giovedì 9 gennaio 2020

The Wanderer

Quando si legge la parola “errare” non si può non ricorrere alla sua duplicità semantica, per questo il soprannome che Isaac si dà calza in modo perfetto, e so benissimo che probabilmente in ebraico il lemma non ha una doppia accezione come per l’italiano, tuttavia: faccio finta di niente e sottolineo di quanto il protagonista ami vagabondare per delle strade che lo turbano (l’inizio, geometrico e siderale, lo vede in una metaforica e claustrofobica via dritta e soffocante, mentre successivamente, ad una fermata del bus, verrà quasi umiliato dalla libertà che lo circonda) e contemporaneamente avverte la necessità di sbagliare, di compiere azioni che lo liberino in qualche modo dalla mano (quella paterna, a sua volta pressata da quella religiosa) che lo opprime, il risultato, inevitabile, è che il ragazzo sta male, ed è un malessere che Avishai Sivan, qui all’esordio, veicola per mezzo di un cinema che medita sull’immagine, che occupa tempistiche diluite nei silenzi, sia casalinghi che urbani, e che quindi ci racconta di un dolore, fisico, personale, forse ancestrale visto il nome biblico e visto, più nello specifico, il misterioso passato del padre. Sivan girando Ha’Meshotet (2010) in un ambiente ultraortodosso fa sì che il suo film diventi ineluttabilmente uno spazio di riflessione in cui i concetti cardinali di una religione, di una cultura, di un modo di vivere ritualista e tradizionalista impattano con la singolarità dell’essere umano e la sua emancipazione (all’imposizione coniugale Isaac risponde con un coito racimolato per strada), e tale scontro, lo si sappia, è un piacere da vedere/capire.

Enucleate le qualità di The Wanderer è difficile non ripensare a Tikkun e osservare nel film del 2015 una rielaborazione dell’opera prima, le similitudini sono numerose, sia nell’impianto generale (stile e temi) che in quello particolare (identico focus su un ragazzo disorientato dalla vita) e perfino nei dettagli (ci sono scene gemelle come l’autostop o la nottata sulla spiaggia), ora, l’accostamento potrebbe sminuire più Tikkun che The Wanderer per evidenti deduzioni logiche, ma, e lasciatemi scadere nel banale, Sivan è proprio bravo ed anche al netto di una ripetizione estetico-contenutistica assistere a due pellicole pressoché sovrapponibili non risulta affatto tempo perso poiché vi è dell’alta autorialità all’interno. Tornando ancora un attimo ad Ha’Meshotet risuona con maggiore intensità rispetto al titolo successivo tutta una vibrazione legata alla sessualità che monta delle sensazioni a cui va prestata una certa attenzione, la stessa che la realtà talmudica chiede alle nostre concezioni occidentali, difatti, lasciando da parte i possibili giudizi come sempre miniaturizzanti, film del genere forniscono la preziosa opportunità di avvicinarsi a mondi estranei di cui saremo sempre turisti, ma che bello starsene sul divano di casa propria ed entrare in una yeshivah.

Nota a margine: sul sito di Avishai Sivan, alla voce Rejection Letters, c’è una sezione in cui il regista ha pubblicato gli screen di alcune corrispondenze avute con vari festival cinematografici in cui con forzata educazione i vari interlocutori gli rispediscono indietro le opere da lui proposte per quella specifica manifestazione. È una cosa parecchio divertente ed anche un pochino sconsolante.

Nessun commento:

Posta un commento