Non c’è nessun
incipit per O Desolado, nessuna guida che possa indicare una
traiettoria comune, per questo il secondo capitolo della trilogia di
Miguel Gomes contiene tre sottosezioni maggiormente eterogenee se
parificate a quelle precedenti dove invece la dualità
realtà/fantasia applicata al topic della crisi economica
forniva dei parametri interpretativi più accessibili. Qui l’apertura è ampia e, almeno chi scrive, ha faticato di più
a scovare un filo conduttore che fosse in grado di cucire il tessuto
narrativo, anzi diciamo che la fatica è stata vana poiché
ritengo, alla fin fine, che non vi sia un motivo di studio così
localizzato come per Inquieto, sì la “desolazione”
del titolo è forse rinvenibile nell’ultimo episodio anche se
probabilmente ci sarebbe da discutere su cosa sia percepibile come
desolante (tutta la vicenda condominiale per me lo è), mentre
nei primi due non vi è granché che riporti nel suo
interno il nome del film, piuttosto questa prima coppia appare legata
da una sottile connessione civile che potrebbe riguardare la nostra
epoca, quella dei processi mediatici che eleggono il crimine a show e
il criminale a personaggio. Tuttavia non sono affatto convinto di una
tale esegesi e per tale motivo ritengo che, in ultima battuta,
l’unico atteggiamento che si può avere verso O Desolado
è prendere atto della natura ribelle che lo permea e
dell’unica legge che può osservare, quella della forza
narrante libera di scorrazzare nei luoghi delle
storie-non-ancora-raccontate.
Sul primo segmento, la
vicenda del vecchio senza budella, mi viene difficile fare un
approfondimento: non c’è metafora, non c’è un’idea
traslabile oltre lo schermo (se non quella citata sopra: l’assassino
che diventa star, ma è così tenue…), è la
parentesi più asciutta ed austera finora vista in questa opera
extralarge; un vecchio gironzola in un territorio brullo ed
inospitale armato del suo fucile. Punto. Per la sottrazione, per la
cornice naturalistica e per quella soprannaturalistica (il killer
sembra riuscire a teletrasportarsi) viene alla mente il Dumont di
Hors Satan (2011), ma, per continuare a ripetermi, non c’è
un forte aggancio verso qualcosa di altro, lo sfondamento concettuale
è assente ed affiora da parte di Gomes il piacere di
raccontare solo per il gusto di farlo, tanto che a chiudere la
porzione giunge un quadretto nonsense di alcuni boy scout che si
cimentano in varie esercitazioni. Lo stesso non si può dire
della parte successiva, una perla di cinema giudiziario postmoderno
che sembra uscita dalla penna di un Grisham posseduto dallo spirito
di Kafka, c’è di tutto: un anfiteatro come tribunale, i
colpevoli, gli indiziati e le vittime insieme sulle gradinate a
testimoniare una catena di eventi assurda e completamente fuori
controllo (tanto da far piangere l’inflessibile giudice) dove più
ci si inoltra nel suo dispiegamento e più si intorpidisce, i
personaggi, le macchiette, i fantocci (della vacca), le assenze (il
cinese: il colpevole?) portano dentro al film la pluralità
della storia costituita da tante altre sottostorie, è qua la
congiunzione con O Inquieto, sia nella multinarrazione che nel
potente carico allegorico, in una parola: ottimo. Ad abbassare la qualità
generale ci pensa la sezione finale dove è probabile che,
nell’ottica de Le mille e una notte, Shahrazād abbia
rischiato grosso al cospetto del Re Shāhrīyār. Sintetizzando, il
sottoscritto ha ravvisato un Gomes piuttosto innocuo che non riesce
ad essere pungente nel ritratto di desolazione
umano/condominiale che si prefigge di illustrare. Potrà essere
gradevole il rapido avvicendarsi degli abitanti della scala, ma tutto
si ferma alla superficie mostrandosi in una veste estetica che non
porta niente di originale (quanti scenari rionali abbiamo visto nel
cinema? Parecchi, perfino in quello italiano), ed anche la presenza
del cagnolino Dixie non va al di là di quello che viene
inscenato (non sono riuscito a vedere il cane come un collante che
tiene unite queste persone dalla vita agra), e pure il finale,
sebbene caruccio finanche inaspettato, non riesce a fungere da
panacea.
Il film di intermezzo è
un lavoro diverso dal precedente, i tre capitoli che lo costituiscono
sono dotati di una difformità reciproca e di un’indipendenza
da un possibile senso riunificante. Con l’assenza quasi totale
della metafora è un qualcosa che si avvicina al realismo
l’approccio scelto dal regista lusitano, ciò è
legittimo e rientra nella versatilità a cui Gomes ci ha
abituati nel corso della sua carriera. Se posso muovere una critica
lo faccio mettendo a paragone O Inquieto con O Desolado,
quest’ultimo rimane a mio modo di vedere alcuni gradini sotto
proprio a causa di un mastice non pervenuto, la coesione assente dei
vari frammenti ci restituisce un cinema sempre alto ma non fino
all’Iperuranio. E ora pronti per l’ultima tappa: Incantato.
come o dove ti sei procurato questi film? che ci ho provato ma non ci riesco mai a trovare la roba
RispondiEliminaSu emule c'è tutta la trilogia con i sub eng.
RispondiElimina