Film sbilenco e
seducente, come ci si poteva attendere, ma, come al contrario non ci
si aspettava, divergente, per buona parte, dal precedente Phantom Love (2007), Hitparkut (2010), per ora l’ultima fatica
di Nina Menkes, è sì girato in bianco e nero al pari dell’opera
di tre anni prima, però in digitale, saturando quindi le tinte unite
che alla vista possiedono un altro smalto rispetto alla pellicola, e
di nuovo l’apparato categoriale si fregia di una cifra insolita che
ad ogni modo si stacca da quanto già visionato, la Menkes qui tiene
leggermente più a bada l’estro sperimentale in favore di una
sottospecie di realismo lacerato da arcane aperture. È uno di quei
casi, nemmeno troppo isolati se si bazzica certo cinema, in cui al
cospetto di una trama fieramente evanescente è meglio ricorrere al
proprio spazio suggestionabile, una zona in cui Dissolution
lavora molto bene e dove la logicità dei meccanismi
causaeffettistici lascia il posto ai flussi dell’impressione, della
sensazione, della percezione. Capisco che non si dica nulla di nuovo
affermando ciò, ma una piccola verità ci ricorda che se alcune
opere sono difficili da “vedere” allora sarà altrettanto arduo
scrivere su di esse in quanto specifiche manifestazioni
cinematografiche, delle quali Dissolution fa parte, si
palesano attraverso sporadici folgorii inframezzati, magari, anche da
noia, sequenze vuote, superflue, ripetitive, ma le suddette
lucentezze (ad esempio: l’incidente stradale, la scia di sangue, il
cavallo) sono così potenti da meritarsi tutta la nostra attenzione
visiva, a prescindere da un andamento non sempre al massimo della
fascinazione.
Quello che la regista,
ovviamente a modo suo, ci vuole raccontare è un ambiente urbano,
nello specifico un quartiere arabo di Tel Aviv, che emana uno stato
di profusa desolazione e, semplicemente, ci riesce mostrando il meno
possibile (l’uccisione della donna ha un che di hanekiano) e
procedendo in modo antiletterale (lo scontro automobilistico non ha
spiegazioni, eppure è probabilmente ciò che rimarrà di più nella
memoria spettatoriale), il tutto iniettato da inserti weird
che elettrizzano (c’è una attenzione particolare agli animali, sia
morti che vivi, con un legame, da decifrare, tra il protagonista e
una lumaca), ne consegue che pur non sapendo niente del contesto
ripreso, se ne avverte la carica negativa costituita da solitudini
varie (il club lynchiano), minacce in agguato (i tizi sulla macchina
bianca), violenze ed angherie diffuse (l’accoltellamento di una
donna da parte del fidanzato geloso). Capire, capire è una pretesa,
quasi un lusso, si morirà dicendo che spesso è invece bello non
capire, almeno non nei termini che l’arte classica insegna da
secoli ai suoi pii discepoli, poiché la comprensione può situarsi
anche nello scarto tra due immagini completamente diverse ed
inconciliabili, come la magnifica e dantesca discesa verso un
confessionale e l’apocalittica apparizione di alcuni cavalli
galoppanti.
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