LA POSSIBILITÀ DI
UN CINEMA
Apice (per quanto potuto
vedere) dell’esplorazione fisica e mentale di Macao da parte del
duo Rodrigues & Rui Guerra da Mata che già si erano mossi
in un territorio sì concreto ma aperto all’impossibile
(Alvorada Vermelha, 2011), A Última Vez Que Vi Macau
(2012), a cui seguiranno sempre nella medesima diade Portogallo-Cina
anche se probabilmente con metodi e tempi differenti Mahjong
(2013) e IEC Long (2015), è la possibilità di un
cinema narrativo che scopre [1] un metodo di affabulazione capace di
prescindere dall’attorialità. Esagerando forse un goccio
potremmo vedere il film come un atto d’eversione che schiaffeggia
il cinema tradizionale, l’idea scaturente è in sostanza che
per raccontare una storia non c’è più la necessità
dei corpi materiali, la malleabilità del digitale permette in
post-produzione di estendere, comprimere, rovesciare e terremotare il
significante, quella che vediamo è fiction moderna in tutta la
sua adattabilità: il reale così risemantizzato si
intensifica, si carica di un altro sensibile, gua(r)da i f(i)umi
della suggestione. Questo procedimento non
può che creare ammirazione nello spettatore attento perché
se c’è un luogo nel cinema che può farsi forum sul
contemporaneo visivo quello è proprio The Last Time I Saw
Macao.
Come riportato nel
commento ad Alvorada Vermelha il co-regista João Rui
Guerra da Mata ha passato l’infanzia a Macao. Il “dettaglio”
non è chiaramente di poco conto visto che l’opera è
attraversata da una faglia che frattura, risalda e mescola il passato
con il presente. La sfumatura biografica (comunque presente con delle
vecchie polaroid che presumibilmente ritraggono lui e la sua
famiglia) si dissolve in uno smarrimento
personale/diegetico/temporale. Vediamo il presente, incarnato
dall’assenza scenica di Guerra da Mata, che vaga in una Macao ormai
completamente deportoghesizzata (ammesso che, per stessa ammissione
del regista, sia mai stata portoghese) dove le briciole di una
possibile presenza lusitana sono date, oltre che dai feticci odierni
come Cristiano Ronaldo, dalle scritte delle strade sui muri in doppia
lingua o dalle lapidi del cimitero. La coesistenza di un prima durato
quattrocento anni e di un dopo molto più recente, giusto tre
lustri, origina un testacoda stordente, una congiunzione astrale che
fa da apripista ad una fine, dell’anno e magari di una vita: “e
poi ho capito perché sono tornato a Macao trent’anni dopo”.
Espandendo lo spettro
interpretativo è ravvisabile un’ulteriore concomitanza,
quella categoriale. Se da una parte il film è per l’appunto
non catalogabile poiché frammentato, disperso e simulatore di
apparati documentaristici, dall’altra, in uno slancio nostalgico,
si ostina a strutturare il racconto per mezzo di un finto scheletro
crime. Finto perché appare evidente fin da subito quanto lo
strano filo conduttore nei fatti non conduca a niente, è un
valido escamotage indecifrabile (e la gabbietta cosa sarà? Non
ditemelo, non mi interessa saperlo) atto ad innervare lo studio della
coppia registica: rifacendosi al passato e al presente, avvalendosi
delle loro epifanie, e rimodulando le prassi visivo-narrativo, hanno
fornito una lezione che va anche al di là del cinema: il futuro
non può che essere nell’integrazione.
________________
[1] In realtà non
scopre niente perché come da sempre è solo
l’avanguardia che può “scoprire” nuove forme, nuovi
codici. Rodrigues è molto bravo, ma qui, come giustamente
riportato da Sangiorgio (link), aleggia potente il cinema di Chris
Marker.
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