domenica 12 marzo 2023

In the Traveler’s Heart

Più che di un viaggiatore il cuore nel quale sostiamo per milleduecento secondi potrebbe appartenere ad un esploratore. Il condizionale è obbligatorio, dobbiamo cercare di domare un altro esemplare partorito dalla scoppiettante mente del duo Gustavo Jahn - Melissa Dullius e quindi niente, ma davvero niente, è certo. In the Traveler’s Heart (2013), commissionato dal Contemporary Art Centre di Vilnius, offre un possibile appiglio nei primi minuti dove la mdp, con l’obiettivo puntato sul mare, in prossimità della battigia alza la traiettoria visiva per riprendere una figura in piedi sulla collina, subito dopo la scena si ripete identica ma la figura umana è sparita. I registi battono parecchio sulla coesistenza di due (definiamoli) esploratori (anche se il loro outfit li pone a metà strada tra l’essere un cowboy e un templare), interpretati dagli autori stessi, che si sfiorano lungo un cammino desolato, spoglio, fatto di neve e alberi. L’idea che seduce, ma che va presa giusto come un’ipotesi, è che in realtà i due siano la medesima persona scissa per motivazioni che non è dato sapere, prova ne sarebbe la stella che portano sul petto, una nera e l’altra bianca a mo’ di yin e yang, e nel momento in cui si ricongiungono un evento accade: nasce un fiore, si pianta una bandiera. Il viaggiatore ha raggiunto la meta.

Paragonando In the Traveler’s Heart con le altre due opere della coppia brasiliana, ovvero Cat Effekt (2011) e Muito Romântico (2016), manca quel discorso concettuale intorno alla settima arte, la ragione principe sarà probabilmente dovuta al minor minutaggio, ma non solo a mio avviso: ok che l’impronta estetica è molto simile ai lungometraggi appena citati (e giù di pellicola scorticata, decolorata, retrò), però l’attenzione che Jahn e Dullius pongono pare volgersi verso il loro riflesso artistico, il film lo si vive più come una perfomance di Gustavo e Melissa che una manifestazione (autoriale, sperimentale o non so neanche io cosa) di cinema. È sterile onanismo? È altezzosità bohémien? Uff, discorso che mi coglie impreparato e che mi piacerebbe, se i blog fossero ancora uno spazio di confronto e non un monologo disperso nelle pieghe della Rete, venisse approfondito perché la ricerca, in ogni disciplina, è tutto, bisognerebbe solo tentare di capire dove sta, e se esiste, un confine tra studio e arroganza, dal canto mio dico che comunque, seppur circondato dall’astrattezza totale, il senso di smarrimento, di turbamento, di vuoto della donna l’ho sentito.

martedì 7 marzo 2023

Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia

Un uomo parla, pacifico, l’accento assente, un girocollo nero, dei libri sullo sfondo. L’immagine, al pari di altre che compariranno, è di repertorio e quell’uomo che racconta di un pescatore e della moglie che è una regina, si chiama Danilo Dolci. Per ripercorrere, per ritornare, per riallacciare uno dei tanti fili che disegnano dei cerchi esistenziali, Leandro Picarella e Giovanni Rosa si servono di un alfiere che è sangue del sangue di Dolci, En (“uno” in svedese, il più piccolo dei suoi figli), un ragazzo che torna in Sicilia nelle strade in cui il padre è arrivato quando nel dopoguerra non c’era niente se non una miseria abissale testimoniata da straordinari filmati d’archivio qui alternati alle riprese del presente. Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia (2014) è quindi un documentario dal cuore diviso in due: è biografico, almeno lo è nei riguardi della cospicua porzione di vita che Dolci ha passato in terra sicula, ed è divulgativo ma in un senso che trasuda umanità perché è di questo che si occupa: di un umanista, di uno che gli spagnoli definirebbero hombre vertical, un pioniere, uno che sicuramente ha avuto coraggio: andare laggiù, tra gli ultimi, dandosi agli altri in uno slancio altruista che l’intervistato Goffredo Fofi definisce “cristianesimo sociale”, e fare coesione, parlando con gli adulti, ascoltando i bambini, sfidando lo Stato (ecco un’altra pagina squisitamente italiana: venire processati per cercare di rimettere in sesto una strada comunale) e la mafia. E il sottoscritto non sapeva nulla di tutto ciò prima di visionare Dio delle Zecche, non avevo mai intercettato il nome di Dolci né avevo mai sentito parlare del suo operato, sicché mi sento di ringraziare a prescindere di ogni giudizio qualitativo Picarella & Rosa, il cinema può essere una splendida superficie rifrangente che ci illumina di raggi sconosciuti.

Per iperbole mi sento di affermare che Dio delle Zecche è superiore al film successivo di Picarella sebbene sono fondamentalmente conscio che non lo sia, però Triokala (2015) a causa di una tendenza a ricalcare certi paradigmi che hanno ormai costituito un canone prettamente italico (ambientazione bucolica; folklore; dialetti; labilità del confine reatà/finzione) mi è parso paradossalmente meno “vero” rispetto al ritratto su Dolci, o forse dovrei dire meno “sentito”, il che è anche comprensibile visto il carotaggio emotivo che viene effettuato, l’idea del figlio che parte dalla fredda Stoccolma per dirigersi a sud sulle tracce del papà, la commozione e il silenzio, sono a mio avviso segnali concreti di come i due registi abbiano ben esposto il legame tra Danilo ed En che, attraverso una filigrana di non detto, suggerisce di quanto il secondo abbia fame di conoscenza (e affetto) nei confronti del primo. Ma è in generale la cornice etno-antropologica a convincere, i già citati intermezzi in bianco a nero sono un ottimo rimpallo con la contemporaneità e ambedue le istanze temporali certificano l’importanza di un ulteriore legame che ha protagonista Dolci: quello con le persone che ha incontrato, dai collaboratori stretti agli umili abitanti di Trappeto e Partinico, ed è quindi l’assenza, con la sua implacabile nostalgia, che pian piano fa capolino, e certo il signor Dolci mancherà ad En, a Libera, a Cielo e agli altri figli diretti e indiretti che magari, senza nemmeno saperlo, sono nati in un posto migliore proprio grazie a lui, ma ovviamente manca anche a noi perché mancheranno sempre figure di una così alta levatura morale, uomini colti, liberi, vicini a chi ha bisogno e lontani dai marcescenti centri gravitazionali del potere.

giovedì 2 marzo 2023

Ága

Opera seconda del regista bulgaro Milko Lazarov dopo Alienation (2013), Ága (2018) piazza sul tavolo da gioco la carta esotica: ma come, dice Lazarov, faccio un film su una coppia di eschimesi che abita nel nord più nord della Terra e tu non te lo guardi? Eh, esca lanciata ed eccomi nelle vesti di pesciolino con un amo conficcato nella guancia. Che poi, tanto per snocciolare qualche informazione, non sono sicuro che Nanook e Sedna possano essere categorizzati come “eschimesi”, ci troviamo in Jacuzia, una vasta area siberiana che, come ricorda Wikipedia, è l’unità amministrativa più estesa al mondo, ma questo dettaglio lo si apprende soltanto andando a leggere le interviste/recensioni sparse per la Rete, Lazarov in tal senso non dà alcuna coordinata e a meno che non parliate la lingua sacha, la storia, per quanto riusciamo a saperne (: nulla), potrebbe svolgersi in Alaska, in Groelandia o in qualunque altra zona dove le temperature si assestano ben ben sotto lo zero per buona parte dell’anno. La cornice si fa quindi universale e rende marito e moglie un po’ gli ultimi sopravvissuti del pianeta, ad accentuare la situazione ci pensa un formato panoramico (per cui sarebbe d’uopo una visione su grande schermo) che esalta l’immensità dell’ambiente in contrasto con la piccolezza dell’essere umano, il regista nel proporre i suo quadri innevati attraverso una dilatazione dei tempi pare dotato del giusto occhio, quello che dà giustizia alla potenza icastica dell’immagine, e se Ága ha un pregio è difficile non rintracciarlo nel suo mostrarsi con campi totali pieni di nebbia e candore. Si chiederà: ok, ma c’è altro oltre alla veste estetica? Le vie del cinema sono religiosamente infinite e avrebbe potuto anche non esserci altro, ma Lazarov ha scelto di fare un film narrativo pertanto c’è, per forza, dell’altro. E non è che sia un gran bene.

Meglio sgombrare il campo dal dubbio principe: Ága è pura finzione, i coniugi non sono tali bensì attori del luogo, essi non vivono in quella capanna come presumibilmente nessuno più, ora, vive in quel modo, è tutta rappresentazione, artificio, e quindi soggetto a seguire diligentemente uno schema prestabilito, questo schema si chiama Piramide di Freytag. Ogni volta che avete maneggiato, o lo farete in futuro, un racconto puro o un esemplare di cinema come Ága che si appoggia su di esso, dovrete fare i conti con una struttura non smantellabile: il primo passo è l’Esposizione (la vita al limite dell’uomo e la donna; i loro rituali; la caccia; il quotidiano; il legame tra i due), il secondo è l’Introduzione del conflitto (il figlio fa intendere che Ága, la sorella, se ne è andata via per lavorare in una miniera e che da parecchio non ha contatti con la famiglia), il terzo è l’Azione ascendente (Sedna ha una ferita alla pancia, Nanook vede delle volpi morte che hanno delle lesioni simili), il quarto è il Climax (Sedna muore), il quinto è l’Azione discendente (Nanook abbandona la capanna e si incammina verso la miniera), il sesto e ultimo è la Risoluzione (l’incontro tra padre e figlia). Le cose stanno così, da sempre. E va benissimo, io che sono niente me ne sto tranquillo nell’invisibile, solo penso: ma dopo uno sforzo produttivo che si immagina notevole, con grandi difficoltà logistiche e organizzative, perché far colare il raffinato precipitato in uno stampino omologante? Mi consenta sig. Lazarov: che peccato! Io avrei spinto sul pedale metafisico, acuito i segnali di una fine imminente per Sedna e cambiato il finale perché il sottofondo di archi che rimarca gli sguardi padre-figlia nel momento dell’incontro non si può proprio sentire, troppo pompato, troppo fuori misura. Troppo. Ma io alla Berlinale non ci entro neanche dalla porta di servizio, sicché levo le dita dalla tastiera.

domenica 26 febbraio 2023

The Aftermath of the Inauguration of the Public Toilet at Kilometer 375

Tratto dal racconto breve La morte dell’impiegato di Anton Čechov e girato in una dismessa area industriale di Helwan, Ma baad wadea hagar el asas l mashrou el hammam bel kilo 375 (2014), secondo cortometraggio del giovane regista egiziano classe ’88 Omar El Zohairy, sembra trarre ispirazione da quel cinema d’autore europeo che fa capo a stoccatori professionisti come Ulrich Seidl e Roy Andersson, l’impostazione scenica è davvero simile: campi totali (in questo caso il deserto) dove gli esseri umani sono ridotti a misere formichine, camera fissa, dialoghi risicati e bislacchi, utilizzando tali misure El Zohairy compone un quadro che spicca per la sua cifra grottesca, del resto che l’umorismo avesse un ruolo di primo piano lo si intendeva già dal titolo, a che pro costruire una bagno pubblico nel bel mezzo del nulla? Alla suddetta miccia narrativa si collega poi la traccia portante che supera la chiave comica per sfociare nell’assurdo. Non saprei dire se ci sia da effettuare una lettura dietro al piccolo impiegato kafkiano che fa di tutto per scusarsi del suo starnuto di fronte al boss (del tipo: la situazione in Egitto è la seguente, e quindi chi “sta sotto” ha talmente paura di), plausibilmente sarebbe un’azione doverosa da parte nostra, tuttavia il corto funziona abbastanza bene anche così, senza avvertire l’obbligo di scendere in profondità, le bizzarre azioni del protagonista calate in un mondo altrettanto bizzarro si vivono con piacevole disimpegno.

Che poi non è così bizzarro l’allestimento di El Zohairy, una più giusta aggettivazione sarebbe desolato, sì è una realtà desolata quella che vediamo sullo schermo, e perciò va premiata la scelta della location, sia nelle ambientazioni esterne che interne, ambedue al di là del minimale, spoglie, polverose, quasi post-apocalittiche, e uno scenario del genere si riflette nell’umanità, ugualmente grigia e anonima (gli abiti degli omini sono molto simili). In generale mi sento di affermare che sarei ben disposto a vedere del cinema proposto in una cornice dalle suddette caratteristiche, anche se portata avanti da grammatiche conosciute, perché non sono mai entrato in contatto con traiettorie autoriali provenienti dall’area araba e quindi un minimo di attrazione ci sarebbe, se poi fosse proprio El Zohairy a fare il primo passo ne sarei lieto (al tempo della presentazione a Cannes di The Aftermath... diceva di essere al lavoro sul lungometraggio di debutto che poi è arrivato: The Feathers, 2021), se ci si focalizza sui dettagli ce ne sono almeno due che ne certificano la voglia di suggerirci qualcosa oltre l’immagine, si noti il mare in tv visto dalla coppia (trasposizione della loro vita monotona o miraggio/sogno per un’evasione?) e il pesce troppo grande per una boccia così piccola (parallelo di quanto accade lì intorno?).

martedì 21 febbraio 2023

The Burning Buddha Man

Il regista giapponese Ujicha (nei crediti del film è scritto con un trattino: Uji-cha) propone al pubblico occidentale una storia che fa rima con “percorso di deificazione”. Uè, con calma, prima di scomodare le alte sfere meglio chiarire la natura di Moeru butsuzô ningen (2013) che è molto artigianale, la tecnica utilizzata pare si chiami gekianimation e può essere sintetizzata in poche parole (sicuramente proferite da uno che ha zero voce capitolo nell’area animata): cartoncini disegnati e mossi a mano all’interno di fondali statici, ad ogni cambio inquadratura c’è un cambio del cartoncino, ergo: un uomo sta dormendo e ovviamente ha gli occhi chiusi, stacco, e nella ripresa successiva ci sarà sempre lui ma con gli occhi aperti. Ecco, chiedendo scusa a Ujicha per la spiegazione poco professionale, meglio concentrarci sul tragitto di glorificazione sopra menzionato, il sentore è che ci manchino delle basi culturali per comprendere appieno (nonché artistiche, purtroppo non bazzico questo settore dell’estremo oriente), ma amen: in modo spiccio riporto la principale suggestione che ho percepito: Shin’ya Tsukamoto, non il ferro, non il metallo, bensì le statue, per effettuare un upgrade esistenziale è necessario fondersi con le rappresentazioni terrene del Buddha. Tale tendenza raccoglie un certo immaginario nipponico che fin da bambini abbiamo interiorizzato (una disposizione dragonballiana [la fusione tra copri diversi e la dimensione parallela dove il tempo scorre più lentamente] ed anche powerangersiano [l’assemblaggio di un super-guerriero]) e che schematizza, seppur qui con qualche giravolta iniziale, la lotta del bene contro il male.

Le due fazioni non sono mai così nette perché a differenza delle narrazioni standard qui i personaggi, a prescindere dalla squadra a cui appartengono, sono tutti degli esseri mostruosi, il bestiario weird-fantastico, oltre a confondere un po’ le idee allo spettatore per via delle innumerevoli trasformazioni che si susseguono, è il protagonista di uno scenario quasi da b-movie, gli scontri non lesinano squartamenti e la ripetuta emissione di schifosi flussi gastrici, ciò aiuta a incrementare il tasso di bizzarria oltre che a rendere le cose abbastanza divertenti se non fosse che... be’, volete che non ci sia un rovescio dell’arcinota medaglia? Ora, giudicare il lavoro di un artista, peraltro giovane, da dietro una tastiera senza avere minimamente idea della trafila creativa che modella il prodotto finito è facile e il rischio è di peccare in superficialità, ma il destino vuole che il cosiddetto “giudicatore”, annoiato dal presente e spaventato dal futuro, è anche l’ultimo anello della catena, è il fruitore, colui che riceve il manufatto pronto e impacchettato per l’uso. Ebbene, se devo essere sincero, e non vedo motivi per non esserlo, il tipo di animazione impiegato, la gekianimation, mi ha letteralmente ammazzato la visione: è tutto impalato, macchinoso, inerte, è l’antitesi di una fluidità che nell’animazione dovrebbe trovare residenza. Il condizionale è indispensabile perché non ho la verità in tasca e per fortuna le metodologie realizzative sono infinite, però, giusto ad esempio, se per accentuare gli stati d’animo dei soggetti in scena si affibbiano delle espressioni ridicole, il risultato, se posto in un contesto già pesante da digerire, non potrà che inasprire l’impressione di avere a che fare con un film difettoso.

Forse un approccio del genere potrebbe andare bene per un cortometraggio dove una durata ridotta medica la farraginosa impostazione, ma sulla lunga distanza non ce la fa a reggere il peso dei novanta minuti. Ad ogni modo, visto che ognuno di noi merita una seconda chance e visto che a volte imbocco strade masochistiche, visionerò anche Violence Voyager (2018), metti caso che mi converto alla gekianimation...

venerdì 17 febbraio 2023

Dene wos guet geit

Esordio nel lungometraggio per lo svizzero Cyril Schäublin il quale si rifà ad una cinematografia nordica para-corale che annovera nomi di rilievo, io elenco spesso Andersson, Seidl e Östlund, voi ne conoscerete sicuramente altri, il tocco personale è fornito da un apparato estetico che promuove un’identità visiva da non trascurare, il che è senza dubbio un valido biglietto da visita, e se vogliamo aggettivare Dene wos guet geit (2017) a livello ottico, direi che è un film scentrato, nella sua sintassi offre delle angolazioni che non corrispondono al comune vedere: molte riprese dall’alto (già sperimentate in scala ridotta nel corto Lenny, 2009), molti dettagli esibiti senza un motivo, perfino i campi/controcampi di un dialogo hanno una resa “diversa”, è vero che non siamo nel grottesco del già citato Andersson e nemmeno nel catino arsenico di Seidl, però la distanza da prospettive del genere non pare così enorme. Il lavoro compiuto dal regista in termini di setting mi ha convinto perché ha ricreato un ambiente che, dato l’aspetto stinto e asettico, sembra quasi laboratoriale, come se fosse un plastico nel quale si muovono delle piccole cavie umane, sì, la città è Zurigo ma è solo un mero dettaglio, i ritagli urbani esposti sono luoghi non localizzabili, cartoline congelate da un occidente qualunque. Il sipario iniziale è metacinema (e forse anche un po’ ruffiano, che dite?) perché anticipa lo svolgimento effettivo della storia che andremo a vedere, idem per il finale con la poliziotta intenta a descrivere un film che andrà in onda dopo i titoli di coda, in un altrove. Il trucchetto utilizzato da Schäublin è lì ad avvisare: attenti, nella mia opera la realtà si invera nella finzione. E in effetti il mondo che ci troviamo davanti ha, per una serie di stringenti motivazioni che riporterò sotto, dei connotati reali, quotidiani, cronachistici, collocati in un quadro d’impostazione.

A Schäublin interessa come la tecnologia sia un elemento ineliminabile dall’esistenza moderna, non ci ho visto una critica, piuttosto una constatazione: è abbastanza divertente notare che i rapporti interpersonali siano normati da dei numeri, che sia la password del wi-fi o un PIN per poter effettuare un’operazione bancaria, i personaggi di Dene wos guet geit (e ogni riferimento al di qua della pellicola sorge spontaneo) sono marionette che interagiscono attraverso dei codici. La visione di Schäublin è alquanto pessimistica ma non ce lo fa pesare troppo, l’assenza di una prossimità, di un calore, è il leitmotiv che si incarna in Alice, impiegata in un call center e quindi abituata ad instaurare legami virtuali, algida mente dietro la truffa ai danni delle vecchiette, una brutta fregatura che però è giusto un pretesto narrativo, ciò che conta è il mettere in scena un gruppo di persone che vivono inconsapevolmente un paradosso: tutti loro sono alla costante ricerca di una connessione (i discorsi vertono sulla migliore offerta di telefonia mobile sul mercato) mentre senza accorgersene sono disconnessi gli uni dagli altri, ed è esattamente qui, in questa ferita contemporanea, che un’imbrogliona come Alice trova terreno fertile insediandosi nel vuoto tra una nonna e la sua nipote. Alla chiave di lettura sull’isolamento, si aggancia in subordine l’accennata radiografia di una comunità tutta rivolta e assaltata dai servizi (assicurativi, finanziari, assistenzial-farmaceutici) oltre che securitaria con le guardie armate, per queste ragioni Schäublin parla della nostra società pur inquadrandola in un corpo urbano imbalsamato, ed è sempre a causa di esse che il film potrebbe risultare furbetto e smaliziato, lo capirei, è facile estendere l’additamento artistico verso quello che non va, tuttavia l’impianto formale è per me talmente buono da rendermi sufficientemente appagato.

martedì 7 febbraio 2023

Girls and Honey

È il 2014 e siamo in un piccolissimo villaggio chiamato Pesky (in Rete la traduzione che pare essere più corretta è Pisky), non lontano da Donetsk, nel bel mezzo degli scontri armati del Donbass, una delle tante guerre che insanguinano il nostro pianeta. A condurci lì è il filmmaker belga Pieter-Jan De Pue che si focalizza sugli ultimi abitanti ancora presenti, Svetlana e Anatoli, una coppia di apicoltori che nonostante i continui bombardamenti e la devastazione circostante non vuole abbandonare la propria amata attività. Girls and Honey (2017) si gioca le sue carte contrapponendo le api agli uomini, attraverso il commento di Anatoli viene mostrato quanto le prime siano animali capaci di creare una comunità che funziona, ordinata, laboriosa, mite, avversa alla confusione e dedita alla produzione, per opinione di Anatoli, del secondo bene indispensabile di cui necessità un uomo: il miele (il primo sono le donne come da titolo), mentre gli esseri umani del corto sono un’accozzaglia di guerriglieri che si ammazzano da una trincea all’altra, che lanciano granate, che cantano sguaiati, che bevono, che distruggono in nome di un credo politico. Il contrasto si accentua anche nelle due ambientazioni antitetiche, i verdi campi con il giallo sgargiante dei girasoli versus il grigiore delle fosse piene di detriti e spazzatura.

Visto il materiale a disposizione credo che De Pue avrebbe potuto dilatare di molto il minutaggio esplorando così meglio la realtà che era andato a scovare, il contenitore di tempo scelto comprime troppo le tematiche affrontate al punto che, vista la rapidità dei capovolgimenti di fronte, sembrerebbe quasi di trovarci al cospetto del trailer di un qualcosa di più lungo che invece tale non è. Resta la (seppur brevissima) testimonianza sul campo di battaglia al fianco dei soldati ucraini, al fragore delle mitragliatrici e ai rimbombi dei missili, per impatto cinematografico direi: non male!, però è giusto un aperitivo che non sazia. Anche l’altro lato della faccenda, i coniugi Kosack e il loro miele luccicante, aveva i mezzi per dare uno spessore emotivo alla storia, ma il regista ha scelto di non andare oltre e noi non possiamo che accettare la decisione.

Di De Pue si dice bene del precedente The Land of the Enlightened (2016), se qualcuno sa è pregato di fornire ragguagli.

giovedì 2 febbraio 2023

Muito Romântico

Muito Romântico (2016) è il viaggio emozionale in forma labirintica di una coppia brasiliana (Gustavo Jahn e Melissa Dullius, registi e artisti a tutto tondo conosciuti con l’aka DISTRUKTUR e residenti in Germania da anni) che si stabilisce a Berlino, un dedalo di approcci, di suoni, di colori, di immagini che eruttano dall’archivio personale dei due. La traversata atlantica sulla nave merci esposta con una tessitura da VHS ritrovata in un baule impolverato è stato per davvero il tragitto compiuto da Dullius e Jahn per arrivare in Europa, al pari del loro appartamento tedesco che fa da scenario principale al film, si ha dunque una cifra che più intima non si può, però, al contempo, sussiste un’apertura all’incanto che rende l’opera seducente e capace di andare oltre il racconto relazionale. Molto oltre: i rammendi del duo assemblano un patchwork folgorante e servendosi di una spinta sperimentale che centrifuga letteralmente il girato scorrazzano dove preferiscono, in territori personali da video-diario (ma sotto effetto di qualche acido), nei quali altre discipline artistiche (ruotanti sempre attorno all’estro di Gustavo e Melissa), tipo la pittura, la fotografia, il canto o il cinema, si immettono nel flusso generale arricchendolo, è una vera e propria tempesta estetica che rende vivace anche la banale ricerca di un appartamento in affitto o un rapporto sessuale che si sente senza vedersi, nel mezzo, da qualche parte, trova posto anche la città di Berlino, la decadenza dei palazzoni abbandonati di stampo sovietico, la droga, i cantieri, il fervore intellettuale di cui Jahn & Dullius sono parte.

Un passaggio di Muito Romântico si carica di significati, è quando viene detto che anche gli oggetti posseggono dei ricordi, i ricordi dell’esperienza. In quest’ottica viene così meravigliosamente naturale considerare la pellicola stessa come della materia che essuda memorie, ma attenzione, è qua che si verifica un piacevole travalicare perché ad un certo punto la linea temporale si rompe e con l’avvento di una crisi sentimentale il tessuto del reale, già parecchio liso, si lacera, e dallo strappo fuoriesce la possibilità di un cinema che si fa consesso di ipotesi, proiezioni, sogni, destini. L’evento culmine, una scena che è una vetta senza se e senza ma, è il buco nero disegnato sul muro da una donna che potrebbe essere una nuova, eventuale, partner di Gustavo, un disco oscuro che stride con il sole arroventato sull’Atlantico e che risucchia l’uomo in un ubriacante vortice di istantanee, una turbinosa mitragliata che è qualcosa di molto, molto vicino alla vita che ti passa davanti come se fosse un film. Ci si ridesta in uno stato di malia, i registi dissigillano la loro creatura che diventa il crocevia dell’universo, in una stanza con corpi in altri corpi, e di amori che hanno preso strade diverse, complicate (Melissa che riemerge dal buco col vestito strappato), o che forse non hanno preso nessuna strada ma sono sempre stati lì, in quel letto di nostalgie.

Mi domando perché proposte di tal fatta risultino talmente vive finanche innovative (quando magari non lo sono nemmeno) da ergersi sulle produzioni “normali”, e la risposta credo sia già nel quesito, nello scarto enorme che c’è tra un cinema vivo e un cinema morto zavorrato da grammatiche appiattenti. Che poi una proposta come Muito Romântico ti sa anche soffiare educatamente del fumo negli occhi perché gli autori si concedono delle sortite artistoidi che spingono a dire tra te e te dei gran bei boh, però, oh, avercene di deviazioni dall’ordinarietà che hanno l’energia messa in campo dalla coppia carioca, lasciarsi sfuggire uno studio formale del genere vuol dire perdere l’occasione di vedere, finalmente, un esondare gentile, intelligente, raffinato, una testimonianza autoriale sulla malleabilità della settima arte nonché l’esaltazione della sua essenza liquida, un’estirpazione delle coordinate fisiche e razionali che rivela un panorama sconfinato in continuo movimento.

domenica 29 gennaio 2023

Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos

Dopo anni passati a riprendere il grigiore reale delle periferie portoghesi con Montanha (2015) apice del tracciato autoriale, nel 2018 João Salaviza stravolge il proprio cinema andando a sondare territori molto (ma davvero molto) più impalpabili rispetto al passato, tanto che, con sorpresa da parte di chi scrive, la fonte di ispirazione primaria parrebbe essere l’asso thailandese Apichatpong Weerasethakul. Infatti, guardando il prologo lacustre di Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos (2018) è impossibile non pensare a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), l’aderenza ambientale fa sicuramente il suo ma è quel tendere ad una dimensione altra, spirituale, primigenia che fa associare in un attimo il nuovo sguardo del lusitano alla sacralità del collega asiatico, e non solo, perché oltre ad un sovrapporsi stilistico e tematico, anche strutturalmente Salaviza segue  un modello weerasethakuliano, come fu per l’indimenticabile Tropical Malady (2004) anche questo film si costituisce in una bipartizione, ma rovesciata: non dalla civiltà alla foresta bensì il contrario con annesso biglietto di ritorno. È una virata netta e inaspettata per Salaviza, anche se, grattando via la patina superficiale, rimane un tratto comune nella sua arte, se lo si vuole ciò che fa per Chuva... non è poi troppo diverso da, chessò, Rafa (2012), alla fine, potando le licenze soprannaturali, è pur sempre una realtà che il regista va a catturare, e che siano i palazzoni di Lisbona o delle capanne di un villaggio brasiliano, alla radice permane la spinta di registrare la vita, il più possibile vicino ad un concetto di verità, oltre la mdp. Non sto nemmeno a ribadire l’ovvio, ossia che qui, data la cornice etnografica, si è maggiormente sedotti dal risultato finale, però penso sia condivisibile sostenere che pur cambiando di parecchio Salaviza ha comunque mantenuto certe coordinate salienti.

Co-diretto insieme alla compagna Renée Nader Messora (è lei ad aver stretto nel tempo i rapporti con la comunità indigena dei Krahô), l’opera procede in una nebbia mistica e nemorale, fatta nostra la componente illustrativa (lo so, brutto definirla così, peggio ancora chiamarla divulgativa) che dà l’occasione di entrare in una riserva tribale da restare a bocca aperta per noi occidentali (e che ha un valore aureo al di là dello status di film perché di nicchie umane del genere, poste su equilibri fragilissimi e minacciate da politiche scellerate, in un futuro ahinoi non troppo lontano rimarranno solo brandelli, per cui ben venga una testimonianza sul campo come Chuva...), è il tragitto personale di Ihjãc, ovviamente imbevuto del folklore locale, a diventare centro gravitazionale della storia. Per scandire il percorso quasi divino del ragazzo viene sottolineata la compresenza dei non-vivi nel mondo dei vivi, senza lasciarsi andare a manifeste apparizioni ectoplasmiche, il film lavora sulla filigrana delle immagini, sono loro che ci trasmettono un ventaglio di suggestioni capace di sopperire a qualunque didascalia, la forza estetica (che diventa estatica) di un arbusto che brucia nella notte nera trasporta in uno stato simil-onirico, e non sorprende quindi che prima del ritorno a casa di Ihjãc un indigeno-fantasma compaia per le strade deserte della città dotato di fiaccola ardente. Nel complesso l’idea di un qualcosa aleggiante e ultraterreno è una piacevole costante che si protrae per l’intera durata (scena mia preferita: il malessere del protagonista è il controcampo preciso su un’ara dal meraviglioso piumaggio), João e Renée mantengono una misura formale che dà dei discreti frutti: ritratto antropologico e senza filtri marcatamente finzionali di una tribù ancora immersa in un ritualismo magico, spolverata narrativa che riduce la portata documentaristica, intimo cammino di metabolizzazione (di un lutto e di un Io in trasformazione) venato da un’arcaica trascendenza.
Un film in tutto e per tutto festivaliero, ma comunque un buon film.     

mercoledì 25 gennaio 2023

Olhos de Ressaca

Il primo cortometraggio di Petra Costa. 

L’informazione, seppur stringata, dovrebbe far pizzicare il vostro sesto senso cinefilo perché se siete capitati da queste parti non vi sarà sfuggito l’apprezzamento del sottoscritto nei riguardi della regista brasiliana. La Costa è un’autrice che ha stoffa da vendere e che per sensibilità e raffinatezza è una voce del panorama contemporaneo da preservare con cura. Il preambolo ossequioso (ma sincero, lo spergiuro) mi serve per travasare l’ammirazione verso Petra anche in un piccolo oggetto giovanile come Olhos de Ressaca (2009), di base in questo corto non vi sono elementi capaci di farti dire dire wow, ma, esattamente per tale motivo, per il suo essere “minore”, per il fluire sottotraccia, per l’esprimersi con modalità risapute nell’area cinema, è praticamente un miracolo che comunque riesca a mantenere e a diffondere un’energia, una luce, un suono dolce. In realtà di miracoloso non c’è nulla, è solo merito della Costa che si conferma, sebbene alle prime armi, una fuoriclasse nell’aprire l’intimità all’alterità, cioè a noi, nell’alternare filmati d’archivio a riprese moderne dei propri nonni materni, in sostanza, per spirito personale e delicatezza di fondo, eccoci alle prove generali per il successivo (e a dir poco commovente) Elena (2012).

Tralasciando le possibili implicazioni socio-politiche che troveranno sfogo in Edge of Democracy - Democrazia al limite (2019), Olhos de Ressaca è una riflessione su faccenduole giusto un pelo esorbitanti come l’amore e la vita portata avanti da due narratori esterni, nient’altro che il nonno e la nonna della regista (di solito è sempre stata lei a incaricarsi del commento off), un fine collage di memorie che attraversa il tempo, dal primo incontro alla senilità condivisa passando per le grandi tappe di un’esistenza che nell’ordinarietà sa essere speciale proprio perché è l’esistere in sé ad esserlo, e le immagini che fanno? Seguono passo passo la narrazione, ma solo fino a quando non imboccano diramazioni ulteriori, si appiccicano alla pelle anziana, rubano un bacio, due, tre, rimbalzano da un vecchio frammento matrimoniale alla minuscola fotografia di una nuova nascita, le immagini fanno dunque così: in silenzio, deragliano, eppure non vi è incoerenza o il sentore che ci sia qualcosa di forzato o fuori posto, Petra Costa è un’archeologa dei sentimenti, per riportarli in superficie usa la settima arte, se alcuni suoi colleghi ne ricalcassero le orme il mondo sarebbe un luogo migliore. 

venerdì 20 gennaio 2023

Kuro

Perché il punto saliente di Kuro (2017), un punto tetro, sordido, ignoto, sta tutto nell’esplicita divergenza tra il flusso del racconto e quello delle immagini. Per chi frequenta una certa tipologia di cinema questa dissonanza non rappresenta una novità, la branca che si potrebbe definire epistolare della settima arte, da Marker ed epigoni a venire, si avvale di strumenti pressoché identici per rivelarsi (il concetto è: dico una cosa ma ne mostro un’altra), ciò, comunque, non toglie il fatto che il lavoro del duo giapponese alla regia possegga delle qualità che meritano di essere viste e analizzate. Joji Koyama, artista poliedrico che vanta nel curriculum anche un videoclip per Calvin Harris, e Tujiko Noriko, musicista nonché volto femminile di Kuro, esordiscono nel lungometraggio con chirurgica misura, non tanto della storia in sé che non può né vuole essere misurata, quanto nell’idea che sta alla base e che è portata avanti, dall’inizio alla fine, con ammirabile coerenza espositiva. È una situazione opaca che attrae proprio perché non è mai posizionata sotto una luce chiarificatrice, vediamo una donna, Romi, e vediamo Milou, un uomo occidentale in stato semi-catatonico, eppure udiamo dell’altro: attraverso una voce over che parla di sé in terza persona veniamo edotti di una faccenda che ha luogo in uno spazio ulteriore, che è sì il Giappone ma che si sfibra in una dimensione onirica, una sorta di triangolo amoroso che a mano mano si fa sempre meno reale, galleggia, oscilla, affonda e risorge in uno scorrere di strane memorie o di strane fantasie senza che vi sia la possibilità di confutare alcuna istanza d’appartenenza, il che, come sarà facile immaginare, dà origine ad un trambusto interiore in chi assiste, il che, parlando a titolo personale, è anche sinonimo di fascinazione, elemento-substrato che Kuro elargisce con grande carattere. 

Si vede, e non in senso figurato, che Koyama è impegnato nelle arti visive perché ogni fotogramma di questa perturbante poesia in continuo movimento ha una carica estetica da ricordare, e c’è anche una non così flebile ricorsività nelle immagini che aiuta a stabilizzarsi sulle frequenze del film, in tale ottica abbiamo una decisa insistenza sui fiori e sulle piante, i vegetali sembrano avere un discreto peso nell’economia dell’opera, un ragionamento, forse un po’ banale, suggerirebbe un parallelo con la paralisi di Milou, una supposizione che, meno male, non può avere riscontro, ad ogni modo un aggancio maggiormente centrato si trova tra lo stesso Milou ed il signor Kuro, è come se nella narrazione di Romi il secondo sia una traslazione del primo, il comun denominatore si situa nell’assistenza che la protagonista fornisce ad entrambi, certo è che i confini non sono affatto netti perché nella parte raccontata, quella per cui ci resta solo l’immaginazione, i tre coesistono in un medesimo ambiente, però, vista la natura antiletterale di Kuro, non sto qui a dire che Milou e Kuro siano uno, né che non siano nessuno, in qualche modo (magari esclusivamente nella mente di Romi) sono e il legame che attorciglia le tre anime sullo schermo è impossibile da sbrogliare pertanto il consiglio è di farvi impigliare nella tessitura elaborata dai registi. 
Lo stream of consciousness della protagonista che si prende anche delle gradite digressioni (Romy Schneider), è supportata da un livello di scrittura che è praticamente alta letteratura (almeno nella traduzione dei sottototili inglesi), ascoltare per credere la descrizione di un sogno-diluvio accompagnato da delle riprese satellitari.

Che le confessioni di Romi appartengano al passato, al futuro o a qualunque altro piano temporale o che siano un metodo di evasione per sfuggire alla durezza del quotidiano (e quindi da un compagno in condizioni di salute molto precarie), il precipitato che cola giù da Kuro è uno sgocciolio denso e nero, è Mistero, è Kafka, è Ligotti, è Moresco, è il portarsi in oscure zone di confine ricorrendo ad un dispositivo cinematografico che disloca, non solo le componenti interne che lo costituiscono, ma anche, inevitabilmente, la percezione dello spettatore impegnato a disambiguare qualcosa che, alla fine, non vale la pena sforzarsi di interpretare con raziocinio. 
Koyama & Noriko: i miei più sinceri complimenti per il vostro eccellente debutto. 

martedì 17 gennaio 2023

Port of Memory

Mettendo per la prima volta in vita mia gli occhi su un’opera cinematografica girata da un autore palestinese pensavo in maniera un po’ altezzosa che fosse solo politica e poco altro, in realtà pensavo male, e parecchio: Port of Memory (2010), nel suo essere tanto, sicuramente non è un film banale, che è già una buona cosa, il regista Kamal Aljafari, molto apprezzato a quanto si legge in giro e quindi indubitabilmente da approfondire, utilizza uno spunto narrativo che depista (la faccenda della casa non riconosciuta ai legittimi proprietari [1]), infatti da una premessa così ci si poteva aspettare di rapportarsi con una drammaturgia simile a quella di Asghar Farhadi, tanto per rimanere nel Vicino Oriente e dintorni. Niente di più sbagliato: l’episodio à la Kafka (l’avvocato sempre off-screen) è appunto tale: un episodio, l’anellino di una catena che Aljafari sgrana come se fosse un rosario, è la proiezione del procedere (circolare?) di una città, Jaffa, in perenne dopoguerra, e di chi la abita. Nel vedere queste particelle di esistenza l’apparente racconto iniziale si sgretola come i muri dei palazzi che il regista riprende con perizia, non c’è una storia, ce ne sono tante in cui accediamo di sfuggita, sono storie già iniziate, sono giusto brandelli, fiammiferi che si consumano nello scintillio di uno sguardo. L’operato di Aljafari è funzionale a Port of Memory per rompere le ganasce dell’impostazione (in una parentesi staccata dal resto un regista fa ripetere numerose volte una battuta all’attore, è un atto finzionalizzante che collide con la visione realista) e pizzicare quelle corde lì, quelle giuste, quelle del Cinema.  

E non è tutto qua, no perché oltre la concertazione di micro-esistenze esposte con un metodo che rimanda ad una autorialità europea, asciutta e rigorosa, Aljafari ibrida il flusso filmico in direzione trascendente, e lo fa avvalendosi di un tocco invisibile, una trasfusione di ulteriori istanze dentro la concretezza di Jaffa. Sono tre le scene che fanno tremare i confini: la prima è una panoramica sul deserto che accoglie le parole di un film su Gesù visto un fotogramma prima nel salotto della famiglia, la seconda è l’innesto di un “videoclip” che arriva a sovrapporsi con la passeggiata di Salim e la terza è l’irruzione nel montaggio di una pellicola d’azione con Chuck Norris ambientata proprio nelle strade della città. Perché vi sono delle detonazioni del genere? Io non lo so. Ma se guardo il film dalla prospettiva più abbordabile, ovvero dal suo nome, ecco che mi sembra di aver assistito al fiorire di una memoria. Con l’introduzione dei segmenti che appartengono a differenti lessici audiovisivi del passato, anche il presente assume una forma diversa, meno ancorato alla terra, tanto è che Salim, nella stupenda camminata conclusiva per una Jaffa desolata, a volte pare quasi diventare trasparente. 
Per me, un Signor Film.  
_________________
[1] Forse, sottolineo forse, è solo qui che la dimensione politica emerge, e lo fa attraverso la metafora: una famiglia palestinese afferma di aver comprato l’abitazione dove vive ben quarant’anni prima, mentre un organo statale (… israeliano?) dice il contrario e li considera degli squatters.

lunedì 9 gennaio 2023

Bauta

È la stessa squadra di Ad Astra (2016) che sta dietro a Bauta (2018) perché la stessa è l’area di ricerca applicata al cinema. Quindi Paul Tunge e Egil Håskjold Larsen insieme alle musiche di Kim Hiothøy fanno un altro film contemplativo di matrice architettonica. La differenza sta negli oggetti di ripresa: non più delle chiese bensì delle costruzioni pubbliche ovviamente appartenenti sempre alla sfera norvegese (una stazione della metropolitana, una – forse – centrale elettrica, una – altrettanto forse – scuola abbandonata, ecc.). Il punto di contatto con gli edifici religiosi del corto precedente sta nel fatto che anche questi di edifici, così registrati dall’occhio fluttuante di Tunge, appaiono sgombri, vuoti, delle cattedrali nel deserto urbano. Pur non essendoci neanche una nota che vada oltre lo strato meditativo (in Ad Astra c’era: la bara bianca), il regista si afferma come un ottimo tessitore di atmosfere, opinione riscontrabile anche in un altro suo lavoro più strutturato (Demning, 2015), anzi, qui è lecito sostenere che l’Atmosfera, in fondo, è il film in sé perché senza gli accorgimenti tecnici di Tunge e soci rimarrebbe solo una banale carrellata di anonime costruzioni mimetizzate nel grigiore cittadino.

È indubbio che l’accompagnamento sonoro di Hiothøy sia l’elemento indispensabile nella composizione globale. Il repertorio si offre in un tappeto elettronico capace di far viaggiare le immagini su frequenze che non hanno niente a che vedere con la categoria documentaristica, infatti, grazie alla modulazione dei suoni e ad uno scalare di intensità fino a delle parossistiche distorsioni (maggiormente incisive, quasi “aggressive”, rispetto a quelle sentite in Ad Astra), si sconfina nel campo dell’inquietudine, come se il lento movimento della mdp fosse il preambolo per un’apparizione horrorifica o giù di lì. Dal canto suo Tunge, quando si impegna in progetti del genere, continua a ricordarmi i galleggiamenti aerei di Malick ma senza corredi filosofici, le traiettorie che compie sono morbide, avvolgono: conducono, ecco, la sensazione che prevale è un andare per i luoghi del corto in forma eterea, oculare ma non fisica. Non saprei se c’era l’intento di portare all’attenzione del pubblico uno scenario che, privo di particolare beltà estetica, passa inosservato, io mi accontento di fermarmi prima, al potere suggestionante che Bauta, in sordina, emette.

martedì 3 gennaio 2023

The Chechen Family

Uno dei pregi de La familia chechena (2015) diretto da Martín Solá è quello di farsi luogo di illustrazione senza esserlo del tutto, perché una visione, una autorialità, si marchiano impresse su questa finestra che dà su un altro mondo, austero come è il documentario in sé, ma con punte acutissime di pregevole intensità. Solá fa un lavoro eccellente poiché riesce a darci un ritratto perlomeno comprensibile della realtà cecena senza mai intervenire, registrando, partecipando, ascoltando frammenti di esistenze che ci sembrano lontantissime. Così, di un popolo in conflitto continuo, ci arriva la testimonianza di una donna anziana che stesa a letto racconta di una deportazione in Siberia del passato, così, anche, i periodi bui della guerra si srotolano a parole sull’epidermide umana, sui labirinti concentrici dei polpastrelli. Storie che passano, anche nei meravigliosi primi piani delle bambine dagli occhi di giada che giocano a nascondino, e storie che non sentiamo, quelle femminili, che però vediamo, al di là di un vetro. Sebbene nel ridotto spazio di un’ora, il film di Solá (che dovrebbe far parte di un dittico insieme a Hamdan, 2015) dimostra di essere un oggetto aperto, accessibile e capace di suggestionare grazie a soluzioni semplici ma efficaci, si veda il tour notturno in automobile di Groznyj, un modo apprezzabile per accomiatarsi, per dire un silenzioso addio.

È però inutile girarci in giro, il cuore di The Chechen Family pulsa nelle riprese effettuate durante il dhikr, una danza collettiva islamica dove i membri (le donne e gli uomini non possono stare assieme a quanto si vede), ballando sul posto e seguendo un ritmo forsennato, ripetono una litania che nel suo ossessivo ripetersi diventa ipnotica. Il cinema ha questa capacità immersiva di trasformare una normale proiezione in un’esperienza acquatica, da vivere in apnea, e anche qui accade ciò: non è che Solá riprende noncurante e dall’esterno delle persone che danzano, all’opposto si incunea nel compulsivo assembramento, si appiccica letteralmente ai volti sformati dalla fatica, alle camicie fradicie di sudore, capta respiri ad un passo dallo spasimo. Ci fa vedere, anzi ci fa sentire (e sentire è sempre qualcosa che va oltre il vedere), la forma estatica della preghiera, lo stato di trance a cui, credo a prescindere dalla religione di appartenenza, si giunge per mezzo di un iter definito, ed il risultato è il fiorire di un’energia travolgente tanto da travalicare, nel caso in esame, la barriera dello schermo, sicché non potremo dire di essere stati lì in Cecenia, nel bel mezzo di un tambureggiante rituale musulmano, ma quasi, perciò: grazie infinite Martín Solá, è stato assolutamente esaltante.