Cavalo Dinheiro
(2014) è un altro film enorme di Pedro Costa, è la
possibilità di un cinema ulteriore che argomenta la propria
tesi trovando un miracoloso equilibrio tra la completa astrazione e
la totale aderenza realistica. È più di un miracolo: se
osserviamo il movimento concettuale del regista portoghese veniamo a
conoscenza di un progetto autoriale che nel corso degli anni ha
saputo definzionalizzarsi arrivando in un territorio, quello di
questo film, che è dentro ma anche oltre la realtà,
un’opera da eiaculazione celebrale che abbraccia teneramente tutto
il corollario di umanità marginale visto negli esemplari
precedenti: da Ossos (1997), oggetto con ancora elementi di
finzione che ci calava per la prima volta nel degrado degli immigrati
a Lisbona, sostando poi dentro In Vanda’s Room (2000),
monumento cinematografico che ha dato nuove coordinate visive nello
spazio cinema, per arrivare in Colossal Youth (2006),
epitaffio di un quartiere, morte dell’umanità, tomba
artistica. In questa silente indagine Costa ha via via estromesso le
componenti del racconto più marcate affinando uno stile che è
sì narrativo ma che sa tangere la vera realtà, ciò
non può che essere motivo di conforto poiché è
in siffatti termini che il cinema, a mio avviso, è in grado di
esprimere un preciso potenziale, non c’è bisogno di
attorialità né di sceneggiat(ur)e coerentemente
razionali, si può e si deve lavorare sul reale, unico ring che
permette una visione ancora virginale, intatta.
Non che Cavalo
Dinheiro abbia attinenze nel campo documentaristico, d’altronde
è lampante lo studio che Costa compie sul piano ottico
dimostrandosi uno dei migliori sguardi nel saper trattare i corpi
dentro e fuori dal buio (cfr. il capolavoro Ne change rien,
2009), tuttavia questa intensificazione non intacca il nostro
concetto di realismo, è come se l’ospedale in cui Ventura è
ricoverato possa essere plausibilmente così, il
“classico” luogo-non-luogo immerso in una tenebra uterina dove
uomini nascono già morti. Parimenti Costa salpa verso altri
pianeti attuando una magnifica congiunzione tra il mezzo cinema e la
mente di un anziano malato, Ventura, altro essere costiano dopo Vanda
Duarte martire dello sfacelo, che riflette la condizione geografica
dove lui, insieme a molti altri capoverdiani, ha vissuto per anni:
barrio de Fontainhas; il punto è che questo povero quartiere,
così come Colossal Youth ci aveva permesso di vedere,
non esiste più, e di riflesso non esistono più nemmeno
le persone che vi abitavano. Probabilmente nemmeno Ventura esiste,
ectoplasma di se stesso che genera altri ectoplasmi, che fonde il
tempo e lo spazio, che collassa, che muore e risorge, Cavalo
Dinheiro è questo, un consesso di fantasmi, di ricordi,
un’elegia dopo l’elegia (l’incipit mostra delle foto in b/n del
passato, come ovali nelle lapidi), sicuramente una delle
opere-cervello maggiormente memorabili degli ultimi anni poiché
la lettura della mente di Ventura che si dà attraverso il
cinema non è penetrazione bensì invasione, come un
liquido nero il flusso di persone e situazioni che sgorgano dal
poveretto, oltre che generare un senso di profonda e smisurata pietà
verso lui stesso, rompe gli argini della fruizione invitandoci ad un
terso abbandono sensoriale in questo purgatorio di poveri spettri.
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