Finalmente facciamo
conoscenza con Shahrazād: c’è di più: il prologo di
O Encantado non si riduce a mostrarci la bella principessa
narratrice, per Gomes colei che racconta diviene a sua volta
racconto. Nel gioco interminabile di matrioske perfino la donna che
dovrebbe essere il demiurgo della situazione, passeggiando per una
Baghdad incantata e anacronistica (coesistono persone
agghindate con vesti orientali ed altre in abiti moderni così
come i cavalli osservano i motoscafi sul pelo dell’acqua), diviene a
sua volta la protagonista di una storia non dissimile da quelle che
ci ha illustrato nei due film precedenti. E così in uno
scenario cristallino, sterrato dalle miserie umane che interessano a
Gomes, la vediamo fare incontri con personaggi grotteschi
completamente slegati da una sequenzialità logico/temporale,
si va da un adone ingravidante ad un esotico menestrello passando per
un’alterazione spaziale con una band che ci canta della saudade.
Ma a questo punto nasce una domanda: se Shahrazād è la
protagonista principale di questa porzione filmica, chi sta
raccontando questa storia? Gomes? Probabilmente no, nell’incipit
del trittico, in Inquieto, scappava a gambe levate di fronte
alla responsabilità etico/politica di fare un film oggi,
adesso, ora in Portogallo, e difatti in O Encantado lo
ritroviamo come un servo della principessa, un umile subalterno del
racconto. Non si sa allora chi in tale frangente conduca il film, è
possibile che qua si giunga al nocciolo più puro di tutto il
discorso concettuale di As Mil e Uma Notes: semplicemente, le
storie si raccontano da sole.
Nel prosieguo, con
l’adottamento del modello già visto in Inquieto e
in Desolato, Shahrazād ritorna ad intrattenere il feroce Re
(ma non sentiamo più la sua voce, solo scritte sovraimpresse,
un dettaglio da non trascurare) con una vicenda traslata (o
traslabile) nel Portogallo odierno. Questa volta è un solo
unico racconto inframezzato da un entr’acte
che, ovviamente, si fa corpo di lettura custodito in un suo simile, e
anche parecchio interessante: al parlato over di una giovane cinese
che ripercorre la sua storia d’amore con un lusitano si
accompagnano delle immagini stridenti di numerosi manifestanti
parecchio incazzati, non si sa altro, non ce n’è nemmeno
bisogno: è sufficiente il cortocircuito tra il veduto e
l’udito a riempire. Ritornando sulla traccia principale, ovvero il
segmento in assoluto più lungo fra tutti gli altri, ritengo
che possa completarsi e significarsi la traiettoria teorica scelta da
Gomes. In O Inquieto avevamo tre quadretti in
equilibrio tra realtà e fantasia da cui però si poteva
desumere chiaramente il fare dardeggiante che sottendeva il tutto,
obiettivo: gli effetti della Crisi su portoghesi, obiettivo centrato.
Nella triade di O Desolado quella
dicotomia realismo vs. slanci immaginifici si risolveva di più
in favore della prima istanza con una perdita effettiva del
sottotesto canzonatorio. Giunti a Incantato tutto
si chiarifica: il movimento di Gomes non è stato altro che un
poderoso svelamento del reale, il ritratto degli abitanti del povero
barrio dediti all’allevamento di fringuelli ci viene restituito
così: in modo naturale, documentaristico, etnografico, non ci
sono accenti o squarci irrazionali, Gomes segue come un testimone
silenzioso tutte le attività inerenti alla stramba passione di
queste persone. Partito con una astrazione, l’acida allegoria di
politici impotenti, il regista conclude il proprio tour de force nel
concreto: nel popolo ripreso senza ammennicoli di sorta,
nell’immagine che tende alla virginalità.
Stilare delle conclusioni
che sappiano davvero chiudere il cerchio è un atto non così
semplice, a meno di non scadere in certe banalità. Perché
è evidente che As Mil e Uma Notes è un film
definibile come molti testi letterari postmoderni, ovvero
un’opera-mondo che contiene una cifra ragguardevole di cose su cui
è indispensabile fermarsi a ragionare. Dal canto mio, con
tutti i limiti che possiedo (anche di comprensione, conosco e
comprendo l’inglese ma non così bene), ho trovato nell’idea
di Gomes una spinta ammirevole verso la contemporaneità, la
scelta di fare un cinema narrativo servendosi di un metodo del genere
(una frammentarietà divergente… eppure così
convergente) incontra i favori di chi scrive che da tempo auspica
l’espulsione della linearità dalle sintassi filmiche
odierne. È una gran bella esperienza spettatoriale, chi non la
prova resterà un po’ più povero degli altri.
Nessun commento:
Posta un commento