La personale diffidenza nei confronti del pluriapprezzato Re della terra selvaggia (2012) è all’incirca la stessa scaturitasi da Glory at Sea (2008), cortometraggio che presenta in nuce le idee che sostanzieranno il lungometraggio di debutto. Non solo il medesimo set (ancora i territori catastrofati dall’uragano Katrina) e la medesima fetta di popolazione (ancora una comune isolata dal resto del mondo), ma anche un’identica impostazione simil-fiabesca con corrispondente narrazione omodiegetica (un’altra Hushpuppy). Il funzionamento della traccia principale se non è incriticabile poco ci manca, la riproposizione della mitologia classica in salsa americana ha un suo perché (si tratta di Orfeo ed Euridice, sebbene non esplicitato chiaramente il riferimento appare lapalissiano), al pari della “nuova” veste data da Zeitlin agli inferi, piuttosto suggestiva.
Ciò che continua a balbettare per i gusti del sottoscritto è l’azione intensificante che il regista opera dal primo all’ultimo minuto; profusione di musiche su e giù per il corpo filmico (non contesto la qualità, è la quantità a passare il segno, alla fine è come se non si sentisse niente), dinamismo iper-attivo con mix appena passabile di camera a mano, carrellate e piani che se la devono vedere tra l’ampiezza del paesaggio e la restrizione dei volti smagriti, tematizzazione su argomenti che non hanno una pregnanza particolarmente illuminante: si naviga nel già sentito cercando di far leva su una sensibilità plastificata tipica del cinema mainstream. Sia ben chiaro, non deprezzo Zeitlin perché orientato a proporre un cinema di base commerciale, quello che non è in grado di farmelo gradire appieno è il mimetismo con cui cela la vera natura dei suoi lavori, il confondersi nel cosiddetto mondo indipendente maschera in realtà una forte dipendenza dalle logiche dozzinali della rappresentazione hollywoodiana.
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