giovedì 16 gennaio 2020

Dissolution

Film sbilenco e seducente, come ci si poteva attendere, ma, come al contrario non ci si aspettava, divergente, per buona parte, dal precedente Phantom Love (2007), Hitparkut (2010), per ora l’ultima fatica di Nina Menkes, è sì girato in bianco e nero al pari dell’opera di tre anni prima, però in digitale, saturando quindi le tinte unite che alla vista possiedono un altro smalto rispetto alla pellicola, e di nuovo l’apparato categoriale si fregia di una cifra insolita che ad ogni modo si stacca da quanto già visionato, la Menkes qui tiene leggermente più a bada l’estro sperimentale in favore di una sottospecie di realismo lacerato da arcane aperture. È uno di quei casi, nemmeno troppo isolati se si bazzica certo cinema, in cui al cospetto di una trama fieramente evanescente è meglio ricorrere al proprio spazio suggestionabile, una zona in cui Dissolution lavora molto bene e dove la logicità dei meccanismi causaeffettistici lascia il posto ai flussi dell’impressione, della sensazione, della percezione. Capisco che non si dica nulla di nuovo affermando ciò, ma una piccola verità ci ricorda che se alcune opere sono difficili da “vedere” allora sarà altrettanto arduo scrivere su di esse in quanto specifiche manifestazioni cinematografiche, delle quali Dissolution fa parte, si palesano attraverso sporadici folgorii inframezzati, magari, anche da noia, sequenze vuote, superflue, ripetitive, ma le suddette lucentezze (ad esempio: l’incidente stradale, la scia di sangue, il cavallo) sono così potenti da meritarsi tutta la nostra attenzione visiva, a prescindere da un andamento non sempre al massimo della fascinazione.

Quello che la regista, ovviamente a modo suo, ci vuole raccontare è un ambiente urbano, nello specifico un quartiere arabo di Tel Aviv, che emana uno stato di profusa desolazione e, semplicemente, ci riesce mostrando il meno possibile (l’uccisione della donna ha un che di hanekiano) e procedendo in modo antiletterale (lo scontro automobilistico non ha spiegazioni, eppure è probabilmente ciò che rimarrà di più nella memoria spettatoriale), il tutto iniettato da inserti weird che elettrizzano (c’è una attenzione particolare agli animali, sia morti che vivi, con un legame, da decifrare, tra il protagonista e una lumaca), ne consegue che pur non sapendo niente del contesto ripreso, se ne avverte la carica negativa costituita da solitudini varie (il club lynchiano), minacce in agguato (i tizi sulla macchina bianca), violenze ed angherie diffuse (l’accoltellamento di una donna da parte del fidanzato geloso). Capire, capire è una pretesa, quasi un lusso, si morirà dicendo che spesso è invece bello non capire, almeno non nei termini che l’arte classica insegna da secoli ai suoi pii discepoli, poiché la comprensione può situarsi anche nello scarto tra due immagini completamente diverse ed inconciliabili, come la magnifica e dantesca discesa verso un confessionale e l’apocalittica apparizione di alcuni cavalli galoppanti.

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