lunedì 20 novembre 2023

Tentare bei cieli più tersi

Il 20 novembre del 2007 aprivo questo blog, oggi, esattamente sedici anni dopo, è arrivato il momento di chiuderlo. I motivi sono più che evidenti e ritengo non ci sia neanche bisogno di elencarli poiché credo di averlo già fatto in passato, ma, davvero, ormai sono quasi dieci anni che non ha senso alcuno scrivere qualcosa (qualunque cosa!) su questo tipo di piattaforme, il mondo è radicalmente cambiato e le informazioni viaggiano giustamente su altri canali a ritmi a dir poco infernali. Che cosa rimane, allora, dopo più di tre lustri passati a scrivere? Non lo so. Quello che so, o che almeno penso di sapere, è che, per quanto mi riguarda, si è trattato di un viaggio straordinario, un percorso di crescita, di formazione e di educazione per il quale non ho dubbi nell’affermare che senza oltre il fondo non sarei la persona che sono ora, non avrei la sensibilità che in qualche modo ritengo di aver sviluppato e non continuerei ad avere quel desiderio rivolto alla costante scoperta, alla comprensione ma anche allo smarrimento, al misurarmi con ciò che è più grande di me, al rimanere nascosto, al chiedere di essere accettato pur rimanendo distaccato, lasciato, forse disperso, e dire che tutto è iniziato con un bacio che non mi vide protagonista, poi una crisi sentimentale post-adolescenziale, un cumulo di terra che sembrava una montagna, il rifugio nella scrittura, il sollievo nel cinema, l’impegno costante, la passione, le connessioni virtuali e quelle reali, lo dissi a te perché doveva essere così, la difficoltà nel mantenere un equilibrio, il sentirmi obbligato a scegliere tra le parole e la realtà, certamente i miei errori, e poi la separazione, il ritorno al nido, ancora nella culla, un nuovo inizio, lui che iniziava a stare male, i rapporti svilenti, i viaggi, il rumore che non riuscii mai a decifrare in una foresta vicino a Chiang Mai, lui che piano piano continuava a peggiorare, un illusorio brillio all’interno di quei rapporti, una influencer giapponese che saliva su per le scale delle Batu Caves, lui che entrava ed usciva dagli ospedali, una vecchia prostituta che cercava di trascinarmi nella sua alcova a Itaewon, lei, la mia prostituta, che ancora mi voleva, l’Apocalisse, l’epidemia, il rinnovato piacere del cinema in una vita improvvisamente cristallizzata, lei che se ne andava, lui che andava via per sempre, io che rimanevo solo, piccolo, impaurito dal futuro, la lenta ricostruzione del sé, l’assestamento lavorativo, una casa, un altro Mondo che, senza rendermene conto, invadeva dolcemente il mio, piano piano, sentendomi abbracciato, diverso, sciolto: fino a sentire che le righe che sto scrivendo adesso davanti al mio computer saranno le ultime, fino a sentire, in un modo che non riesco spiegare bene, di essere sereno.

Ecco cosa è successo in questi sedici anni: ho vissuto anche quando non credevo di vivere e oltre il fondo è sempre stato qui, in una dimensione che allo stesso tempo ha saputo essere esplicitamente pubblica ma anche intima, davvero personale: non sono mai stato me stesso come lo sono stato su queste pagine. Quindi, al mio lettino da psicoanalisi fatto di etere, o ombra benevola o angelo custode in HTML, non posso che dire uno sconfinato grazie, ci sono state volte che ti ho odiato, ma come ho letto in un libro che si intitola  A/metà di Jasmin B. Frelih “a volte proviamo tanta rabbia nei confronti delle persone che amiamo. Verso gli altri non proviamo dei sentimenti così forti. Quando ci leghiamo, quando ci leghiamo davvero a qualcuno, nei legami si creano delle bolle nelle quali trovano posto le cose più crude”, ma, e ora permettetemi di scadere un attimo nel banale, lasciatemi ringraziare chi mi ha accompagnato durante il tragitto, adesso li chiamano followers, un tempo avevano un nome dal sapore molto più antico: i lettori, vi devo esprimere tutta la mia riconoscenza, anche se ormai non c’è praticamente più nessuno che legge, non posso che sentirmi grato del tempo dedicatomi, fosse stata anche una visita accidentale o un rapporto più fedele e duraturo, devo ripeterlo: è stata un’avventura bellissima ed è stato un vero onore avervi al mio fianco. 

E quindi adesso che cosa farò? Che cosa resterà di me? Sgomberando il campo da un principio di malinconia, penso che, semplicemente, tenterò di mantenere anche nella vita vera la medesima attitudine portata avanti fino ad ora, che è, in buona sostanza, la tendenza a non fermarsi mai alla superficie delle cose cercando di andare giù, nel profondo, è infatti questa la piccola missione che provo a fare mia ogni santo giorno. Non è facile perché il mondo circostante è una specie di enorme magnete che attira a sé l’ovvietà, tutto nasce e si consuma in modo effimero, giusto il tempo di una storia tra un reel e l’altro. Non mollate, non molliamo: io sono solo un povero scemo come mille altri, non so un cazzo di niente della parola “vivere”, annaspo col muso a qualche centimetro dall’acqua torbida, mi addormento assalito dai pensieri e al mattino è come se dovessi mettermi in fila per andare dal boia, eppure, al pari dei-mille-altri, ho, abbiamo, ancora un qualcosa che ci portiamo dentro e che curiamo con tutta l’attenzione che si dà a ciò che riteniamo importante, se saremo bravi a tenere duro, a non farci travolgere, allora avremo ancora una speranza che potremo proiettare nei corpi, e quindi nei cuori, delle persone che ci stanno vicino. Quindi, se resterà qualcosa di oltre il fondo, e perciò di me stesso, saranno dei piccoli semini al di fuori di lui e, pertanto, anche di me, che magari in un futuro germoglieranno in un altrove, però, se proprio devo dare un’immagine conclusiva ed esplicativa che possa chiudere questo cerchio cominciato nel 2007 e terminato nel 2023, devo citare una canzone uscita di recente che si chiama The Likes Of Us dei Lanterns On The Lake, non so se perché è bella fresca  e pertanto mi risuona nuova nelle orecchie o perché effettivamente è un pezzo che quasi mi commuove ad ogni ascolto, il fatto è che poco oltre i tre minuti il brano sale di intensità, si apre, sboccia, alla voce della cantante si aggiunge un violino che fa da alveo e che trasporta il cantato su un altro piano fino ad amalgamarsi in un unico suono e allora mi sembra quasi che una pioggia possa uscire dalla terra per ripulire il cielo, ed è proprio questo che vorrei rimanesse di oltre il fondo: una vibrazione che si propaga dolce, una sensazione che si fa ricordo, una memoria che pulsa da qualche parte, al di là dello spazio e del tempo, dove finalmente potremo incontrarci di nuovo.

Infine, desidero dedicare ogni singola parola che ho scritto nel blog a mio papà che un giorno ha deciso di tentare bei cieli più tersi. A lui va il mio pensiero, il mio ricordo e il mio amore: per tutto quello che in vita purtroppo non ci siamo detti e che magari, anche inconsapevolmente, sono riuscito a dirgli qua dentro.

I won’t let this spark die in me.

Promontorio

La luce si affievolisce e io penso alla merda, a tutta quella che, dal momento in cui veniamo al mondo, espelliamo grazie al nostro sfintere. Dopo infiniti peripli nelle tubature, montagne russe, capriole e giri della morte, dove finisce? Dove sono finiti tutti gli escrementi che fin da quando ero un bimbo mamma e papà ripiegavano nel pannolino e che poi, crescendo, sono stati risucchiati dai gorghi dei cessi sui quali mi sono seduto? Credo che, semplicemente, siano finiti in mare, o al massimo in un fiume che poi, nel prolungamento del viaggio, tra strette anse e cascatelle, ha portato le mie feci verso la libertà acquea. Ora, tenendo conto che io ho sempre vissuto nella medesima città e che in trentasei anni di vita avrò defecato almeno tredicimila volte, penso al fatto che c’è molto, ma davvero molto di me, nello specchio d’acqua che ogni mattina vedo affacciandomi alla finestra. Certo, delle deiezioni di quando avevo dieci o venti anni non sarà più rimasto granché, tutto si sarà sfibrato, sfilacciato, dissolto nelle profondità marine oppure inghiottito dai golosi cefali (e quindi immesso di nuovo in mare attraverso le loro cacchine filamentose), tuttavia mi piace immaginare che ogni stronzo o stronzetto che ha abbandonato il mio corpo, una volta riunitosi nei fondali con i propri simili, sia stato capace di riagglomerarsi perché distrutto dalla nostalgia dell’organicità, e che io abbia cagato a Napoli, a Tokyo o a Barcellona, poco importa, la mia merda è riuscita a viaggiare dentro gli oceani per compattarsi proprio lì vicino dove vivo, questo è quello che penso mentre il buio si allunga nella mia camera e fuori le donne anziane con le vene varicose ciondolano di qua e di là tenendo in mano borse della spesa di plastica tese fino al limite dai loro pesanti contenuti.

A fianco del mio appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea, etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza di loro, senza di lei, sarei perso.

L’altro giorno sono stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana, mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi non abbiamo capito niente.

Io non ho molti ricordi di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori La mia banda suona il rock di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa Oro di Mango o Con il nastro rosa di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di uomini che si masturbano in cerchio.

Non ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che, durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho sentito di volergli bene.

L’oscurità è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere, praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni. Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.

sabato 18 novembre 2023

Noche En El Jardín Salvaje

Un cortometraggio in cui il regista costringe il proprio fratello ad essere un cartone animato all’interno di un mondo surreale e notturno.

Le poche (e uniche) righe che accompagnano Noche En El Jardín Salvaje (2015) dicono comunque tutto quel che c’è da dire, che è sostanzialmente niente perché nei sei minuti di girato non succede alcunché di meritevole, se non, ma questa è solo una deformazione professionale che mi spinge a visionare più titoli possibili di un dato regista senza che vi sia una concreta motivazione di fondo, la constatazione che Miguel Llansó, aiutato dal fratello Guillermo che ha sempre orbitato nelle sue produzioni, è un tipo eclettico, oltre che abbastanza fuori di senno, e che quando non è in giro per l’Etiopia a filmare situazioni e personaggi assurdi (ricordo il coevo Crumbs), il suo tasso di bizzarria non viene meno, anzi, se ripensiamo al precedente Perro Líquen (2012) e lo rapportiamo a Noche... ecco che abbiamo una “bella” coppia di lavori imperscrutabili. Qui l’accorgimento che visivamente spicca è l’utilizzo del timelapse (o è stop-motion? Mica so riconoscere bene la differenza...) praticamente per ogni fotogramma, il che incrementa l’atmosfera stramba del corto già assestata su un livello alto con il protagonista dotato di parruccona bianca, tunica e occhiali da carnevale. Il soggetto in questione dialoga con una voce off a proposito di un pregevole suono ascoltato un anno prima e che entrambi vorrebbero tanto risentire, nell’attesa il cielo notturno è solcato da stelle cadenti e le fronde del bosco ondeggiano per il vento, c’è un senso notturno, un odore nemorale, forse, ma proprio forse, anche una sottile inquietudine bilanciata da dosi di ironia (“il prossimo anno sarò in vacanza in Tunisia”), ma nello specifico cosa sia il suddetto giardino selvaggio, che cosa dica o faccia il tipo imparruccato o più in generale quale siano i perché e i percome di questo lavoro breve sono quesiti ai quali non sono minimamente in grado di rispondere.

venerdì 17 novembre 2023

Dakar

Atene è avvolta da una notte ferma, le luci del Pireo, il mare e un anziano uomo che si aggira per la città ascoltando una vecchia registrazione.

Dakar (2020) è un cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere, nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival. Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film precedente, Deconstructing Interruption (2016), dovrebbe essere una sorta di backstage dell’Interruption (2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di “contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che hanno un’impostazione similare a Dakar ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie che pare anche un tutto, ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.

giovedì 16 novembre 2023

Notturno

Be’, che non mi si venga a dire che Notturno (2020) non è la proiezione del suo predecessore Fuocoammare (2016), una simmetria, un riflesso, ok: ci sono delle divergenze ma preferisco partire da ciò che converge e in tal senso c’è un netto allineamento intellettuale compiuto da Gianfranco Rosi: il film ambientato a Lampedusa metteva a... fuoco (pardon) il problema-migranti, che poi lo facesse bene o male è un discorso che forse non sono riuscito a chiarire nemmeno a me stesso, però è innegabile che il topic della migrazione fosse il suo nodo centrale, l’opera girata tra Siria, Iraq e altri Paesi limitrofi non fa altro che andare alla radice del “problema” appena citato, e lo fa senza scivolare su un confronto lampante, senza spiattellare la faccenda in faccia allo spettatore, ed è allora qui che non si può fare a meno di chiedersi quante donne o uomini siriani, kurdi o libanesi si trovavano su quel barcone in Fuocoammare nella “famosa” sequenza della stiva, da questa angolazione Notturno è la premessa, l’antefatto umano che, peraltro, non smette di essere tale visti i continui flussi verso l’Italia. Quanto mi preme dire in sostanza è che nel collegamento tra i due documentari quello più recente si dimostra pudico nel mostrare i drammi di quelle zone, i conflitti ci sono ma solo oltre un orizzonte da cui provengono funerei rimbombi, la morte c’è ed è ovunque ma ’sta volta resta fortunatamente fuori campo, o al massimo sgorga dalle lacrime delle madri che visitano le carceri dove hanno torturato e ucciso i loro figli, oppure nei disegni dei bambini sopravvissuti alle terribili angherie dell’ISIS. In generale ritengo apprezzabile questo sottrarsi di Rosi alla frontalità della tragedia, questo suo interessarsi ai pezzetti di un mosaico marginale, d’altro canto le indicazioni geografiche ci parlano solo di zone di contiguità, alla fine paga abbastanza, o perlomeno paga molto di più rispetto a quando il mirino della cinepresa era puntato esclusivamente su un unico obiettivo, vedi il sopravvalutato Sacro GRA (2013).

Trattandosi di Rosi sappiamo che il livello estetico non può che assestarsi su un piano elevato, per alcuni critici forse troppo elevato al punto da creare uno scollamento tra la forma e il contenuto. In effetti, se si esclude il lavoro giovanile Boatman (1996), il cinema di questo autore ha subito un progressivo processo di estetizzazione tanto da trovarmi d’accordo con le parole di Leonardo Gregorio nella sua recensione su Gli Spietati (link) nella quale viene proposto un parallelo solo in apparenza azzardato con Paolo Sorrentino. Quando la patinatura di una pellicola prende il sopravvento su tutto il resto si ha come la sensazione che le tematiche affrontate si inaridiscano di fronte ad una messa in scena tirata ostinatamente a lucido, non so se sia un’impressione errata o un pensiero troppo intransigente, fatto è che in Notturno (e, dato che è stata una visione recentissima, anche, ad esempio, in È stata la mano di Dio, 2021) le immagini a tratti prevaricano sui possibili significati, non è che li inglobano in sé, li schiacciano proprio, il che non sarebbe affatto un difetto per certi esemplari cinematografici (e infatti per Sorrentino la riflessione è meno calzante), ma qui, in una prospettiva che si prefigge di cogliere la realtà, e nello specifico una realtà dura, difficile, complessa, una ricerca formale di tal fatta genera una sorta di idiosincrasia, come se l’urgenza di quei luoghi venisse coperta da una bellezza che forse non era così necessaria.

Non so, Rosi continua a mettermi in difficoltà, ma non è un mettermi alla prova, non è un cimentarsi con qualcosa di arduo da vedere, da capire, è più un ragionare senza troppa convinzione su un risultato che altrove produce risultati di ben altro spessore attraverso metodi meno appariscenti (penso sempre a Sylvain George), ciò non toglie che comunque qui vi siano scampoli di lucore che sono felice di aver visto, a prescindere dalle modalità espositive non capita tutti i giorni di entrare dentro ad un manicomio a Baghdad oppure ascoltare i messaggi vocali di una donna rapita dall’ISIS inviati alla mamma. Quindi non c’è un quindi e neanche una conclusione, Rosi è un signor professionista e questa è la sua idea di settima arte, nello sterminato panorama contemporaneo mantiene una posizione rispettabile, l’importante è sapere che esiste anche dell’altro.

mercoledì 15 novembre 2023

The Second Best

The Second Best (2013) è un altro lavoro pre-Crumbs (2015) del madrileno Miguel Llansó che bazzica i territori etiopi, ma, almeno per ciò che il sottoscritto ha potuto visionare, è anche il suo titolo più ordinato, più lineare, qui non ci sono slanci nel distopico o nel para-grottesco, tutt’altro, l’attenzione di stampo realista è rivolta a Wami Biratu, un maratoneta nato in Etiopia oscurato dalla leggenda di Abebe Bikila, il corridore che nell’epica maratona di Roma 1960 tagliò il traguardo... scalzo. Bikila è mancato nel ’73 a causa di un’emorragia celebrale, mentre Biratu nel momento in cui sto scrivendo queste righe (dicembre 2021) dovrebbe essere ancora vivo e vegeto, del resto nelle immagini di Llansó che lo riprendono già ultranovantenne lo vediamo in formissima impegnato in quella che viene definita come la sua ultima gara circondato dall’affetto degli altri partecipanti. È indubbiamente una bella storia di sport che mi ha ricordato un altro cortometraggio molto simile, sia per fattura che per tematiche, dal nome 42,195 Km (2010), in entrambi è agevole constatare che la narrazione sportiva esposta scavalla in qualcosa di più ampio che riguarda la Storia umana e sociale di un Paese e delle persone che lo abitano. Quindi, ok che il racconto è piacevole da ascoltare e da conoscere, ma per quanto concerne ciò che più ci interessa, ovvero il cinema, come siamo messi?

Eh, insomma, non proprio alla grande mi pare. Va bene che il regista spagnolo darà il meglio di sé nei due lungometraggi successivi, però anche nei suoi esemplari giovanili, seppur caotici e raffazzonati, permaneva sempre una qualche scintilla di estro (vedi Chigger Ale, 2013), in The Second Best il discorso è decisamente semplificato fino, me lo si conceda, ad essere appiattito. Non vi è la minima ricerca concettuale né l’interesse a vivacizzare la scena, l’intento è chiaramente quello di fornire il ritratto biografico di un atleta che al di fuori dei confini nazionali non ha mai ricevuto i riconoscimenti che meritava (a precisa domanda Bikila rispose che lui era il “migliore secondo” in Etiopia, lasciando piuttosto sgomenti i cronisti che Biratu non sapevano chi accidenti fosse), se ad uno spettatore tanto basta allora è libero di accomodarsi, per gli affamati visioni vere allora è meglio direzionarsi altrove.

martedì 14 novembre 2023

Bait

Quest’operazione di chirurgia estetica inversa mirata a invecchiare il paziente-film e non a ringiovanirlo, è una scelta che ha le sue radici negli interessi personali del regista Mark Jenkin, uno a cui piace molto di più la resa in video analogica rispetto a quella digitale. Io concordo però, seppur Bait (2019) possegga un aspetto anomalo, non si può certo dire che risulti seminale, sono infatti innumerevoli gli esemplari filmici che in passato hanno adottato un’impostazione simile, ciononostante l’opera ha un che di “curioso” se vista nella sua completezza, curiosità che nasce a mio avviso dal seguente contrasto: il racconto di una contemporaneità attraverso modalità apparentemente antiche. Il vestito che Jenkin ha cucito per Bait è difatti tutto sdrucito, slabbrato, imperfetto, pieno di finte abrasioni che sembrano fare della pellicola un ritrovamento da soffitta, tuttavia non ci vuole granché ad apprendere di come la vicenda ruoti intorno al polo magnetico della quotidianità, il denaro, e alle infinite diramazioni che da esso si irradiano, in particolare mi è parso che al filmmaker stia molto a cuore il discorso della tradizione incarnato dal pescatore Martin tallonato dai sintomi di una modernità non sana come la ricerca spasmodica di creare turismo, e quindi guadagno, in una zona dove il turismo non c’era mai stato (siamo in una piccola comunità costiera della Cornovaglia). Fissato a mente il quadro generale la domanda da porsi è: quanto è funzionale l’apparato formale imbastito da Jenkin per esporci la sua storia? Nel senso, ciò che ci ha proposto sarebbe potuto esistere anche con una forma più classica? Sono indeciso. La visione in sé è stata altalenante, se in alcuni frangenti ho percepito una valida concertazione, in altri no e lo spettro di uno sterile pavoneggiarsi si è fatto avanti.

Paradossalmente gli aspetti che più mi hanno impressionato sono anche quelli che ho trovato potenzialmente più criticabili, dal punto di vista della sintassi il flusso che riceviamo colpisce con discreta efficacia, è tangibile un’attenzione quasi maniacale per non dire ossessiva ai dettagli (sulle banconote e sui pesci, due istanze messe in dialogo visivo seguendo la traccia menzionata prima passato vs. presente/futuro) oltre che una serie di accorgimenti non proprio convenzionali, prendiamo l’insistenza sui primi piani che fanno del film una specie di western acquatico d’oltremanica o l’impianto sonoro che è stato inserito in toto in fase di post-produzione. Insomma, tira un’aria inusuale eppure, almeno per il sentire del sottoscritto, non si riesce a sfondare la porta della straordinarietà, è come se una volta tirata via questa corteccia artificiale Bait riveli una nudità meno interessante della sua stessa superficie, ché se qui c’era da riflettere sul capitalismo e derivati concettualmente non riesco a catalogare lo sforzo di Jenkin come memorabile, apprezzabile all’incirca sì, ma memorabile no.

lunedì 13 novembre 2023

The Children of Leningradsky

Onestamente non ricordo come ero arrivato a The Children of Leningradsky (2005), forse dopo la lettura di Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) (Adelphi, 2019) avevo fatto qualche ricerca in Rete ed ecco che era spuntato il documentario di Andrzej Celinski e Hanna Polak, o forse, come spesso accade, era stato lui a trovare me comparendo in una lista presa dagli oscuri anfratti di Internet. Comunque sia andata devo comunicare che purtroppo non sono molto felice dei trentatré minuti passati in compagnia di questo film, alla base del mio scarso gradimento c’è una confezione che sembra appartenere ad un’altra epoca e, beninteso, avrei detto la stessa cosa anche se lo avessi visto nel suo anno di uscita. Inutile girarci in giro: è un prodotto televisivo, anche se mostra una realtà durissima fatta di degrado, abbandono, droga e prostituzione, il taglio generale fornito dai due registi polacchi mira ad una accessibilità che possa arrivare ai più avvalendosi della frontalità delle immagini, al loro impatto sullo spettatore. Tralasciando la qualità video mal invecchiata a causa di quel digitale degli anni zero che oggi ci risulta quasi giurassico, la costruzione del corto è esclusivamente mirata all’esibizione del dramma in cui affoga l’esistenza di questi bambini randagi, le interviste alternate a scampoli della loro complicata vita, diventano, me lo si passi, uno show privo di reale, e quindi sì, ciò che più al sottoscritto è mancato è stata una verità nella visione.

Allora, non è che mi aspettassi di ritrovare un monolite post-sovietico à la Artour Aristakisian né potevo attendermi chissà quali sconvolgenti innovazioni visto che parliamo di un’opera che finì nell’orbita degli Oscar, però io so che il cinema ha in sé una forza radicale e quando mette bene a fuoco un argomento può essere letteralmente devastante, in The Children... si è lontani da un tale trasporto e la cosa fa incazzare perché qui la tematica è bella densa (ah, non l’ho ancora proferito: si parla di ragazzini soli al mondo che vivono nei pressi di una stazione metro moscovita) e c’era la possibilità di lasciare un segno molto più profondo. E visto che ho aperto il commento citando un libro, chiudo riportandone un altro: I poveri (minimum fax, 2020) di William T. Vollmann che non tratta direttamente di adolescenti allo sbando ma che nel suo reportage romanzato sugli ultimi del pianeta sfiora le sorti di una famiglia russa in balia del proprio destino. È un gran bel libro di un gigante della letteratura contemporanea, accaparratevelo.

sabato 11 novembre 2023

Where Is My Dog?

Un acerbo Miguel Llansó comincia a prendere confidenza con il Paese che poi diventerà il set principale di tutte le sue produzioni, l’Etiopia, e lo fa, per forza di cose, in maniera ancora un po’ (tanto) raffazzonata e traballante ma non completamente priva di idee. La questione che fa da miccia è la scomparsa di un cane e di come il regista stesso insieme ad un amico (Yohannes Feleke che figura come co-director) si adoperino nell’aiutare il padrone, un ex professore ora in pensione, nella ricerca dell’animale per le strade polverose di Addis Abeba. Un impianto visivo piuttosto rudimentale ci porta a stretto contatto con gruppi di ragazzini a cui viene promessa una ricompensa nel caso ritrovassero Leman, al che sorge spontanea una domanda: vuoi dire che Llansó prima delle bizzarrie distopiche di Chigger Ale (2013) e Crumbs (2015) si era interessato con una certa serietà alla realtà etiope circostante? Be’, alcune immagini ed alcune situazioni sembrano andare in tale direzione, la sensazione di camminare sul crinale della finzione-non-finzione è comunque affiancata dall’eloquenza di ciò che si vede, ovvero manipoli di ragazzetti che masticano una povertà per larga parte sconosciuta ai loro coetanei in occidente (carine le interviste sul tema “che ci faresti con quei soldi”) oppure l’estesa presenza di cani randagi, sia vivi che morti, presenti nella città. Insomma, Where Is My Dog? (2010) ha un cuore documentaristico, non è proprio frontale e penso che non fosse nemmeno l’obiettivo principe dei due registi, però traspare e lo si accoglie così come è.

Però questa parvenza di realismo, o, se vogliamo usare paroloni inappropriati, di cinema (per il?) sociale, si dissolve dopo metà proiezione mettendo a nudo le vere intenzioni di Llansó che sono più concettuali di quanto ci si poteva aspettare, seppur limitate dall’esiguità dei mezzi a disposizione. Non ci troviamo di fronte a chissà quale illuminante procedura che passerà alla storia della settima arte, si tratta di un giochino (ma non considerate questo termine in modo così dispregiativa) tanto datato quanto piacevole dove si smantella l’apparato finzionale generando sorpresa nello spettatore: allora era tutto finto? Per sorprendere il sottoscritto, e credo che valga lo stesso per voi prodi lettori, ce ne vuole, diciamo che ragionando sulla natura di Where Is My Dog?, e in particolare rispondendo al quesito qui sopra, si giunge a riflessioni che sfiorano il senso del vedere un film, dell’artificio che lo compone e dagli sprazzi di reale che comunque non possono fare a meno di affiorare dal suddetto artificio, e quest’ultima cosa, del tasso di verità contenuto nella menzogna, è piuttosto interessante e ritengo sia capace da sola a portare il corto alle soglie della sufficienza. Presente anche l’immancabile Daniel Tadesse che appare in qualche frame fino a salutare idealmente il pubblico con l’inchino finale.

venerdì 10 novembre 2023

Empty Metal

Dopo Another Day Without a Future, But What the Hell Another Day... (2012) l’esordio nel lungometraggio di Adam Khalil, qui coadiuvato da Bayley Sweitzer, un professionista del settore che ha lavorato anche in Diamanti grezzi (2019) dei fratelli Safdie, me lo aspettavo proprio così: fottutamente respingente, oltre che strano, bislacco e una quantità notevole di altri aggettivi capaci di descriverne la sua inconsueta natura. Detto ciò, al pari del cortometraggio precedente, ed anzi in maniera potenziata, anche Empty Metal (2018) possiede una gran bella energia che lo fa vibrare davanti a noi. La domanda allora è: questa energia, questa vibrazione, dove sono direzionate? Cioè che cosa smuovono, che cosa toccano? Non è semplice dare una risposta, pertanto preferisco ora rifugiarmi in un banale report tramico: ci sono gli Alien, una band che fa punk-elettronico, e c’è la loro insoddisfazione musicale ed esistenziale, c’è un trio, che poi forse diventa un quartetto, dotato di poteri sovrannaturali, che assolda il gruppo per compiere degli omicidi, c’è poi una specie di milizia clandestina che si esercita con le armi nei boschi e ci sono infine svariati rimandi ad un’idea di Fine, non si sa bene se del mondo tout court o se del mondo-dei-protagonisti-come-è-stato-finora (difatti la scena d’apertura sembra l’inizio di un film post-atomico). Insomma, di carne al fuoco ne abbiamo tanta e non mi vergogno a dire che probabilmente ce ne sia ancora di più di quanta il sottoscritto ne ha individuata, i limiti culturali che ho verso la cultura americana mi impediscono di essere più preciso, ma comunque, al di là delle tematiche affrontate, non si può non registrare una crescita di Khalil, quello che rimane è il caotico mix di supporti sulla scorta del sodale Fernández Molero, però è palpabile una maggiore orchestrazione, le immagini spesso sono “brutte” perché si rimbalza da riprese video fatte col cellulare a ricostruzioni in un 3D molto âgée ma non si direbbe mai, o quasi mai, che si è al cospetto di una produzione scadente.

Il fatto che Empty Metal sia nato in piena epoca trumpiana non credo sia un dettaglio, anzi si tratta di una vera e propria sommossa verso un certo tipo di politica, all’aria che tirava (e tira?) da quelle parti, la morte di George Floyd è successiva ma ciò fa del titolo sotto esame un preoccupante sguardo premonitore verso la discrepanza che sussiste tra lo Stato con la sua impunità ed il normale cittadino, si noti che le scene dove viene illustrato questo sbilanciamento di potere sono tutte riprodotte in computer grafica, come un fallace allontanamento da ciò che è reale. Tuttavia dubito fortemente che qualche pro-Trump abbia potuto cogliere la vena caustica che serpeggia nell’opera perché è mimetizzata in una cornice che sfiora il nonsense. È interessante, nonché difficile da decifrare, la duplice visione che Khalil dà della tenuta cospirativa, una fazione è più “comprensibile”, abbiamo infatti tre soggetti appartenenti a delle minoranze etniche (di cui il regista stesso fa parte essendo originario di una tribù nativa che si chiama Ojibway) che assumono un ruolo decisamente astratto, ci è suggerito che siano come dei sobillatori a spasso nel tempo, ma l’altra frangia insurrezionalista è più complicata da inquadrare perché sembrano, o forse è meglio dire sono, dei Proud Boys che accarezzano il loro AK-47 prima di andare a nanna, facinorosi che, riportando le parole di uno di essi, hanno un solo nemico: il Governo. Ecco, seguendo la doppia pista sovversiva è fornito uno schizzo dissennato, ma nemmeno troppo, di una realtà che non è, ovviamente, troppo diversa da quella che viviamo. L’Autorità prevarica, controlla, colpisce, e la storia continua a ripetere sé stessa.

giovedì 9 novembre 2023

Diamond Island

Così così questo lungometraggio cambogiano con importanti quote francesi alla produzione, e prima di inoltrarmi nel solito commento striminzito mi e vi pongo un quesito che al di là di ogni possibile difetto sta alla radice del mio scarso apprezzamento: può un film che è insindacabilmente orientale per via del set, dei temi trattati e degli attori coinvolti non piacere perché non abbastanza orientale? Il regista Davy Chou faticherebbe non poco a comprendere un tale interrogativo, mi metto nei suoi panni di giovane filmmaker e scorgo un debuttante che ha voluto raccontare uno spaccato adolescenziale all’interno di un definito contesto socio-culturale problematico, però, se lui si mettesse nei miei panni, ovvero quelli di uno spettatore occidentale che ha memoria ed esperienza di un cinema proveniente dall’Asia, e in particolare dal sud-est asiatico, credo sarebbe d’accordo nell’affermare che Diamond Island (2016) manca di quella stordente alterità che in passato ci ha letteralmente ribaltato dalla poltroncina della sala. Al sottoscritto, qui, tutto è sembrato troppo pulitino, una messa in scena orizzontale di drammi non particolarmente ficcanti, un’intelaiatura narrativa che si muove su binari prevedibili e una squadra di attori in erba che fa quel che può alle prese con dei ruoli monodimensionali. Se si è benevoli si potrebbe considerare la pellicola come un lavoro sincero perché si intuisce che è stata pensata, prodotta e girata... in buona fede, ma trovare dell’altro oltre la tiepida simpatia che suscita la vedo difficile.

E dire che di argomenti sul tavolo Chou ne mette parecchi: la condizione dei poveri lavoratori che si spostano dalle campagne della Cambogia verso la capitale per guadagnare qualcosa in più da mandare a casa, Phnom Penh e lo squilibrio tipico delle megalopoli che si trovano a quelle latitudini con i grandi contrasti irrisolti tra progresso tecnologico e tradizione (l’isola del titolo è un sito ultra moderno in costruzione collegato alla città da un ponte), le relazioni amorose tra i ragazzi del luogo (c’è un focus sul giorno di San Valentino che ha più o meno la stessa nostra valenza con però maggiore accento sulla componente sessuale), i legami di una famiglia interconnessi con le strade del futuro (gli Stati Uniti come terra promessa) e messi a dura prova da un evento luttuoso. È innegabile che tali questioni siano presenti in Diamond Island ma è altrettanto innegabile che sono tutti affrontati all’acqua di rose, il risultato è che questa è una visione che non incide, passa, scorre e la si dimenticherà molto presto. Da una premessa del genere, e in relazione al fatto che voglio sfruttare al meglio il mio tempo libero, non darei un’altra chance a Davy Chou.

Ah: caruccia la scena della neve.

mercoledì 8 novembre 2023

Soy tan feliz

Sei anni prima di Adiós entusiasmo (2017) il regista colombiano Vladimir Durán si cimenta in un cortometraggio “semplice” ma non banale, o almeno non troppo, Soy tan feliz (2011) ha infatti dalla sua la qualità di non voler strafare, di cogliere, seppur in un contesto finzionalizzato, la realtà di tre fratelli focalizzandosi in particolare sul rapporto esistente tra due di essi, Mateo, il più grande, e Bruno, un ragazzone dagli occhi dolci con forse qualche problema cognitivo. Il ritratto di questa famiglia, che non ha niente a che vedere con quella iper-disfunzionale del lungometraggio successivo, è in linea con quel cinema non commerciale arrivato dal Sudamerica dall’inizio del nuovo millennio in poi, mi riferisco ad una capacità della settima arte di insinuarsi con discrezione in una bolla locale facendo a meno di ridondanti sovrastrutture, la recitazione appare ridotta al minimo, la scrittura è appena appena percettibile e in generale il tasso di impostazione rimane al di sotto della soglia di allarme. Reygadas ci ha costruito una rispettabile carriera perseguendo dettami del genere, Durán, che di mestiere fa principalmente l’attore, non verrà ricordato per le sue abilità registiche ma questo suo lavoro, che mi risulta essere un esordio, si dà a noi così come il sottoscritto ha provato a descrivere.

La svolta, interessata a fornire una possibile significazione al frammento visivo di cui siamo spettatori, arriva con il finale dove si verifica una piccola catarsi sessuale che legittima dei passaggi precedenti. In sostanza ciò che ci arriva è il profilo di un ragazzo che vede nel fratello maggiore un modello da imitare (la rasatura dei capelli) e verso il quale prova un amore che trascende la consanguineità per farsi fisico, ferino, istintivo. Non si potrà dire che la conclusione sia memorabile, però il set semi-desertico ed il relativo contatto ravvicinato con la terra non è male, nell’abbandono a sé stesso di Bruno supino sull’erba e in preda ai suoi tormenti, emerge un primo piano che non sfigurerebbe in un’opera di un altro Bruno, Dumont, girata intorno alla prima decade degli anni zero. Bei tempi.

martedì 7 novembre 2023

Tlamess

È molto, molto simile al precedente The Last of Us (2016) questo Tlamess (2019), lo è nello scheletro che lo costituisce, una bipartizione oltremodo netta, e lo è nella parziale asimmetria delle due sezioni, secondi tempi diversi dai primi con dei ma. Andiamo per gradi: lautore (massì, insigniamolo di tale carica) tunisino Ala Eddine Slim accende lapparato narrativo con una fuga, è quella di un soldato che sfruttando una settimana di congedo decide di abbandonare l'uniforme e fuggire non si sa verso dove, nella realtà filmica cè una precisa sovrapposizione con Akher Wahed Fina, là era un clandestino che tentava di andare altrove, qui è un uomo, altrettanto disperato, che vuole evidentemente lasciarsi alle spalle un mondo che non gli appartiene (e non solo a lui visto il suicidio del commilitone). In questo frangente, che dura quaranta e rotti minuti, Slim si concede qualche licenza tecnica da non disprezzare, diciamo che esteticamente hanno i loro perché dei carrelloni che esaltano il paesaggio urbano, sospesi movimenti laterali o efficaci regressioni visive che cambiano la percezione della visione, come se “qualcosa” di strano, oltre la storia del fuggitivo sullo schermo, aleggiasse continuamente nella scena. La mano del regista, quindi, si sente e si vede, non parliamo di un esemplare asciutto, radicale, oltranzista, piuttosto una via di mezzo sbilanciata comunque sul versante dessai, certo è che una volta delineato leclissarsi del militare (chiudiamo un occhio sulla trama che si piega allesigenza di farlo scappare via nonostante larresto) era necessario imprimere una svolta, io stesso, dalla mia postazione di spettatore, ne ho avvertito la necessità perché altrimenti lopera avrebbe rischiato di inaridirsi, e Slim non si fa attendere concedendosi un interessante pedinamento del fuggiasco nudo e insanguinato con una bella partitura di chitarre distorte ad accompagnare le immagini ferine. In pratica Tlamess inizia, o meglio, ri-inizia da qua.

Senza esagerare in elucubrazioni tramiche che tanto non ce nè bisogno, ciò che funziona del second half è lo scollamento quasi totale con il blocco iniziale, ma è quel “quasi” che fa la differenza: cè unellissi che disorienta, nel lasso di tempo intercorso, non breve a giudicare dalla capigliatura del protagonista, accadono fatti a noi tenuti nascosti, S (per entrambe le pellicole di Slim le schede sui vari siti indicano con una sola lettera i nomi dei suoi personaggi) acquisisce una consapevolezza differente, lui stesso sembra una persona diversa, per di più parecchio somigliante alleremita di TloU al punto di farmi pensare ad unipotetica connessione interfilmica, sia quel che sia, con lapparizione del nuovo S, una sorta di sciamano boschivo, anche il film prende una traiettoria decisamente, ma decisamente, sovrannaturale. Qualche dettaglio lavrei rifinito meglio (lillustrazione dellinfelicità esistenziale della donna è un po’ scolastica; il serpentone in CGI è da rivedere, al pari del neonato che non mi è parso un bimbo in carne e ossa), per il resto lo sviluppo che la narrazione ha sa catturare lattenzione, tuffandosi in una dimensione astratta Tlamess si affranca dalle costrizioni del racconto e inizia a folleggiare come più gli garba. Forse nella parabola umana che viene a modellarsi ci sono dei rimandi religiosi, se non addirittura dei veri e propri simboli (il rettile tentatore) che hanno degli echi – ora esagero – biblici. In generale lallestimento di questo strambo rapporto uomo-donna, gestito per mezzo delleccellente escamotage della telepatia ottica, regge anche in raffronto al contesto ambientale circostante di cui si avverte la presenza tra la schiuma del mare ed il muschio del bosco.

Le conclusioni ordunque non divergono troppo da quelle del lungometraggio desordio. Slim è indubbiamente uno da appuntarsi nella propria lista, con il lavoro sotto esame conferma e rafforza la sua posizione di filmmaker con idee e voglia di sorprendere. Quello che il sottoscritto gli imputa è: laver ricalcato in modo marcato le modalità espositive del debutto, e lappoggiarsi ancora un po’ troppo al registro finzionale e alle implicazioni che ne conseguono, se si riducesse tale vena artificiosa allora le cose diventerebbero assai intriganti, e, dati i presupposti, nulla vieta che possa accadere, il che ci farebbe posizionare in primissima fila pronti a goderci le trovate del tunisino.

lunedì 6 novembre 2023

Crystal World

In Crystal World (2013) c’è un pizzico di Bertrand Mandico e forse anche uno di Guy Maddin perché ciò che l’australiana Pia Borg ha compiuto nel suo lavoro breve è, mi si passi il termine, una rimodernizzazione di protocolli cinematografici d’antan, e quindi vale tutto per concorrere al modellarsi di un prodotto che trasuda artigianalità ma anche, va detto, professionalità. Tratto da un romanzo di Ballard tradotto da noi col titolo Foresta di cristallo, il corto, servendosi dei paradigmi dell’animazione weird, sicché stop-motion e tecniche equipollenti, e operando di taglia e cuci su La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton, diventa apertura su un mondo d’apnea, sotto una superficie che è anche sopra, che forse è un tutto o qualcosa che le si avvicina. La brevità dell’oggetto in siffatti casi non aiuta, o meglio, non aiuta uno spettatore incatenato alla razionalità, chi al contrario preferisce mollare le redini canoniche e affidarsi all’artista di turno troverà asilo in forme espressive variegate e, seppur ammantate da una certa decadenza, vivaci.

Se le reiterate immagini subacquee della donna riportano per forza di cose fuoriorarie a Vigo, la composizione globale, e proprio di questo si tratta: di un composto, fa fede ad un concetto di videoarte – credo – abbastanza moderno. Non sperimentale, non avanguardistico: contemporaneo, dentro al tempo che abita, almeno dal punto di vista concettuale e realizzativo. Ammaliante e pure “scomodo” per l’inquietudine che diffonde il corredo sonoro, se la Borg aveva come obiettivo quello di allestire una realtà in progressiva solidificazione (e leggete la parola con una accezione negativa) penso sia condivisibile ammettere che ci sia riuscita, la cristallizzazione permanente, un po’ gotica un po’ švankmajeriana, trasmette le vibes adeguate. Ah, e quelle stalagmiti che salgono verso l’alto non ricordano il video di Crystalline girato da Gondry? Volendo sì, è solo un’altra suggestione che arricchisce il prestigioso parterre dei rimandi.

domenica 5 novembre 2023

Edificio España

Nonostante le visioni a firma di Víctor Moreno siano state, ad oggi, soltanto due, riesco a rintracciare una continuità tra di esse, un collegamento tanto semplice quanto efficace: se The Hidden City (2018) si occupava di mostrarci cosa si cela nel sottosuolo di Madrid, Edificio España (2014) fa l’esatto contrario, ovvero si interessa a ciò che sta sopra, a ciò che è ben visibile da chiunque nella capitale spagnola. Il regista ha un obiettivo preciso, un grattacielo che si chiamava proprio come il titolo del film ubicato di fronte a Plaza de España e costruito sul finire degli anni ’40 a manifesto del potere franchista. Moreno arriva con la sua videocamera nel 2007 all’interno del palazzo a seguito dell’acquisto da parte del Banco Santander che all’epoca aveva deciso di reinvestire sull’Edificio compiendo un’imponente ristrutturazione interna in modo da trasformarlo in un hotel. Il documentario si ferma qua, nel senso che coglie il momento di transizione tra passato e un ipotetico futuro, ma la storia, consultabile in Rete, dirà poi che il progetto pensato dal potente istituto di credito naufragherà nel 2010 lasciando i lavori di rifacimento in completo abbandono, solo nel 2014, con l’ingresso di un gruppo cinese, la si tuazione sembrò vicina a sbloccarsi ma nei fatti si dovette attendere il 2017 con un ulteriore passaggio di proprietà al Baraka Group affinché si potesse dare nuovo lustro al prestigioso immobile. Solo nel 2019 l’hotel quattro stelle Riu Plaza España ha finalmente aperto i battenti, della sua lunga e travagliata vicenda Edificio España diventa allora una piccola e, perché no, anche preziosa, testimonianza visiva

Per impostazione e contesto ispanico viene quasi automatico pensare a En construcción (2001), ci sono evidenti differenze, geografiche: Barcellona, e pratiche: perché l’opera di Guerín, come da nome, aveva l’intenzione di esporre un processo di edificazione urbano andando poi a captare qualche affluente esistenziale che passava di lì, quella di Moreno, viceversa, si concentra su una destrucción, su uno smantellamento riprendendone, seppur in maniera non accuratissima, i diversi passaggi che portano i detriti fino alla discarica. Però la radice dei due lungometraggi è proprio similare, si tratta in entrambi i casi di porre il cinema in un cantiere e di far sì che arrivi allo spettatore una realtà scevra di inutili filtri. Rispetto al successivo La ciudad oculta, Edificio España è un oggetto decisamente più grezzo, e su questo credo non ci siano dubbi, lo si apprende dalle protratte sequenze con camera a mano traballante, da certi tagli un po’ repentini, dalla scelta di affidarsi solo alle luci naturali e soprattutto dalla mancanza di una matrice estetica davvero incisiva. Però, pur mancando di “bellezza”, il film include e dirama una genuinità da non disprezzare, nella rassegna di esseri umani che orbitano intorno all’edificio, nella maggior parte dei casi muratori, addetti alla sicurezza e tecnici vari, c’è spazio anche per narrazioni che esulano dall’illustrazione: c’è la storia di un fantasma e quella di un’intera vita passata in un appartamento. Non una proiezione trascendentale ma vedere queste laboriose cellule con caschetto intente a rivitalizzare un gigantesco corpo morto fatto di cemento armato, non è, come si abusa dire, così male.

sabato 4 novembre 2023

La montagne magique

Chi ha visto Crulic - The Path to Beyond (2011) [1] sa che il temperamento della rumena Anca Damian è di quelli da tenere sotto stretta sorveglianza, il punto di base è che l’animazione permette di implementare le proprie forme espressive, e quando le cose vanno bene ne giovano tutti, sia i registi che gli spettatori. Rispetto al film precedente appena citato La montagne magique (2015) riduce il suo impegno civile o, se vogliamo, il suo essere “cinema di denuncia”, in favore di una narrazione a più ampio respiro che cavalca una biografia personale a sua volta ancorata alla collottola del grande bisonte della Storia. L’attenzione della Damian è riposta nella figura di Adam Jacek Winkler, un personaggio decisamente eclettico nato in Polonia interessato alle discipline più disparate, dalle arrampicate al disegno passando per la fotografia e il giornalismo. Dall’opera in esame riceviamo inizialmente un paio di informazioni, quella che più spicca è una certa insofferenza verso il regime sovietico che punzecchia dal suo esilio parigino, ma le cose entrano davvero nel vivo quando Winkler decide di partire per l’Afghanistan, nel Panjshir, e combattere insieme ai mujahideen gli invasori russi. Arrivati qui il sottoscritto ha avuto una piacevole epifania, di quelle che ti fanno credere, nonché sperare, che vi siano collegamenti sotterranei tra manufatti artistici distanti tra loro, perché la vicenda a cui assistiamo è praticamente la medesima vissuta da William Vollmann descritta in Afghanistan Picture Show: ovvero, come ho salvato il mondo, memoir di resistenza non senza autoironia ristampato nel 2020 da minimum fax. Che vantaggi comporta questa associazione tra cinema e letteratura? Nessuna. Però è in un qualche modo bello constatare che esistono sentimenti simili anche tra esseri umani agli antipodi.       
La struttura pensata dalla regista è alla lontana documentaristica perché abbiamo un lungo commento fuori campo, che in realtà è un dialogo con la figlia (accreditata come co-sceneggiatrice), da parte di Winkler sulle immagini che scorrono in video. Ma appunto le immagini: il piatto forte della Damian risiede proprio nell’estro che è riuscita ad imprimere all’estetica della pellicola, un lavoro che penso chiunque potrebbe definire minuzioso perché i suddetti chiunque non hanno idea dei processi creativi che ne sottendono la realizzazione. La percezione che se ne ha è un variegatissimo patchwork che unisce tecniche e stili, la classicità delle due dimensioni si innesta in visioni tridimensionali così come scampoli di stop-motion sbucano all’interno di curiosi collage fotografici tra realismo e una sua rappresentazione. Se di primo acchito si è un po’ frastornati da cotanta versatilità, con l’avanzare della proiezione le frequenze si assestano riuscendo a farci entrare nell’atmosfera del film, che è cruda occupandosi di una guerra, ma anche malinconica essendo in buona sostanza il lungo flashback di una persona che non c’è più e che ha avuto una vita incredibile. Certo, qualcuno potrà anche ritrarsi al cospetto di un titolo del genere, del resto cosa può avere di stuzzicante un biopic animato che bazzica in territori afghani? Vero. Occhio però, in quanto abitanti di questo pianeta suggerirei di non snobbare troppo situazioni ed eventi che avvengono a migliaia di chilometri da noi, non è ovviamente solo l’arte ad essere potenzialmente connessa in un reticolo di intuizioni e impressioni, ci sono aspetti costantemente urgenti da comprendere, e un oggetto nascosto come La montagne magique può essere un buon viatico alla conoscenza. Sull’argomento vale la pena recuperare anche Bitter Lake (2015).
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[1] E io l’ho visto, e ne avevo pure scritto, però per ragioni a me oscure non c’è più traccia di quel post qui sul blog. È la prima volta che succede, o almeno è la prima volta che me ne accorgo, magari sono spariti decine e decine di altri post. Non ho idea di cosa sia successo, di certo il mondo continuerà ad andare avanti come sempre, voi, nel mentre, ricordatevi che esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola.

venerdì 3 novembre 2023

If ou le rouge perdu

Criptico cortometraggio animato diretto da una regista canadese di nome Marie-Hélène Turcotte, If ou le rouge perdu (2016) ruota su un perno che potremmo definire in prima battuta venatorio, lillustrazione in movimento riguarda infatti quello che sembra un episodio di caccia ai danni di un uccello (nelle descrizioni in Rete viene individuato come un fagiano), ma le situazioni che si generano sullo schermo suggerirebbero uno sfondamento della banale immagine di una donna armata di fucile che insegue un volatile, si subodora dellaltro che attinge a quello che forse è il passato della cacciatrice o magari, in unottica più ampia, un passato universale. Il titolo inglese potrebbe aiutare: Red of the Yew Tree, in italiano lo “yew tree” è il tasso, una conifera dalle caratteristiche escrescenze rosse molto velenose che Wikipedia ci dice essere conosciuta anche come “albero della morte”. Ecco, una sensazione che esce fuori dal film possiede uno spessore funebre, non si sa come né perché ma rimane abbastanza impressa la cifra mortuaria che la Turcotte ha inserito nel suo lavoro, e non che vi siano chissà quali lugubri manifestazioni, però labbraccio che unisce i due esseri viventi del corto pare il medesimo tanto che, ma questa è uninterpretazione del tutto personale, ho visto una sovrapposizione tra la ragazza e il fagiano, un destino comune, una fusione nel rosso-sangue simbolizzata dalle bacche della pianta.

Dal punto di vista tecnico If ou le rouge perdu è gradevole senza tuttavia rendersi memorabile. Lo sfondo bianco fa da cornice nella quale germogliano in rapida successione brevi bozzetti in punta di matita, a parte i significativi rimandi vermigli non ci sono altri colori, i tratti sono essenziali, il minimalismo domina lestetica dellopera, di contro lapparato sonoro mirato ad esacerbare quanto accade in video “riempie” limpianto basic della forma, in altre parole pur non vedendo effettivamente un bosco o un ruscello li sentiamo il che equivale a vederli, ma in un altro modo. Piuttosto, se devo avanzare una perplessità verso l'impegno della Turcotte (e per lennesima volta sottolineo che per noi è facile giudicare senza sapere realmente cosa vuol dire operare nel campo dellanimazione), lo faccio rimarcando una fluidità non sempre al top, in alcuni frangenti ho ravvisato delle movenze un po vischiose, carenza che in maniera similare riscontrai in produzioni che bazzicavano territori simili (ricordo il russo Petrov o, mamma mia, il giapponese Ujicha), anche se qua leffetto rallenti è meno vistoso e quindi si giunge alla fine con moderata scioltezza.

giovedì 2 novembre 2023

Labour of Love

Lui e lei a Calcutta in un appartamento disordinato che si affaccia su un vicolo, un nido, un presidio dove poter tornare dopo un giorno di lavoro, uno spazio che però non può essere condiviso. Il primo film di Aditya Vikram Sengupta esplora questa faglia che separa la coppia, e lo fa con grande autorialità tanto che Asha Jaoar Majhe (2014), per modalità (assenza di dialoghi) e tempistiche (decisamente slow), potrebbe provenire da qualche Paese ancora più a oriente, come la Thailandia o Taiwan. Nell’illustrarci la giornata tipo del duo, il regista indiano si focalizza su quei piccoli gesti che formano l’ordinaria quotidianità, il quadro che ne risulta ha una specie di struttura speculare perché, sebbene le cose non siano troppo esplicite, c’è una corrispondenza tra le azioni del ragazzo con quelle della ragazza, delle rime visive che riguardano la preparazione del pasto, il riposo a letto, il chiamarsi sul cellulare a mo’ di sveglia, il riporre qualche moneta nel salvadanaio, tutte queste immagini ricorsive contribuiscono a dare musicalità ad un’opera che per lo spettatore con poca pazienza potrebbe apparire ferma, bloccata nella micro-situazione di cui si occupa. La premessa che sta dietro alla storia narrata e che viene esplicitata nell’introduzione su sfondo nero, concerne una crisi economica che affligge l’India, una recessione che colpisce maggiormente le professioni umili, è un’informazione lanciata lì, non approfondita, che però aiuta forse ad agevolare l’accesso nell’asciutto racconto, se gli innamorati non si incontrano nemmeno nella loro casa è perché qualcosa di più forte li obbliga a stare lontani, un qualcosa molto semplice e universale: la necessità di tirare avanti facendo dei sacrifici.

L’idea di cinema che ha Sengupta è votata ad una massiccia estetizzazione, certo non si sconfina nel surreale sfrenato di Jonaki (2018), anche se, va detto, la sequenza finale trova residenza in una zona-oltre che non appartiene alla realtà, però l’impressione è che vi sia una cura meticolosa dedicata ad ogni singola scena (si veda come esempio l’attenzione riposta sul cibo), l’obiettivo evidente è di conferire eleganza e raffinatezza al girato, traguardo che, grazie ai numerosi carrelli laterali e ai morbidi spostamenti della mdp, credo sia stato raggiunto. Annotati tali riscontri bisogna capire che tipologia di settima arte si vuole vedere perché non tutti gli spettatori potrebbero andare in brodo di giuggiole al cospetto di un apparato eloquentemente finzionale. È anche vero che Labour of Love, pur proponendosi in una veste d’artificio, contempla un impianto realistico che lascia filtrare dei raggi onirici, e probabilmente la bravura che va riconosciuta a Sengupta sta proprio qua, ossia nella capacità di aver reso la concretezza di due esistenze simili a milioni di altre che sgomitano nel caos della megalopoli, sottilmente speciale, finemente magica, nonché dotata di una tenue speranza per i due protagonisti: di potersi sfiorare, anche se solo in sogno, poco prima che il sole sorga nuovamente.

Edit di 48 ore dopo: devo ammettere di essere stato un po’ freddo nei confronti del film il quale, a distanza di due giorni dalla visione, è fermentato e cresciuto non poco dentro di me. Penso che se si riesce a scendere a patti con la patina formale la poetica intimità che fuoriesce dagli umidi crocicchi di Calcutta valga il cosiddetto prezzo del biglietto.

mercoledì 1 novembre 2023

Days

Non può esistere inizio più tsaiano di quello che apre Rizi (2020): Lee Kang-sheng che contempla un temporale oltre la finestra e subito dopo sempre Lee immerso in una vasca colma d’acqua. Sappiamo tutti, almeno coloro che conoscono il cinema di Tsai Ming-liang, quanto i rimandi idrici siano una costante nella sua arte, e questa apertura di Days, oltre che ricordarci i tempi andati, è un po’ un dettaglio-manifesto perché qui il regista di Taiwan ritorna a fare ciò per cui è diventato insindacabilmente un Maestro. Da Stray Dogs (2013) in poi il percorso di Tsai ha abbandonato la si fa per dire canonicità che fino a quel momento lo aveva caratterizzato per sondare altri territori, in generale il sottoscritto non ha mai visto niente capace di illuminargli realmente gli occhi, però non riconoscergli una certa intraprendenza sarebbe da ottusi. Quindi, tra monaci buddisti alla moviola e messe in serie di primi piani, un titolo come quello sotto esame rappresenta una discontinuità col presente ed un ricollegamento col passato. Dài, c’è così tanto di The Hole – Il buco (1998) o di I Don’t Want to Sleep Alone (2006) che per un attimo mi è sembrato di essere tornato indietro di dieci anni, quando ancora c’era davvero un’attesa febbrile prima di visionare l’ultima produzione di un peso massimo contemporaneo. Tuttavia, smaltito l’epidermico entusiasmo e una volta presa confidenza con la proiezione, sono emersi degli elementi recapitanti un oggetto filmico che presenta ovviamente una forte paternità autoriale e che allo stesso tempo ha degli attributi “nuovi”, possibili frutti del recente tragitto artistico.

Un punto da cui partire è la drammaturgia della pellicola, che in pratica non c’è. Non che prima avessimo a che fare con film pesantemente scritti, però in Days il comparto narrativo è pressoché prosciugato, divelto, azzerato. La trama, se così si può definire, si adagia su una sequenza fatta di quadri intessuti di realtà tanto da mettere in discussione gli amatiodiati confini della finzione. La dilatazione delle scene, forse ai massimi livelli nella carriera dell’autore, mostra quelle che sono delle banali routine quotidiane (preparazioni in cucina, sedute di agopuntura), nonostante vi sia, perché lo si sappia: è ovunque, a tratti si fatica a pensare che ci sia del cinema nell’osservare per molti minuti un tizio che dorme beato su un materasso. I propositi teorici di TM-l si situano però esattamente nella struttura che ha dato alla sua creatura, nella ricerca di una narrazione che è come se fosse già esistente nel mondo reale oltre la mdp, come se la storia di questi due uomini si raccontasse indipendentemente dal fatto che vi sia qualcuno a riprenderla. Potrà apparire ai più una bazzecola o al massimo un cruccio intellettualoide, ma la rottura della membrana che separa la netta impostazione da cosa non lo è, o non lo è del tutto, è un atto su cui vale la pena ragionare perché squaderna una caratteristica fondante del cinema attuale: il suo essere liquido, il suo penetrare anche negli interstizi più angusti per far sì che ogni cosa possa rientrare nella foggia cinematografica.

Sul mero piano dello sviluppo non posso dire che Rizi sia sorprendente. Alla fin fine il principale obiettivo di Tsai è rimasto inalterato da trent’anni a questa parte. L’essere umano è fottutamente solo nella giungla metropolitana e ha bisogno di un gesto, di un contatto, di una prossimità per poter sperare nel domani. In tal senso la progressione del film è un bignami Tsai-style in piena regola, attraverso le silenziose finestre che si affacciano sulle vite di Kang e Non veniamo a conoscenza della loro solitudine, e allora non sbalordisce troppo che ad un tratto vi sia un incontro e che da tale incontro, sebbene normato dal denaro, nasca qualcosa che, come la cattedra di Ming-liang insegna, non ha granché a che fare col sesso, è proprio una questione radicata nell’animo dell’uomo la necessità di riscaldarsi nell’altro. Ecco, i principi sono lodevoli e indubitabilmente veri, diciamo che nell’ universo di Tsai non sono propriamente un’innovazione e rivederli oggidì non aggiunge nulla al discorso cominciato nel lontano ’89 o giù di lì. Ma nemmeno toglie. Tant’è che descriverei Days così: confortante, come ascoltare una canzone simile ad un’altra che ti piaceva tanto, non tutto è giusto, non tutto è perfetto, ma sapere che esiste, che il suono di un carillon può legare due spiriti apparentemente senza destino, riesce a darmi forza e, nei panni di essere vivente nonché di spettatore, a consolarmi.