giovedì 7 aprile 2016

Hope

Si vede che Pedro Pires non è uno sprovveduto nel fare quello che fa, anche un occhio come quello del sottoscritto (che poco sa del dietro le quinte di un un’opera) comprende il livello qualitativo degli strumenti utilizzati, non solo: Pires, francese di nascita ma canadese di fatto, dimostra una certa personalità patinando il suo cortometraggio in un mo(n)do che si avvicina moltissimo al videoclip. Ora, questa tendenza di Hope (2011) ad assomigliare ad un prodotto visivamente legato all’area musicale si allontana non di poco da certi ideali che almeno io ritengo indispensabili per parlare di un cinema “buono”, non vorrei generalizzare e quindi passare per un superficiale ma per quello che ho potuto vedere l’arte del videoclip si basa sulla laccatura dell’immagine, sulla sua intensificazione, sulla ripetizione atta a creare rime ottiche, tutte azioni che Pires compie in Hope e che seppur legittime si scontrano con il mio gusto personale.

È vero che da un certo periodo preferisco una forma di narrazione che si allontana dai canonici meccanismi affabulativi, ed è per tale motivo che ho apprezzato opere come Pigs (2011) o Pude ver un puma (2011), ma Hope, sebbene in apparenza abbia dei connotati non così dissimili dai lavori appena citati (anche qua il racconto non esiste e si punta più sul suggestionabile che sull’illustrabile), non ha la stessa energia ed il motivo lo rintraccio nel discorso della profusa estetizzazione che ammanta il film. È tutto molto perfetto, dal seppiato allo slow-motion, al pari di quanto tutto è finto, plastificato, confezionato per essere un’istantanea che non sa penetrare nelle stanze buie ed umide della nostra mente. In estrema sintesi, colpito da una fulminante afasia, penso che ad Hope manchi un’anima.

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