Sempre
grande ammirazione per il duo lusitano João Rui Guerra da Mata -
João Pedro Rodrigues quando imbraccia la videocamera e se ne va a
zonzo tra l’oriente e l’occidente, un movimento, questo, che nel
novero delle loro produzioni “asiatiche” non è stato con ogni
probabilità soltanto geografico ma, ovviamente, anche concettuale,
ciò ha permesso loro di spaziare tra i generi e le forme: di
giocare, davvero, e Mahjong (2013) in tal senso è un po’ il
compendio di un’ottica ludica non solo perché, appunto, Mahjong è
un gioco di origini cinesi (dalle immagini assomiglia a
Scarabeo), ma anche perché João & João giocano,
cuciono sul girato registri dislocanti, si divertono ad apparire in
video, falsificano il documentario, lo inverano, insomma: fanno
quel che più li aggrada. Dunque l’ammirazione rimane sebbene
Mahjong, a confronto
con tutti gli altri titoli del ciclo cinese, risulta il più
leggerino e forse la motivazione principe riguarda il fatto che il
corto lo si avverte meno indipendente degli altri, nel senso: l’ombra
di The Last Time I Saw Macao
(2012) è più di un’ombra, è rimando fin troppo concreto poiché
nel corto in oggetto sembra ripetersi un certo schema, e nonostante
l’azione si svolga a Varziela, una terra di nessuno da qualche
parte in Portogallo, abbiamo nuovamente Rui Guerra da Mata impegnato
a cercare qualcosa che brama (una donna, naturalmente), e si
ripresenta una simile impostazione noir dalla stramba essenza. Ecco,
per farla breve avvertire Mahjong come
una specie di protesi del lungometraggio sopraccitato non accende
l’entusiasmo.
Se
si va oltre al raffronto (che non è mai un buon metro di giudizio)
il film funziona anche e lo fa esprimendosi per mezzo di un’assodata
maestria capace di trasformare delle banali riprese notturne
all’interno di un’automobile in carrellate cariche di suspence e
attesa. Ma attesa di cosa? È infatti qui il nocciolo della faccenda,
i due registi costruiscono con davvero poco una piccola cappa di
tensione in cui non ci è permesso di capire granché se non il
realizzare ancora una volta che il Mistero non va svelato perché
altrimenti perde di fascino (ed anche se nel finale si palesa il possibile motivo
del girovagare dell’uomo poco o niente si deprezza di quanto visto
prima). C’è un bel lavoro sull’atmosfera, inutile nasconderlo, i
manichini, persone inanimate al pari delle farfalle e dei colibrì
meccanici che popolano la zona, il degrado ambientale (veniamo edotti
a proposito di un incendio nell’incipit), la riproposizione di una
donna che cammina lungo le strade desolate ed il dettaglio reiterato
della scarpa col tacco, sono tutti elementi che solidificano il
feeling con chi sta guardando. Chi scrive non ha trovato una
corrispondenza illuminante nell’argomentare l’est e l’ovest (ma
“chi scrive” invecchia ed è sempre più stanco e tonto) né vi
ha rintracciato quel tocco capace di dare un plus (la sirena
ectoplasmica di Alvorada Vermelha,
2011), ma comunque il prodotto in sé resta valido e al di
là della connessione alla pellicola del 2012 merita una visione.
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