mercoledì 22 gennaio 2020

Mahjong

Sempre grande ammirazione per il duo lusitano João Rui Guerra da Mata - João Pedro Rodrigues quando imbraccia la videocamera e se ne va a zonzo tra l’oriente e l’occidente, un movimento, questo, che nel novero delle loro produzioni “asiatiche” non è stato con ogni probabilità soltanto geografico ma, ovviamente, anche concettuale, ciò ha permesso loro di spaziare tra i generi e le forme: di giocare, davvero, e Mahjong (2013) in tal senso è un po’ il compendio di un’ottica ludica non solo perché, appunto, Mahjong è un gioco di origini cinesi (dalle immagini assomiglia a Scarabeo), ma anche perché João & João giocano, cuciono sul girato registri dislocanti, si divertono ad apparire in video, falsificano il documentario, lo inverano, insomma: fanno quel che più li aggrada. Dunque l’ammirazione rimane sebbene Mahjong, a confronto con tutti gli altri titoli del ciclo cinese, risulta il più leggerino e forse la motivazione principe riguarda il fatto che il corto lo si avverte meno indipendente degli altri, nel senso: l’ombra di The Last Time I Saw Macao (2012) è più di un’ombra, è rimando fin troppo concreto poiché nel corto in oggetto sembra ripetersi un certo schema, e nonostante l’azione si svolga a Varziela, una terra di nessuno da qualche parte in Portogallo, abbiamo nuovamente Rui Guerra da Mata impegnato a cercare qualcosa che brama (una donna, naturalmente), e si ripresenta una simile impostazione noir dalla stramba essenza. Ecco, per farla breve avvertire Mahjong come una specie di protesi del lungometraggio sopraccitato non accende l’entusiasmo.

Se si va oltre al raffronto (che non è mai un buon metro di giudizio) il film funziona anche e lo fa esprimendosi per mezzo di un’assodata maestria capace di trasformare delle banali riprese notturne all’interno di un’automobile in carrellate cariche di suspence e attesa. Ma attesa di cosa? È infatti qui il nocciolo della faccenda, i due registi costruiscono con davvero poco una piccola cappa di tensione in cui non ci è permesso di capire granché se non il realizzare ancora una volta che il Mistero non va svelato perché altrimenti perde di fascino (ed anche se nel finale si palesa il possibile motivo del girovagare dell’uomo poco o niente si deprezza di quanto visto prima). C’è un bel lavoro sull’atmosfera, inutile nasconderlo, i manichini, persone inanimate al pari delle farfalle e dei colibrì meccanici che popolano la zona, il degrado ambientale (veniamo edotti a proposito di un incendio nell’incipit), la riproposizione di una donna che cammina lungo le strade desolate ed il dettaglio reiterato della scarpa col tacco, sono tutti elementi che solidificano il feeling con chi sta guardando. Chi scrive non ha trovato una corrispondenza illuminante nell’argomentare l’est e l’ovest (ma “chi scrive” invecchia ed è sempre più stanco e tonto) né vi ha rintracciato quel tocco capace di dare un plus (la sirena ectoplasmica di Alvorada Vermelha, 2011), ma comunque il prodotto in sé resta valido e al di là della connessione alla pellicola del 2012 merita una visione.

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