Anche Belma Baş, come il
Reha Erdem di Beş Vakit (2006) o il Selim Güneş di
White As Snow (2010), ci riporta ad una Turchia feudale,
arcaica, distaccata dalla contemporaneità e ancorata alle
proprie tradizioni, forme ritualistiche dall’immutabile portata. In
Poyraz (2006), nel concentrato d’una dozzina di minuti che
va a costituirlo, il cerimoniale quotidiano lo si può intuire:
la madre indaffarata a trattare il latte con un aggeggio su cui il
bimbo balza a cavalluccio ricevendo l’ammonizione del genitore il
quale gli ricorda che non è più così piccolo, un
gesto semplice incastonato nella routine famigliare (a proposito: una
piccola chiocciola apre il film: qui si racconterà di un
focolare domestico sembra premettere la Baş, con lo scorrere lento e
paziente della vita), tassello inessenziale come la preparazione
della cena, ingranaggi di un meccanismo effettivamente più
grande che ha come principio inviolabile quello della ciclicità.
Perché sotto
sotto, a prescindere dalla durata dell’opera che ci viene incontro,
c’è un certo cinema che prova a raccontarci, in ogni sua
manifestazione, quello che più ci interessa, anche a nostra
insaputa, è una questione di vita e di morte d’altronde, e
sebbene spesso si tenti di ornare la faccenda con orpelli e
diversivi, il focolaio che accende ogni storia volge l’attenzione
all’alfa e all’omega dell’esistenza, testacoda capaci di dare
pregni frutti, e Poyraz è lì a ricordarcelo, in
miniatura, sottovoce, placidamente, con pudicizia verso la Morte,
senza riuscire a trasmettere davvero lo sconosciuto
Significato (sembra un ossimoro, e in effetti lo è), ma
comunque impegnandosi rispettabilmente nel tentativo, rimanendo voce
nel coro, inavvertibile apoftegma che scorre davanti ai nostri occhi,
come un vecchio bastone bitorzoluto portato via dalla corrente
fluviale.
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