Giocattolino olandese
aggiudicatosi l’Orso d’Oro a Berlino 2007 che fa leva su un
meccanismo narrativo utilizzato in lungo e in largo in ambito
cinematografico, sorta di falsa progressione che riparte ogni volta
dal via, da queste parti abbiamo potuto vedere qualcosa di
equipollente con Timecrimes (2007) o con Lights Out
(2010) (ma gli esempi sono davvero molteplici e ad ognuno di voi ne
verrà in mente qualcuno), Raak (2006) si affida a tale
dispositivo per l’esposizione dei fatti. Chiaro che il suddetto
Hanro Smitsman, regista che nel curriculum ha un paio di titoli sulla
carta interessanti, non osa particolarmente nell’area strutturale,
è anche vero però che con una durata inferiore ai dieci
minuti un po’ di “maniera” la si può anche accettare a
cuor leggero. Perché dribblando la derivazione teorica che
fonda il corto, in questo breve ritratto di vite tira un’aria
frizzantina che non vuole certo nascondere un diffuso malumore
trasversale, un’insoddisfazione che sembra propagarsi dalla madre
verso il figlio e che trova in quest’ultimo una chiave di volta
catartica.
Se così possiamo
intendere Rik, l’ultimo gesto, recidivo e solo abbozzato poiché
non ripreso nel suo compimento, scardina il loop che ingabbia il film
mostrando quindi una via di fuga (drammatica in un contesto
tragicomico) incapace però di rivelare un’effettiva uscita
dal cerchio; prima che da quel cavalcavia precipiti o meno un sasso
compaiono i titoli di coda accompagnati da una subdola nenia, che
cosa sia successo (o stia succedendo!) sosta nel limbo delle storie
mai raccontate, quelle che in fondo ci piacciono di più.
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