenere il feroce Re (ma non sentiamo più la sua voce, solo scritte sovraimpresse, un dettaglio da non trascurare) con una vicenda traslata (o traslabile) nel Portogallo odierno. Questa volta è un solo unico racconto inframezzato da un entracte che, ovviamente, si fa corpo di lettura custodito in un suo simile, e anche parecchio interessante: al parlato over di una giovane cinese che ripercorre la sua storia d’amore con un lusitano si accompagnano delle immagini stridenti di numerosi manifestanti parecchio incazzati, non si sa altro, non ce n’è nemmeno bisogno: è sufficiente il cortocircuito tra il veduto e l’udito a riempire. Ritornando sulla traccia principale, ovvero il segmento in assoluto più lungo fra tutti gli altri, ritengo che possa completarsi e significarsi la traiettoria teorica scelta da Gomes. In O Inquieto avevamo tre quadretti in equilibrio tra realtà e fantasia da cui però si poteva desumere chiaramente il fare dardeggiante che sottendeva il tutto, obiettivo: gli effetti della Crisi su portoghesi, obiettivo centrato. Nella triade di O Desolado quella dicotomia realismo vs. slanci immaginifici si risolveva di più in favore della prima istanza con una perdita effettiva del sottotesto canzonatorio. Giunti a Incantato tutto si chiarifica: il movimento di Gomes non è stato altro che un poderoso svelamento del reale, il ritratto degli abitanti del povero barrio dediti all’allevamento di fringuelli ci viene restituito così: in modo naturale, documentaristico, etnografico, non ci sono accenti o squarci irrazionali, Gomes segue come un testimone silenzioso tutte le attività inerenti alla stramba passione di queste persone. Partito con una astrazione, l’acida allegoria di politici impotenti, il regista conclude il proprio tour de force nel concreto: nel popolo ripreso senza ammennicoli di sorta, nell’immagine che tende alla virginalità.

Stilare delle conclusioni che sappiano davvero chiudere il cerchio è un atto non così semplice, a meno di non scadere in certe banalità. Perché è evidente che As Mil e Uma Notes è un film definibile come molti testi letterari postmoderni, ovvero un’opera-mondo che contiene una cifra ragguardevole di cose su cui è indispensabile fermarsi a ragionare. Dal canto mio, con tutti i limiti che possiedo (anche di comprensione, conosco e comprendo l’inglese ma non così bene), ho trovato nell’idea di Gomes una spinta ammirevole verso la contemporaneità, la scelta di fare un cinema narrativo servendosi di un metodo del genere (una frammentarietà divergente… eppure così convergente) incontra i favori di chi scrive che da tempo auspica l’espulsione della linearità dalle sintassi filmiche odierne. È una gran bella esperienza spettatoriale, chi non la prova resterà un po’ più povero degli altri.

giovedì 19 maggio 2016

The End

Non c’è più acqua, il sangue però non manca.

Iniziata (benino) nel 2005 (Contracuerpo) la trilogia A contraluz è poi proseguita (calando) due anni dopo con Alumbramiento e si è conclusa (maluccio) nel 2008 con The End, nomen omen che non ha niente di così definitivo nei confronti del trittico, infatti i tre corti presentano un’alta dose di reciproca eterogeneità che li rende totalmente indipendenti sia per argomenti che per stile di rappresentazione, per cui la portata di quest’ultimo lavoro di Chapero-Jackson non ha granché di ultimo se non per motivazioni intrinsiche a ciò che narra o a questioni prettamente numerologiche. Insomma, al cospetto della tripletta The End si pone alla conclusione solo perché arriva dopo gli altri due, la cifra teorica che lo vorrebbe come pietra tombale di un percorso di studio non si realizza porgendo altresì il fianco ad una serie di inevitabili critiche.

Rispetto ai suoi colleghi The End non centra il tema di riferimento, la fatica nel tentativo di proporlo è sintetizzata da un andamento prevedibilissimo che vaga tra i generi (dalla fantascienza al western) perdendosi ben presto come la famigliola assaltata dai farabutti. La faccenda dell’acqua diventa un pretesto di sfondo che il regista utilizza per dettare in modo banale quanto e come possa diventare bestiale l’essere umano in situazioni di difficoltà, e ciò potrebbe andare bene se non fosse che nell’illustrare tale ferocia (si fa per dire) il corto sfiora vertici di ridicolo involontario prodigandosi in sparatorie con annesse uccisioni e immediate vendette. Non si capisce davvero dove voglia andare a parare Chapero-Jackson, la fermezza nell’inscenare e nell’ostentare il dramma finisce, come di consueto, per sortire gli effetti contrari, pertanto la conclusione trascinata all’esasperazione dei toni fa auspicare al più presto l’entrata della scritta su sfondo nero che costituisce il titolo.

lunedì 16 maggio 2016

Il silenzio di Pelešjan

Inutile dire che Il silenzio di Pelešjan (2011) andrebbe visto soltanto dopo un’approfondita conoscenza di Artavazd Pelešjan, perché quello di Pietro Marcello non è un film che vuole essere biograficamente esaustivo, di fronte alla sfuggevolezza del regista armeno il nostro documentarista casertano si limita a carpire, quasi a contemplare, stralci di un monumento impassibile come il cinema che ha prodotto fino a metà degli anni novanta, brandelli d’avanguardia che nascono da un’incessante voglia di ricerca.

Il sottoscritto di Pelešjan non aveva visto nulla prima di questo film, e per questo dovrei tacere, così come dovrei tacere sempre, al contrario Marcello è autore su cui sono stati puntati i fari addosso per la sua tendenza ad ibridare il documentario partorendo un genere che continuo a ritenere una delle poche strade capaci di condurre alla salvezza il cinema italiano narrativo e non (si vedano Frammartino o Comodin per ulteriori chiarimenti); così dopo Il passaggio della linea (2007) e La bocca del lupo (2009) Marcello afferma la propria tendenza nell’occuparsi di personaggi periferici, figure ai margini che, davvero, non chiedono né vogliono niente: Pelešjan non parla nella diegesi, la sua afasia viene ribaltata da Marcello con le immagini che creano un duplice registro, forse triplice, o addirittura infinito, caricandosi l’onere di illuminare una filmografia oscura confrontandola con i gesti usuali (fare zapping alla tv) di chi l’ha creata, tributando una linea di pensiero che milita laggiù dove il cinema è, ogni giorno, ancora da scoprire, e quindi da sentire, e da amare.

giovedì 12 maggio 2016

Khadak

Peter Brosens e Jessica Woodworth al loro debutto: il primo, nato nelle Fiandre ma globetrotter nell’animo, dopo un documentario girato in Ecuador nel ’92 si è recato in Mongolia dove ha diretto altri tre documentari; la seconda, nata negli Stati Uniti, in seguito a dei lavori per la tv ad Hong Kong e Pechino si è trasferita per un progetto personale ad Ulan Bator. Anche se non ho trovato riscontri, è probabilmente qui che i due si conobbero e decisero di ordinare le proprie visioni/esperienze per indirizzarle in un lavoro come Khadak (2006), contenitore di molteplici suggestioni, equilibrista sfrontato, diga tremolante. Indubbia è la qualità estetica dell’opera che sotto l’egida di tal Rimvydas Leipus (uno che in passato ha prestato servizio alla corte di Sharunas Bartas) esalta gli scorci paesaggistici conferendo un’aria che si tinge di favola, una specie di Tarsem meno mainstream, dove la steppa mongola acquista sfumature di intensa bellezza. E la bellezza, quella che colma l’occhio, è più che presente in Khadak manifestandosi in modo proteiforme, dal movimento della mdp che avvolge la ragazza sul tetto, ai segmenti slegati con la vecchia sciamana, passando per piccole pepite disseminate lungo il percorso, e ultimo in ordine di apparizione è quel rivoletto d’acqua che magicamente inizia a scorrere dall’albero. 

All’apparato visivo risponde però un respingente vuoto narrativo. Magari Brosens & Woodworth avevano nella loro testa un’idea di come sarebbe dovuto essere il loro film, su quali temi avrebbe dovuto vertere, che cosa avrebbe dovuto raccontare, ma nell’atto di esposizione si registrano delle falle che compromettono quanto di accattivante c’è da vedere. Fondamentalmente non si capisce quale sia la direzione che il film dovrebbe prendere, la polpa è talmente tanta che alla fine sembra essere niente: storytelling popolare con tinte epiche/eroiche? Denuncia eco-animalista? Ritratto di una rivoluzione inusuale? Raffigurazione decentrata di una malattia (l’epilessia)? Storia d’amore non convenzionale? Il fatto che Khadak sosti in questi interrogativi senza riuscire a soddisfarli indica una notevole dispersione di potenziale, il mix argomentativo non è concertato a dovere e sembra più in preda ad una rapsodia vaneggiante che ad un minimo di razionalità che ci faccia raccapezzare almeno un minimo, gli ultimi venti minuti, ad esempio, sono un crescendo prossimo al delirio. Il sottoscritto non è di certo uno che si indigna di fronte ad un’assenza di concetti, anzi in molti casi si è professato un adulatore dell’Immagine come Senso, ma non questa volta: semplicemente, l’estetica non regge il peso della visione, ciò che eccede è solo confusione, insofferenza e un po’ di tedio. 

sabato 7 maggio 2016

Glory at Sea

La personale diffidenza nei confronti del pluriapprezzato Re della terra selvaggia (2012) è all’incirca la stessa scaturitasi da Glory at Sea (2008), cortometraggio che presenta in nuce le idee che sostanzieranno il lungometraggio di debutto. Non solo il medesimo set (ancora i territori catastrofati dall’uragano Katrina) e la medesima fetta di popolazione (ancora una comune isolata dal resto del mondo), ma anche un’identica impostazione simil-fiabesca con corrispondente narrazione omodiegetica (un’altra Hushpuppy). Il funzionamento della traccia principale se non è incriticabile poco ci manca, la riproposizione della mitologia classica in salsa americana ha un suo perché (si tratta di Orfeo ed Euridice, sebbene non esplicitato chiaramente il riferimento appare lapalissiano), al pari della “nuova” veste data da Zeitlin agli inferi, piuttosto suggestiva.

Ciò che continua a balbettare per i gusti del sottoscritto è l’azione intensificante che il regista opera dal primo all’ultimo minuto; profusione di musiche su e giù per il corpo filmico (non contesto la qualità, è la quantità a passare il segno, alla fine è come se non si sentisse niente), dinamismo iper-attivo con mix appena passabile di camera a mano, carrellate e piani che se la devono vedere tra l’ampiezza del paesaggio e la restrizione dei volti smagriti, tematizzazione su argomenti che non hanno una pregnanza particolarmente illuminante: si naviga nel già sentito cercando di far leva su una sensibilità plastificata tipica del cinema mainstream. Sia ben chiaro, non deprezzo Zeitlin perché orientato a proporre un cinema di base commerciale, quello che non è in grado di farmelo gradire appieno è il mimetismo con cui cela la vera natura dei suoi lavori, il confondersi nel cosiddetto mondo indipendente maschera in realtà una forte dipendenza dalle logiche dozzinali della rappresentazione hollywoodiana. 

martedì 3 maggio 2016

Reprise

Per certi versi Reprise (2006) sembra l’antefatto di Oslo, August 31st (2011). L’impressione sorge dalla caratterizzazione fornita al personaggio principale (nuovamente il bravo Anders Danielsen Lie) che si realizza in un progressivo stato esistenziale tormentato che troverà amara catarsi nell’opera successiva. Qui Joachim Trier inizia a far intravedere qualche zona d’ombra, scampoli di un malessere che Philip è incapace di domare; non c’è però esclusivamente un clima pessimistico ad ammantare la storia di questi ragazzi norvegesi, al contrario il regista mette sul piatto una vasta dose di sentimenti che riempiono la giovinezza e che donano al film un respiro generazionale, cronaca irrequieta di sogni (realizzabili, realizzati e infranti), amori (idem come prima), amicizie (tra il rispetto e la rivalità), passioni (il sacro fuoco della scrittura incendia la vita). Il tutto esposto con un tono che dondola amabilmente tra tinte drammatiche (discretamente congegnate vista la tendenza a non esasperare i problemi di Philip) e aperture ironiche (la fratellanza tra il gruppo di amici, la loro visione del mondo, i loro discorsi).

Si vede e si sente del talento in Reprise, Trier tonifica la narrazione attraverso espedienti che convincono fin dal prologo con quello slancio utopico che sintetizza molto bene l’ambizione dei due ragazzi. Si procede per eccesso, le descrizioni sovrabbondano, si inoltrano in digressioni amene eppure piacevoli, inessenziali e necessarie, raccontate da una voce over che suggerisce alla lontana un tappeto quasi favolistico capace di essere sfondo per il susseguirsi degli eventi.  Tenendo ben presente che l’opera in questione è un debutto preceduto da due cortometraggi, anche un certo abbassamento dell’interesse che potrebbe profilarsi con l’ascesa al successo di Erik non duole più di tanto, ciò che portiamo con noi a fine visione è la certezza che lassù al nord oltre al solito noto Trier ce n’è un altro che pur facendo un cinema diverso dal suo omonimo, e che ancora deve dimostrare tanto, ha gettato con i suoi primi due film delle premesse che lasciano ben sperare per l’avvenire.