Quando si legge la parola
“errare” non si può non ricorrere alla sua duplicità semantica,
per questo il soprannome che Isaac si dà calza in modo perfetto, e
so benissimo che probabilmente in ebraico il lemma non ha una doppia
accezione come per l’italiano, tuttavia: faccio finta di niente e
sottolineo di quanto il protagonista ami vagabondare per delle strade
che lo turbano (l’inizio, geometrico e siderale, lo vede in una
metaforica e claustrofobica via dritta e soffocante, mentre
successivamente, ad una fermata del bus, verrà quasi umiliato dalla
libertà che lo circonda) e contemporaneamente avverte la
necessità di sbagliare, di compiere azioni che lo liberino in
qualche modo dalla mano (quella paterna, a sua volta pressata da
quella religiosa) che lo opprime, il risultato, inevitabile, è che
il ragazzo sta male, ed è un malessere che Avishai Sivan, qui
all’esordio, veicola per mezzo di un cinema che medita
sull’immagine, che occupa tempistiche diluite nei silenzi, sia
casalinghi che urbani, e che quindi ci racconta di un dolore, fisico,
personale, forse ancestrale visto il nome biblico e visto, più nello
specifico, il misterioso passato del padre. Sivan girando Ha’Meshotet
(2010) in un ambiente ultraortodosso
fa sì che il suo film diventi ineluttabilmente uno spazio di
riflessione in cui i concetti cardinali di una religione, di una
cultura, di un modo di vivere ritualista e tradizionalista impattano
con la singolarità dell’essere umano e la sua emancipazione
(all’imposizione coniugale Isaac risponde con un coito racimolato
per strada), e tale scontro, lo si sappia, è un piacere da
vedere/capire.
Enucleate
le qualità di The Wanderer è
difficile non ripensare a Tikkun
e osservare nel film del 2015 una rielaborazione dell’opera prima,
le similitudini sono numerose, sia nell’impianto generale (stile e
temi) che in quello particolare (identico focus su un ragazzo
disorientato dalla vita) e perfino nei dettagli (ci sono scene
gemelle come l’autostop o la nottata sulla spiaggia), ora,
l’accostamento potrebbe sminuire più Tikkun
che The Wanderer per evidenti deduzioni
logiche, ma, e lasciatemi scadere nel banale, Sivan è proprio bravo
ed anche al netto di una ripetizione estetico-contenutistica
assistere a due pellicole pressoché sovrapponibili non risulta
affatto tempo perso poiché vi è dell’alta autorialità
all’interno. Tornando ancora un attimo ad Ha’Meshotet
risuona con maggiore intensità rispetto al titolo successivo tutta
una vibrazione legata alla sessualità che monta delle sensazioni a
cui va prestata una certa attenzione, la stessa che la realtà
talmudica chiede alle nostre concezioni occidentali, difatti,
lasciando da parte i possibili giudizi come sempre miniaturizzanti,
film del genere forniscono la preziosa opportunità di avvicinarsi a
mondi estranei di cui saremo sempre turisti, ma che bello starsene
sul divano di casa propria ed entrare in una yeshivah.
Nota a margine: sul sito di Avishai Sivan, alla voce Rejection Letters, c’è una sezione in cui il regista ha pubblicato
gli screen di alcune corrispondenze avute con vari festival
cinematografici in cui con forzata educazione i vari interlocutori
gli rispediscono indietro le opere da lui proposte per quella
specifica manifestazione. È una cosa parecchio divertente ed anche
un pochino sconsolante.
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