Si vede che Pedro Pires
non è uno sprovveduto nel fare quello che fa, anche un occhio
come quello del sottoscritto (che poco sa del dietro le quinte di un
un’opera) comprende il livello qualitativo degli strumenti
utilizzati, non solo: Pires, francese di nascita ma canadese di
fatto, dimostra una certa personalità patinando il suo
cortometraggio in un mo(n)do che si avvicina moltissimo al videoclip.
Ora, questa tendenza di Hope (2011) ad assomigliare ad un
prodotto visivamente legato all’area musicale si allontana non di
poco da certi ideali che almeno io ritengo indispensabili per parlare
di un cinema “buono”, non vorrei generalizzare e quindi passare
per un superficiale ma per quello che ho potuto vedere l’arte del
videoclip si basa sulla laccatura dell’immagine, sulla sua
intensificazione, sulla ripetizione atta a creare rime ottiche, tutte
azioni che Pires compie in Hope e che seppur legittime si
scontrano con il mio gusto personale.
È vero che da un
certo periodo preferisco una forma di narrazione che si allontana dai
canonici meccanismi affabulativi, ed è per tale motivo che ho
apprezzato opere come Pigs (2011) o Pude ver un puma
(2011), ma Hope, sebbene in apparenza abbia dei connotati non
così dissimili dai lavori appena citati (anche qua il racconto
non esiste e si punta più sul suggestionabile che
sull’illustrabile), non ha la stessa energia ed il motivo lo
rintraccio nel discorso della profusa estetizzazione che ammanta il
film. È tutto molto perfetto, dal seppiato allo slow-motion,
al pari di quanto tutto è finto, plastificato,
confezionato per essere un’istantanea che non sa penetrare nelle
stanze buie ed umide della nostra mente. In estrema sintesi, colpito da una fulminante afasia, penso che
ad Hope manchi un’anima.
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