lunedì 11 aprile 2016

Raak

Giocattolino olandese aggiudicatosi l’Orso d’Oro a Berlino 2007 che fa leva su un meccanismo narrativo utilizzato in lungo e in largo in ambito cinematografico, sorta di falsa progressione che riparte ogni volta dal via, da queste parti abbiamo potuto vedere qualcosa di equipollente con Timecrimes (2007) o con Lights Out (2010) (ma gli esempi sono davvero molteplici e ad ognuno di voi ne verrà in mente qualcuno), Raak (2006) si affida a tale dispositivo per l’esposizione dei fatti. Chiaro che il suddetto Hanro Smitsman, regista che nel curriculum ha un paio di titoli sulla carta interessanti, non osa particolarmente nell’area strutturale, è anche vero però che con una durata inferiore ai dieci minuti un po’ di “maniera” la si può anche accettare a cuor leggero. Perché dribblando la derivazione teorica che fonda il corto, in questo breve ritratto di vite tira un’aria frizzantina che non vuole certo nascondere un diffuso malumore trasversale, un’insoddisfazione che sembra propagarsi dalla madre verso il figlio e che trova in quest’ultimo una chiave di volta catartica.

Se così possiamo intendere Rik, l’ultimo gesto, recidivo e solo abbozzato poiché non ripreso nel suo compimento, scardina il loop che ingabbia il film mostrando quindi una via di fuga (drammatica in un contesto tragicomico) incapace però di rivelare un’effettiva uscita dal cerchio; prima che da quel cavalcavia precipiti o meno un sasso compaiono i titoli di coda accompagnati da una subdola nenia, che cosa sia successo (o stia succedendo!) sosta nel limbo delle storie mai raccontate, quelle che in fondo ci piacciono di più.

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