lunedì 20 novembre 2023
Tentare bei cieli più tersi
Promontorio
A fianco del mio appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea, etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza di loro, senza di lei, sarei perso.
L’altro giorno sono stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana, mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi non abbiamo capito niente.
Io non ho molti ricordi di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori La mia banda suona il rock di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa Oro di Mango o Con il nastro rosa di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di uomini che si masturbano in cerchio.
Non ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che, durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho sentito di volergli bene.
L’oscurità è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere, praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni. Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.
sabato 18 novembre 2023
Noche En El Jardín Salvaje
Le poche (e uniche) righe che accompagnano Noche En El Jardín Salvaje (2015) dicono comunque tutto quel che c’è da dire, che è sostanzialmente niente perché nei sei minuti di girato non succede alcunché di meritevole, se non, ma questa è solo una deformazione professionale che mi spinge a visionare più titoli possibili di un dato regista senza che vi sia una concreta motivazione di fondo, la constatazione che Miguel Llansó, aiutato dal fratello Guillermo che ha sempre orbitato nelle sue produzioni, è un tipo eclettico, oltre che abbastanza fuori di senno, e che quando non è in giro per l’Etiopia a filmare situazioni e personaggi assurdi (ricordo il coevo Crumbs), il suo tasso di bizzarria non viene meno, anzi, se ripensiamo al precedente Perro Líquen (2012) e lo rapportiamo a Noche... ecco che abbiamo una “bella” coppia di lavori imperscrutabili. Qui l’accorgimento che visivamente spicca è l’utilizzo del timelapse (o è stop-motion? Mica so riconoscere bene la differenza...) praticamente per ogni fotogramma, il che incrementa l’atmosfera stramba del corto già assestata su un livello alto con il protagonista dotato di parruccona bianca, tunica e occhiali da carnevale. Il soggetto in questione dialoga con una voce off a proposito di un pregevole suono ascoltato un anno prima e che entrambi vorrebbero tanto risentire, nell’attesa il cielo notturno è solcato da stelle cadenti e le fronde del bosco ondeggiano per il vento, c’è un senso notturno, un odore nemorale, forse, ma proprio forse, anche una sottile inquietudine bilanciata da dosi di ironia (“il prossimo anno sarò in vacanza in Tunisia”), ma nello specifico cosa sia il suddetto giardino selvaggio, che cosa dica o faccia il tipo imparruccato o più in generale quale siano i perché e i percome di questo lavoro breve sono quesiti ai quali non sono minimamente in grado di rispondere.
venerdì 17 novembre 2023
Dakar
Dakar (2020) è un cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere, nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival. Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film precedente, Deconstructing Interruption (2016), dovrebbe essere una sorta di backstage dell’Interruption (2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di “contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che hanno un’impostazione similare a Dakar ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie che pare anche un tutto, ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.
giovedì 16 novembre 2023
Notturno
Trattandosi di Rosi sappiamo che il livello estetico non può che assestarsi su un piano elevato, per alcuni critici forse troppo elevato al punto da creare uno scollamento tra la forma e il contenuto. In effetti, se si esclude il lavoro giovanile Boatman (1996), il cinema di questo autore ha subito un progressivo processo di estetizzazione tanto da trovarmi d’accordo con le parole di Leonardo Gregorio nella sua recensione su Gli Spietati (link) nella quale viene proposto un parallelo solo in apparenza azzardato con Paolo Sorrentino. Quando la patinatura di una pellicola prende il sopravvento su tutto il resto si ha come la sensazione che le tematiche affrontate si inaridiscano di fronte ad una messa in scena tirata ostinatamente a lucido, non so se sia un’impressione errata o un pensiero troppo intransigente, fatto è che in Notturno (e, dato che è stata una visione recentissima, anche, ad esempio, in È stata la mano di Dio, 2021) le immagini a tratti prevaricano sui possibili significati, non è che li inglobano in sé, li schiacciano proprio, il che non sarebbe affatto un difetto per certi esemplari cinematografici (e infatti per Sorrentino la riflessione è meno calzante), ma qui, in una prospettiva che si prefigge di cogliere la realtà, e nello specifico una realtà dura, difficile, complessa, una ricerca formale di tal fatta genera una sorta di idiosincrasia, come se l’urgenza di quei luoghi venisse coperta da una bellezza che forse non era così necessaria.
Non so, Rosi continua a mettermi in difficoltà, ma non è un mettermi alla prova, non è un cimentarsi con qualcosa di arduo da vedere, da capire, è più un ragionare senza troppa convinzione su un risultato che altrove produce risultati di ben altro spessore attraverso metodi meno appariscenti (penso sempre a Sylvain George), ciò non toglie che comunque qui vi siano scampoli di lucore che sono felice di aver visto, a prescindere dalle modalità espositive non capita tutti i giorni di entrare dentro ad un manicomio a Baghdad oppure ascoltare i messaggi vocali di una donna rapita dall’ISIS inviati alla mamma. Quindi non c’è un quindi e neanche una conclusione, Rosi è un signor professionista e questa è la sua idea di settima arte, nello sterminato panorama contemporaneo mantiene una posizione rispettabile, l’importante è sapere che esiste anche dell’altro.
mercoledì 15 novembre 2023
The Second Best
Eh, insomma, non proprio alla grande mi pare. Va bene che il regista spagnolo darà il meglio di sé nei due lungometraggi successivi, però anche nei suoi esemplari giovanili, seppur caotici e raffazzonati, permaneva sempre una qualche scintilla di estro (vedi Chigger Ale, 2013), in The Second Best il discorso è decisamente semplificato fino, me lo si conceda, ad essere appiattito. Non vi è la minima ricerca concettuale né l’interesse a vivacizzare la scena, l’intento è chiaramente quello di fornire il ritratto biografico di un atleta che al di fuori dei confini nazionali non ha mai ricevuto i riconoscimenti che meritava (a precisa domanda Bikila rispose che lui era il “migliore secondo” in Etiopia, lasciando piuttosto sgomenti i cronisti che Biratu non sapevano chi accidenti fosse), se ad uno spettatore tanto basta allora è libero di accomodarsi, per gli affamati visioni vere allora è meglio direzionarsi altrove.
martedì 14 novembre 2023
Bait
Paradossalmente gli aspetti che più mi hanno impressionato sono anche quelli che ho trovato potenzialmente più criticabili, dal punto di vista della sintassi il flusso che riceviamo colpisce con discreta efficacia, è tangibile un’attenzione quasi maniacale per non dire ossessiva ai dettagli (sulle banconote e sui pesci, due istanze messe in dialogo visivo seguendo la traccia menzionata prima passato vs. presente/futuro) oltre che una serie di accorgimenti non proprio convenzionali, prendiamo l’insistenza sui primi piani che fanno del film una specie di western acquatico d’oltremanica o l’impianto sonoro che è stato inserito in toto in fase di post-produzione. Insomma, tira un’aria inusuale eppure, almeno per il sentire del sottoscritto, non si riesce a sfondare la porta della straordinarietà, è come se una volta tirata via questa corteccia artificiale Bait riveli una nudità meno interessante della sua stessa superficie, ché se qui c’era da riflettere sul capitalismo e derivati concettualmente non riesco a catalogare lo sforzo di Jenkin come memorabile, apprezzabile all’incirca sì, ma memorabile no.
lunedì 13 novembre 2023
The Children of Leningradsky
Allora, non è che mi aspettassi di ritrovare un monolite post-sovietico à la Artour Aristakisian né potevo attendermi chissà quali sconvolgenti innovazioni visto che parliamo di un’opera che finì nell’orbita degli Oscar, però io so che il cinema ha in sé una forza radicale e quando mette bene a fuoco un argomento può essere letteralmente devastante, in The Children... si è lontani da un tale trasporto e la cosa fa incazzare perché qui la tematica è bella densa (ah, non l’ho ancora proferito: si parla di ragazzini soli al mondo che vivono nei pressi di una stazione metro moscovita) e c’era la possibilità di lasciare un segno molto più profondo. E visto che ho aperto il commento citando un libro, chiudo riportandone un altro: I poveri (minimum fax, 2020) di William T. Vollmann che non tratta direttamente di adolescenti allo sbando ma che nel suo reportage romanzato sugli ultimi del pianeta sfiora le sorti di una famiglia russa in balia del proprio destino. È un gran bel libro di un gigante della letteratura contemporanea, accaparratevelo.
sabato 11 novembre 2023
Where Is My Dog?
Però questa parvenza di realismo, o, se vogliamo usare paroloni inappropriati, di cinema (per il?) sociale, si dissolve dopo metà proiezione mettendo a nudo le vere intenzioni di Llansó che sono più concettuali di quanto ci si poteva aspettare, seppur limitate dall’esiguità dei mezzi a disposizione. Non ci troviamo di fronte a chissà quale illuminante procedura che passerà alla storia della settima arte, si tratta di un giochino (ma non considerate questo termine in modo così dispregiativa) tanto datato quanto piacevole dove si smantella l’apparato finzionale generando sorpresa nello spettatore: allora era tutto finto? Per sorprendere il sottoscritto, e credo che valga lo stesso per voi prodi lettori, ce ne vuole, diciamo che ragionando sulla natura di Where Is My Dog?, e in particolare rispondendo al quesito qui sopra, si giunge a riflessioni che sfiorano il senso del vedere un film, dell’artificio che lo compone e dagli sprazzi di reale che comunque non possono fare a meno di affiorare dal suddetto artificio, e quest’ultima cosa, del tasso di verità contenuto nella menzogna, è piuttosto interessante e ritengo sia capace da sola a portare il corto alle soglie della sufficienza. Presente anche l’immancabile Daniel Tadesse che appare in qualche frame fino a salutare idealmente il pubblico con l’inchino finale.
venerdì 10 novembre 2023
Empty Metal
Il fatto che Empty Metal sia nato in piena epoca trumpiana non credo sia un dettaglio, anzi si tratta di una vera e propria sommossa verso un certo tipo di politica, all’aria che tirava (e tira?) da quelle parti, la morte di George Floyd è successiva ma ciò fa del titolo sotto esame un preoccupante sguardo premonitore verso la discrepanza che sussiste tra lo Stato con la sua impunità ed il normale cittadino, si noti che le scene dove viene illustrato questo sbilanciamento di potere sono tutte riprodotte in computer grafica, come un fallace allontanamento da ciò che è reale. Tuttavia dubito fortemente che qualche pro-Trump abbia potuto cogliere la vena caustica che serpeggia nell’opera perché è mimetizzata in una cornice che sfiora il nonsense. È interessante, nonché difficile da decifrare, la duplice visione che Khalil dà della tenuta cospirativa, una fazione è più “comprensibile”, abbiamo infatti tre soggetti appartenenti a delle minoranze etniche (di cui il regista stesso fa parte essendo originario di una tribù nativa che si chiama Ojibway) che assumono un ruolo decisamente astratto, ci è suggerito che siano come dei sobillatori a spasso nel tempo, ma l’altra frangia insurrezionalista è più complicata da inquadrare perché sembrano, o forse è meglio dire sono, dei Proud Boys che accarezzano il loro AK-47 prima di andare a nanna, facinorosi che, riportando le parole di uno di essi, hanno un solo nemico: il Governo. Ecco, seguendo la doppia pista sovversiva è fornito uno schizzo dissennato, ma nemmeno troppo, di una realtà che non è, ovviamente, troppo diversa da quella che viviamo. L’Autorità prevarica, controlla, colpisce, e la storia continua a ripetere sé stessa.
giovedì 9 novembre 2023
Diamond Island
E dire che di argomenti sul tavolo Chou ne mette parecchi: la condizione dei poveri lavoratori che si spostano dalle campagne della Cambogia verso la capitale per guadagnare qualcosa in più da mandare a casa, Phnom Penh e lo squilibrio tipico delle megalopoli che si trovano a quelle latitudini con i grandi contrasti irrisolti tra progresso tecnologico e tradizione (l’isola del titolo è un sito ultra moderno in costruzione collegato alla città da un ponte), le relazioni amorose tra i ragazzi del luogo (c’è un focus sul giorno di San Valentino che ha più o meno la stessa nostra valenza con però maggiore accento sulla componente sessuale), i legami di una famiglia interconnessi con le strade del futuro (gli Stati Uniti come terra promessa) e messi a dura prova da un evento luttuoso. È innegabile che tali questioni siano presenti in Diamond Island ma è altrettanto innegabile che sono tutti affrontati all’acqua di rose, il risultato è che questa è una visione che non incide, passa, scorre e la si dimenticherà molto presto. Da una premessa del genere, e in relazione al fatto che voglio sfruttare al meglio il mio tempo libero, non darei un’altra chance a Davy Chou.
Ah: caruccia la scena della neve.
mercoledì 8 novembre 2023
Soy tan feliz
La svolta, interessata a fornire una possibile significazione al frammento visivo di cui siamo spettatori, arriva con il finale dove si verifica una piccola catarsi sessuale che legittima dei passaggi precedenti. In sostanza ciò che ci arriva è il profilo di un ragazzo che vede nel fratello maggiore un modello da imitare (la rasatura dei capelli) e verso il quale prova un amore che trascende la consanguineità per farsi fisico, ferino, istintivo. Non si potrà dire che la conclusione sia memorabile, però il set semi-desertico ed il relativo contatto ravvicinato con la terra non è male, nell’abbandono a sé stesso di Bruno supino sull’erba e in preda ai suoi tormenti, emerge un primo piano che non sfigurerebbe in un’opera di un altro Bruno, Dumont, girata intorno alla prima decade degli anni zero. Bei tempi.
martedì 7 novembre 2023
Tlamess
Senza esagerare in elucubrazioni tramiche che tanto non ce n’è bisogno, ciò che funziona del second half è lo scollamento quasi totale con il blocco iniziale, ma è quel “quasi” che fa la differenza: c’è un’ellissi che disorienta, nel lasso di tempo intercorso, non breve a giudicare dalla capigliatura del protagonista, accadono fatti a noi tenuti nascosti, S (per entrambe le pellicole di Slim le schede sui vari siti indicano con una sola lettera i nomi dei suoi personaggi) acquisisce una consapevolezza differente, lui stesso sembra una persona diversa, per di più parecchio somigliante all’eremita di TloU al punto di farmi pensare ad un’ipotetica connessione interfilmica, sia quel che sia, con l’apparizione del nuovo S, una sorta di sciamano boschivo, anche il film prende una traiettoria decisamente, ma decisamente, sovrannaturale. Qualche dettaglio l’avrei rifinito meglio (l’illustrazione dell’infelicità esistenziale della donna è un po’ scolastica; il serpentone in CGI è da rivedere, al pari del neonato che non mi è parso un bimbo in carne e ossa), per il resto lo sviluppo che la narrazione ha sa catturare l’attenzione, tuffandosi in una dimensione astratta Tlamess si affranca dalle costrizioni del racconto e inizia a folleggiare come più gli garba. Forse nella parabola umana che viene a modellarsi ci sono dei rimandi religiosi, se non addirittura dei veri e propri simboli (il rettile tentatore) che hanno degli echi – ora esagero – biblici. In generale l’allestimento di questo strambo rapporto uomo-donna, gestito per mezzo dell’eccellente escamotage della telepatia ottica, regge anche in raffronto al contesto ambientale circostante di cui si avverte la presenza tra la schiuma del mare ed il muschio del bosco.
Le conclusioni ordunque non divergono troppo da quelle del lungometraggio d’esordio. Slim è indubbiamente uno da appuntarsi nella propria lista, con il lavoro sotto esame conferma e rafforza la sua posizione di filmmaker con idee e voglia di sorprendere. Quello che il sottoscritto gli imputa è: l’aver ricalcato in modo marcato le modalità espositive del debutto, e l’appoggiarsi ancora un po’ troppo al registro finzionale e alle implicazioni che ne conseguono, se si riducesse tale vena artificiosa allora le cose diventerebbero assai intriganti, e, dati i presupposti, nulla vieta che possa accadere, il che ci farebbe posizionare in primissima fila pronti a goderci le trovate del tunisino.
lunedì 6 novembre 2023
Crystal World
Se le reiterate immagini subacquee della donna riportano per forza di cose fuoriorarie a Vigo, la composizione globale, e proprio di questo si tratta: di un composto, fa fede ad un concetto di videoarte – credo – abbastanza moderno. Non sperimentale, non avanguardistico: contemporaneo, dentro al tempo che abita, almeno dal punto di vista concettuale e realizzativo. Ammaliante e pure “scomodo” per l’inquietudine che diffonde il corredo sonoro, se la Borg aveva come obiettivo quello di allestire una realtà in progressiva solidificazione (e leggete la parola con una accezione negativa) penso sia condivisibile ammettere che ci sia riuscita, la cristallizzazione permanente, un po’ gotica un po’ švankmajeriana, trasmette le vibes adeguate. Ah, e quelle stalagmiti che salgono verso l’alto non ricordano il video di Crystalline girato da Gondry? Volendo sì, è solo un’altra suggestione che arricchisce il prestigioso parterre dei rimandi.
domenica 5 novembre 2023
Edificio España
Per impostazione e contesto ispanico viene quasi automatico pensare a En construcción (2001), ci sono evidenti differenze, geografiche: Barcellona, e pratiche: perché l’opera di Guerín, come da nome, aveva l’intenzione di esporre un processo di edificazione urbano andando poi a captare qualche affluente esistenziale che passava di lì, quella di Moreno, viceversa, si concentra su una destrucción, su uno smantellamento riprendendone, seppur in maniera non accuratissima, i diversi passaggi che portano i detriti fino alla discarica. Però la radice dei due lungometraggi è proprio similare, si tratta in entrambi i casi di porre il cinema in un cantiere e di far sì che arrivi allo spettatore una realtà scevra di inutili filtri. Rispetto al successivo La ciudad oculta, Edificio España è un oggetto decisamente più grezzo, e su questo credo non ci siano dubbi, lo si apprende dalle protratte sequenze con camera a mano traballante, da certi tagli un po’ repentini, dalla scelta di affidarsi solo alle luci naturali e soprattutto dalla mancanza di una matrice estetica davvero incisiva. Però, pur mancando di “bellezza”, il film include e dirama una genuinità da non disprezzare, nella rassegna di esseri umani che orbitano intorno all’edificio, nella maggior parte dei casi muratori, addetti alla sicurezza e tecnici vari, c’è spazio anche per narrazioni che esulano dall’illustrazione: c’è la storia di un fantasma e quella di un’intera vita passata in un appartamento. Non una proiezione trascendentale ma vedere queste laboriose cellule con caschetto intente a rivitalizzare un gigantesco corpo morto fatto di cemento armato, non è, come si abusa dire, così male.
sabato 4 novembre 2023
La montagne magique
venerdì 3 novembre 2023
If ou le rouge perdu
Dal punto di vista tecnico If ou le rouge perdu è gradevole senza tuttavia rendersi memorabile. Lo sfondo bianco fa da cornice nella quale germogliano in rapida successione brevi bozzetti in punta di matita, a parte i significativi rimandi vermigli non ci sono altri colori, i tratti sono essenziali, il minimalismo domina l’estetica dell’opera, di contro l’apparato sonoro mirato ad esacerbare quanto accade in video “riempie” l’impianto basic della forma, in altre parole pur non vedendo effettivamente un bosco o un ruscello li sentiamo il che equivale a vederli, ma in un altro modo. Piuttosto, se devo avanzare una perplessità verso l'impegno della Turcotte (e per l’ennesima volta sottolineo che per noi è facile giudicare senza sapere realmente cosa vuol dire operare nel campo dell’animazione), lo faccio rimarcando una fluidità non sempre al top, in alcuni frangenti ho ravvisato delle movenze un po’ vischiose, carenza che in maniera similare riscontrai in produzioni che bazzicavano territori simili (ricordo il russo Petrov o, mamma mia, il giapponese Ujicha), anche se qua l’effetto rallenti è meno vistoso e quindi si giunge alla fine con moderata scioltezza.
giovedì 2 novembre 2023
Labour of Love
L’idea di cinema che ha Sengupta è votata ad una massiccia estetizzazione, certo non si sconfina nel surreale sfrenato di Jonaki (2018), anche se, va detto, la sequenza finale trova residenza in una zona-oltre che non appartiene alla realtà, però l’impressione è che vi sia una cura meticolosa dedicata ad ogni singola scena (si veda come esempio l’attenzione riposta sul cibo), l’obiettivo evidente è di conferire eleganza e raffinatezza al girato, traguardo che, grazie ai numerosi carrelli laterali e ai morbidi spostamenti della mdp, credo sia stato raggiunto. Annotati tali riscontri bisogna capire che tipologia di settima arte si vuole vedere perché non tutti gli spettatori potrebbero andare in brodo di giuggiole al cospetto di un apparato eloquentemente finzionale. È anche vero che Labour of Love, pur proponendosi in una veste d’artificio, contempla un impianto realistico che lascia filtrare dei raggi onirici, e probabilmente la bravura che va riconosciuta a Sengupta sta proprio qua, ossia nella capacità di aver reso la concretezza di due esistenze simili a milioni di altre che sgomitano nel caos della megalopoli, sottilmente speciale, finemente magica, nonché dotata di una tenue speranza per i due protagonisti: di potersi sfiorare, anche se solo in sogno, poco prima che il sole sorga nuovamente.
Edit di 48 ore dopo: devo ammettere di essere stato un po’ freddo nei confronti del film il quale, a distanza di due giorni dalla visione, è fermentato e cresciuto non poco dentro di me. Penso che se si riesce a scendere a patti con la patina formale la poetica intimità che fuoriesce dagli umidi crocicchi di Calcutta valga il cosiddetto prezzo del biglietto.
mercoledì 1 novembre 2023
Days
Un punto da cui partire è la drammaturgia della pellicola, che in pratica non c’è. Non che prima avessimo a che fare con film pesantemente scritti, però in Days il comparto narrativo è pressoché prosciugato, divelto, azzerato. La trama, se così si può definire, si adagia su una sequenza fatta di quadri intessuti di realtà tanto da mettere in discussione gli amatiodiati confini della finzione. La dilatazione delle scene, forse ai massimi livelli nella carriera dell’autore, mostra quelle che sono delle banali routine quotidiane (preparazioni in cucina, sedute di agopuntura), nonostante vi sia, perché lo si sappia: è ovunque, a tratti si fatica a pensare che ci sia del cinema nell’osservare per molti minuti un tizio che dorme beato su un materasso. I propositi teorici di TM-l si situano però esattamente nella struttura che ha dato alla sua creatura, nella ricerca di una narrazione che è come se fosse già esistente nel mondo reale oltre la mdp, come se la storia di questi due uomini si raccontasse indipendentemente dal fatto che vi sia qualcuno a riprenderla. Potrà apparire ai più una bazzecola o al massimo un cruccio intellettualoide, ma la rottura della membrana che separa la netta impostazione da cosa non lo è, o non lo è del tutto, è un atto su cui vale la pena ragionare perché squaderna una caratteristica fondante del cinema attuale: il suo essere liquido, il suo penetrare anche negli interstizi più angusti per far sì che ogni cosa possa rientrare nella foggia cinematografica.
Sul mero piano dello sviluppo non posso dire che Rizi sia sorprendente. Alla fin fine il principale obiettivo di Tsai è rimasto inalterato da trent’anni a questa parte. L’essere umano è fottutamente solo nella giungla metropolitana e ha bisogno di un gesto, di un contatto, di una prossimità per poter sperare nel domani. In tal senso la progressione del film è un bignami Tsai-style in piena regola, attraverso le silenziose finestre che si affacciano sulle vite di Kang e Non veniamo a conoscenza della loro solitudine, e allora non sbalordisce troppo che ad un tratto vi sia un incontro e che da tale incontro, sebbene normato dal denaro, nasca qualcosa che, come la cattedra di Ming-liang insegna, non ha granché a che fare col sesso, è proprio una questione radicata nell’animo dell’uomo la necessità di riscaldarsi nell’altro. Ecco, i principi sono lodevoli e indubitabilmente veri, diciamo che nell’ universo di Tsai non sono propriamente un’innovazione e rivederli oggidì non aggiunge nulla al discorso cominciato nel lontano ’89 o giù di lì. Ma nemmeno toglie. Tant’è che descriverei Days così: confortante, come ascoltare una canzone simile ad un’altra che ti piaceva tanto, non tutto è giusto, non tutto è perfetto, ma sapere che esiste, che il suono di un carillon può legare due spiriti apparentemente senza destino, riesce a darmi forza e, nei panni di essere vivente nonché di spettatore, a consolarmi.