
Del
lanthimosiano che c’è in Adiós entusiasmo (2017) ha
scritto bene l’ottimo Il tempo impresso (link) con il quale mi
sento di condividere il ragionamento che attraverso il confronto con
Dogtooth (2009) porta al giudizio globale, tuttavia, fidandoci
di una stringata informazione che ho trovato su un sito basco
(ri-link), la fonte di ispirazione del principalmente attore Vladimir
Durán sarebbe un documentario spagnolo del 1976 intitolato El
desencanto. Sia quel che sia,
l’esordio nel lungometraggio di questo regista colombiano (ma il
film è tutto argentino) ha delle cose che all’incirca funzionano,
su tutte quella di non affidare se stesso esclusivamente ad una
narrazione consequenziale, all’interno dell’appartamento sussiste
una condizione di stasi che non fa procedere né regredire, uno
stagnamento dal carattere claustrofobico (ma tranquilli, di ossigeno
ce n’è eccome, sono altre le visioni da apnea), e pur essendo io
conscio che si poteva fare di più, che Durán aveva le carte in
regola per risultare maggiormente incisivo se avesse lasciato in
secondo piano la mera sceneggiatura, l’atmosfera da Kammerspiel
spagnoleggiante, per abusare di litote, non è male. Come non è
altrettanto male la scelta di scansare la metafora manifesta
(problema che col tempo ho ravvisato nel cinema di Lanthimos &
soci), se il micro-cosmo casalingo allestito ha un significato al di
là della rappresentazione è meno evidente e meno diretto di quanto
si pensi, la famiglia disfunzionale di Durán è abbastanza libera da
paralleli e allegorie sociologiche (certo, potrebbe essere – o
forse è – anche una sua debolezza, ma dopo le indigestioni di
ondate greche per me va bene così), la madre vive separata dai figli
per motivi sconosciuti (o giusto accennati) e sforzarmi a leggere
dell’altro dietro tale segregazione è un’azione che non mi va di
compiere.
Arrivati
alla fine si percepisce comunque un senso di incompiuto, di
potenziale inespresso. È come se l’opera flirtasse con una
dimensione astratta senza però avere mai il coraggio di buttarcisi a
capofitto, nel limbo realistico che si dispiega in formato panoramico
sullo schermo capiamo che al regista interessa mettere a punto un
sistema femmineo-centrico dove gli uomini sono assenti (i padri, non
pervenuti) anche se presenti (i due fidanzati, idem), ad eccezione
del piccolo Axelito che infatti avrà una parte decisiva nelle
battute finali (è lui che squaderna varie verità sulle sorelle nel
gioco di ruolo tra i partecipanti alla festa ed è ancora lui ad
oltrepassare il confine nel bagno), l’inscenare un habitat muliebre
del genere in contrapposizione all’assenza fisica della mamma, è
una raffigurazione che rimane nel suddetto campo, è un disegno, un
quadretto che si osserva con distacco. Sicuramente si è visto molto
di peggio ma a furia di adagiarci su frasi fatte si finisce per
fornire alibi a produzioni che invece di puntare all’eccellenza si
accontentano di galleggiare nell’oceano dell’autorialità, non
che codesto mare sia un’infima pozzanghera, però è talmente pieno
di imbarcazioni che raggiungono un sufficiente livello qualitativo da
spingerci a desiderare film che sanno inabissarsi verso il fondo o
magari decollare verso il cielo, Adiós entusiasmo
staziona sulla linea di un ben noto orizzonte, a voi le conclusioni.
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